La malga nella tempesta
Capitolo 2 - Seconda parte

Il fango davanti alla baita è diventato un banco di sabbie mobili, mi afferra le scarpe da ginnastica, come a volermele sfilare pur di impedirmi di arrivare alla porta dalle assi annerite. La pioggia solleva schizzi nelle pozzanghere e scola dal tetto di lastre di pietra, quasi quanta ne gocciola dai miei capelli.
Le finestre sono ancora illuminate da un lucore, un’ombra si muove dietro di esse. Lancio un’occhiata ad Alberto dietro di me, bagnato dalla pioggia. La bandana che gli avevo messo al braccio non c’è più, ma la ferita ha smesso di sanguinare.
Lui ricambia il mio sguardo. I suoi occhi saltano verso la baita, ma non si trattengono che per un battito di ciglia, torna a puntarli su di me.
Sono io che cerco coraggio in lui, o è lui che cerca coraggio in me?
Un taglio di luce lampeggia un paio di volte da dove proveniamo. Mi balza il cuore in gola al pensiero che possa aver colpito il nostro povero pino. Il tuono ha la risata sarcastica del cattivo dei film.
«Cosa volete?»
Balzo alla voce del vecchio alle mie spalle. Mi volto, Alberto ha smesso di respirare.
Il montanaro è sulla porta, il ruggito del fulmine deve aver coperto il suono dell’apertura della porta. Il fetore che esce dalla baita e si esala dal vecchio è fisico non meno dell’acqua che mi affligge.
Un brivido corre lungo la mia schiena. Ritraggo la testa tra le spalle.
Il mio ragazzo ha tra le dita il colletto della maglietta, sembra trattenersi a stento dal portarla sul naso.
Mi schiarisco la voce, più a richiamare all’ordine Alberto. «Abbiamo… abbiamo bisogno di aiuto.»
Lo sguardo del montanaro scivola sul mio corpo, sulle mie scarpe da tennis lorde di fango, le mie gambe nude sporche di erba per la scivolata di pochi minuti fa, i miei pantaloncini e la maglietta che grondano sudore e acqua. I suoi occhi slavati si stringono appena, le rughe si avvallano un po’: non devo sembrargli molto più pulita di lui, con l’aggravante che lui è lercio per il lavoro, non per il tentativo di sfuggire alla noia del fine settimana.
«Possiamo… possiamo lasciare le scarpe qui per non sporcare…» La mia voce è un pigolio, la pioggia scende sotto i vestiti pesanti quanto la mia vergogna, bagnati quanto la mia gola è secca. Alberto sembra un bambino di quattro anni che sta aspettando una ramanzina e una punizione.
Lo sguardo del montanaro sembra inciso nella roccia che compone i muri della baita, è imperscrutabile. Resta immobile davanti a noi, come a prendere il posto della porta per impedirci di entrare, solo la barba si muove nelle folate di vento.
Una voce raschia le parole. «Falli entrare.» L’altro vecchio è accanto ad un fuoco che sembra più un braciere. Con un pezzo di legno lo stuzzica come se stesse controllando se un animale riverso su un fianco è morto o reagisce al fastidio. «Esce il caldo.»
Il primo vecchio mugugna qualcosa, fa un passo indietro e libera la luce della porta.
Una mano mi stringe il petto, un’altra la vescica. La porta è l’entrata in una fauce oscura senza denti. Le gambe non si muovono, le scarpe non si sollevano dalla fanghiglia.
Un fulmine mi acceca, il tuono mi assorda. Un fulmine potrebbe essere una morte più veloce e indolore del—
La mano di Alberto si appoggia sulla mia spalla. È gelida. Tossisce. Mi sospinge. «Ilaria…»
Il piede si stacca dal terreno con un risucchio, lo appoggio sulla soglia della porta, spingo con l’altra gamba: dalla tempesta sono nella baita. Il fetore di animali, sterco, sporcizia, polvere aggredisce il mio naso, si accumula nello stomaco come un pasto non digerito. Il fumo appesantisce l’aria al punto tale che è come respirare qualcosa di solido. La luce rossa che sfugge dalle braci arde sulle superfici di un tavolo in legno e qualche sgabello, sfiora una credenza fatta con grossolane assi di legno. Una tronco scortecciato alla meglio puntella il tetto, una macchia di umido arde nel riflettere le braci, si allunga, una goccia si stacca e si tuffa in un secchio di metallo. Plin. I muri sono neri dalla fuliggine, ragnatele pesanti pendono come amache sopra tre lett— Un terzo vecchio si alza da uno di questi. È vestito come quello sulla porta. Il suo sguardo muto si punta su di noi.
Alberto è accanto a me, i suoi occhi scivolano nei pochi particolari che emergono dalle tenebre della baita. Tortura le dita di una mano con l’altra. Una goccia di pioggia si accumula sulla punta del suo naso, ad un fiato si stacca e colpisce la pozza che stiamo formando sul pavimento di piattoni sconnessi.
Metallo agonizza, la porta sfrega sul pavimento e sbatte nel suo telaio. Il vecchio alle nostre spalle afferra un pezzo di ferro rosso dalla ruggine a forma di “L” e spinge la punta nel foro scavato in un sasso del muro. La baita crolla nel buio. In quel buio in cui si aggirano creature deformi che scorgevo nella mia cameretta a tre anni. Mi stringo le braccia al petto, i vestiti sono gelidi.
Plin.
Il vecchio del camino si alza in piedi. Il suo volto è ridotto a linee rosse e ombre, solo i suoi occhi brillano. Allunga un braccio, le sue dita sono serpi che si contorcono. «Non restate lì in piedi.» Tossisce, gocce di sputo luccicano nel lucore del fuoco morente. «Spogliatevi, o vi ammalerete.»
Sollevo le spalle e annodo le gambe. Il vecchio della porta non si è mosso, quello del letto è rimasto in piedi. Nessuno dei tre emette una sillaba, solo il ticchettio della tempesta contro il tetto e l’ululare del vento che entra dagli spiragli della porta mi assicura che non sono sorda. Spogliarmi? Davanti a loro, davanti al buio? Vorrei mettermi un’armatura, piuttosto.
Alberto annuisce. «Sì, siamo da strizzare…» La sua voce ha perso il tono allegro che amo di lui. È come se il suo spirito fosse stato portato via dalla pioggia, o uscito dalla ferita che la grandine gli ha causato. Si sfila lo zaino, lo appoggia ad una delle gambe del tavolo sgangherato e si prende il fondo della maglietta.
Mi guarda. Un paio di colpi di tosse scuotono il suo petto. «Ilaria, toglili, ti prego,» sussurra.
Plin.
I tre vecchi restano immobili, sembrano statue pronte a scattare all’improvviso appena visibili nella notte.
La pioggia scivola ancora lungo le mie braccia, gocciola dalle dita. Sono bagnate anche le calze nelle scarpe.
Respiro fino a riempirmi i polmoni, qualcosa in fondo sembra pronto a esplodere in un colpo di tosse. Meglio spogliarsi. I vecchi sono ancora fermi. Non voglio prendermi la polmonite. Aspettano solo che io sia nuda.
Pongo a terra lo zaino che cade disteso nello spazio nero tra due piattoni. Il posto ideale dove i topi defecano nella polvere. Trattengo una smorfia.
Mi tolgo la maglietta, sfilo le scarpe e le calze, mi tolgo i pantaloncini. Ho almeno un paio di chili di acqua in mano, trattenuta dal tessuto dei miei vestiti. Alberto è in intimo come me, ha appoggiato i suoi abiti sul suo zaino.
Il vecchio del camino fa un passo avanti, allunga le mani verso di me. Il suo tanfo di stalla mi aggredisce.
«Appendiamo i vestiti, così si asciugano.» Me li prende di mano e torna accanto al fuoco comatoso. Una cordicella è annodata ad un chiodo infisso nella cappa del camino per un capo e l’altro è legato al tronco: il vecchio ci getta sopra la mia maglietta.
Qualcosa colpisce il tetto. Sollevo lo sguardo, attratta dal rumore. Dai longheroni di legno pendono rami di arbusti secchi che non so riconoscere, falcetti appesi a chiodi luccicano alla fioca luce delle braci, accanto ci sono un paio di salami grigi coperti di ragnatele che sembrano lì da quando è stata costruita la baita. Ti prego, fa che non ci offrano da mangiare…
Il suono si ripete. Di nuovo. Ancora. È una mitragliata. La grandine è tornata. Più forte di prima. Il nostro pino non resisterà, se non è già stato distrutto dal fulmine di prima…
«Appena in tempo…» Alberto abbassa lo sguardo dal soffitto. Ha in mano i suoi vestiti, il vecchio del camino si protende per prenderli. Una pozza si sta formando sotto gli abiti.
Una voce flebile, appena udibile sotto il tamburellare impazzito del tetto. «Toglietevi anche le mutande.» Il vecchio accanto al letto ha un braccio sul petto, l’altra mano trema verso di noi. Ha gli occhi sbarrati, come se non vedesse bene, o voglia scorgere le nostre anime.
Una smorfia si disegna sul viso del mio ragazzo, io mi ritrovo con una mano sul reggiseno e una sulle mutandine. Sono fradice, anche più dei vestiti, mi stanno ghiacciando la pelle, ma non ho intenzione di restare nuda davanti a questi tre. E in mezzo a questo lerciume.
Scuoto la testa. «No, va bene così…»
Gli slip bianchi di Alberto lasciano rigagnoli lungo le sue gambe. Questa volta non mi contraddice.
La voce cavernosa del vecchio della porta mi colpisce come una bastonata. «Non ci dovevate venire quassù con il brutto tempo che arrivava.»
L’anziano del letto si incammina verso la credenza. La apre, dentro è il buio più pesto. «Dici che non hanno imparato che si deve rispettare la montagna…»
Di cosa stanno parlando? Cosa credono di essere? I guardiani della… Il fiato mi si blocca nei polmoni, l’odore di fetido resta aggrappato al mio olfatto. Non posso essere i saggi, cosa sto pensando?
«Non hanno imparato un cazzo.» Il brontolio del tuono mi causa meno agitazione della voce del vecchio della porta.
Quello del letto estrae le mani dal buio del mobile sbilenco e due scodelle di legno compaiono tra le dita. «Impareranno. Sono giovani.» Indica il tavolo accanto a noi. «Sedetevi, dovete avere fame.»
Il mio stomaco è chiuso, collassato. Le ragnatele sopra i letti dondolano ad una corrente d’aria che ulula dalla porta. Non mi permetto di respirare con la bocca, qui dentro, davvero pensa che voglia mangiare qualcosa?
Il vecchio delle braci finisce di appendere i nostri abiti. Gocciolano quanto la pioggia all’esterno. Si asciuga le mani sulla maglia di un colore che ricorda il muschio. Muschio malato. «Sì, abbiamo qualcosa per voi.»
Intercetto lo sguardo di Alberto. Posso leggere nei suoi occhi i miei stessi pensieri. Sarebbe stato meglio correre fino al bosco e prendere anche una sventagliata di grandine che trovarci qui.
L’anziano appoggia le scodelle di legno sul tavolo coperto da una cerata a quadretti rosso smorto e bianco lercio. «Sedetevi. Sedetevi alla panca.»
Alberto solleva le sopracciglia, un angolo della sua bocca è abbassato. Ormai riconosco quando è disgustato, e in questo momento ne trattiene una smorfia. Nemmeno lui mangerà nu—
Il vecchio della porta è accanto al tavolo. «Sedetevi!» La voce troppo grossa per stare nella baita, la riempie tutta. Sul tetto la grandine termina di ticchettare.
Il mio ragazzo si siede sulla panca e si trascina all’altra estremità. Il legno cigola, manca solo che si spezzi.
Lo sguardo del vecchio mi stringe il petto. Mi siedo sull’asse e metto le gambe nel buio sotto il tavolo. Non ci sono ragnatele, non mi sfiorano la pelle, ma può esserci qualsiasi mostro acquattato. Un brivido mi increspa la pelle della schiena. Appoggio i polsi sulla tovaglia di plastica. È attaccaticcia, macchie e particelle di cenere la costellano. Strappi e squarci mostrano il legno non lavorato del tavolo. Non la devono aver lavata da quando l’hanno comprata…
L’anziano del camino arriva con una brocca di ferro ammaccata a tal punto che sembra essere stata presa a bastonate o gettata da una dozzina di rampe di scale. «Bevete un po’ di latte, vi fa bene.» Un liquido bianco troppo denso, simile a panna, scende nelle due ciotole. Quante malattie ci saranno in quel latte?
Alberto allunga le mani e prende la sua scodella. Il latte non manca mai nella sua colazione, ma non l’ho mai visto tentennare tanto. La solleva fino alle labbra e si ferma.
Il vecchio della porta appoggia la mano sul tavolo, il braccio muscoloso è coperto da peli neri grossi quanto le vibrisse di un gatto. Ti prego, fa che non mi tocchi…
Alzo la ciotola e l’avvicino alla bocca. É troppo buio per vederci dentro qualcosa che galleggia. Apro le labbra e mando già. Ha la densità del ketchup e un sapore nauseante, forte. Lo stomaco mi si strizza, non tratterrò a lungo…
Appoggio la ciotola sul tavolo, un rigurgito mi sale fino alla bocca. Metto il dorso di una mano sulla bocca come a nascondere un ruttino e rimando giù. Non è il caso di vomitare davanti a…
Mi trattengo dal cadere in avanti, sbatto gli occhi e scuoto la testa. La baita inizia a muoversi verso… coso… la mano che non si usa per scrivere. O è l’altra che…
Una nebbiolina riempie la baita, i suoni sono attenuati.
Mi volto verso Alberto. «Cosa sta… cosa…»
Lui ha la bocca aperta, sembra soffocare. Si alza in piedi. «Che cazzo ci avete da—»
Il vecchio accanto a lui lo afferra, un braccio sul collo, l’altro sulla pancia. Il mio ragazzo strabuzza gli occhi, si divincola, ma la presa non cede.
Uno degli anziani mi si avvicina, puzza come un animale in putrefazione. Mi mette una mano sotto un’ascella e mi solleva come se pesassi mezzo chilo. «Cosa stai… stai…» Il tavolo mi balza in faccia, la mia guancia e le mie labbra impattano contro la tovaglia lercia.
«Lasciatela, bastardi! Cosa state facendo?» La voce di Alberto arriva da un altro pianeta anche se ondeggia davanti a me. L’anziano gli tappa la bocca con la mano.
Il vecchio del camino prende le scodelle e le sposta su una sedia con lo schienale rotto. «Si dimena parecchio, il ragazzo.»
«Non era abbastanza, la droga, per lui.» L’altro vecchio mi prende l’elastico delle mutandine e me le abbassa.
Oh, cazzo… Devo muovere le mani, devo lottare per… Le dita… le dita sono sempre state lì?.. tremano appena, è come se avessero tagliato la linea che controlla i miei muscoli. Un gemito sfugge dalle mie labbra.
Il vecchio del camino torna davanti a me, ha fuori dai pantaloni un cazzo in tiro grosso come un polso. La cappella è fuori dalla pelle, rossa come le braci. Una sua mano mi afferra i capelli sopra la fronte e mi spinge indietro la testa, le dita dell’altra mano s’infilano tra le mie labbra e i denti e aprono la mia bocca.
Il cuore mi batte nelle orecchie. Gli occhi mi bruciano ma le lacrime non si formano. Oddio, voglio morire…
Alberto grida a pieni polmoni, la mano viene tolta dalla sua bocca. «Lasciatela, pezzi di merda! Lasciatela stare!»
Il bastardo alle sue spalle gli blocca la testa. «Guarda cosa si merita chi non rispetta la montagna!»
Un dito scivola tra le mie cosce, s’insinua tra le grandi labbra della mia figa e… il fiato si blocca nei miei polmoni… non è un dito, è troppo grosso. Il vecchio mi sta penetrando, la sua cappella entra dentro di me, afferra le mie anche e spinge fino a riempire la mia vagina.
«Come sei calda, Ilaria… proprio una puttanella come piace a me.»
Inizia a muoversi dentro di me, ogni colpo mi spinge avanti sul tavolo che cigola. La sua cappella apre le pareti del mio sesso, si ritrae, portandosi via un pezzo della mia anima.
La punta del cazzo dell’altro passa sul mio naso, un fetore micidiale mi soffoca, scivola tra le mie labbra ed entra nella mia bocca. Struscia sulla mia lingua, lascia un sapore che solo un topo annegato nel liquame di una fogna potrebbe eguagliare. Lo stomaco mi si contrae, ma il latte maledetto resta al suo posto. Il pelo sull’inguine mi pizzica il viso.
Alberto è bianco in viso, ha gli occhi sbarrati. Non fiata nemmeno. Il vecchio dietro di lui mi fissa con cupidigia, aspetta il suo turno per scoparmi.
Perché non posso svenire? O vomitare, disgustarli, farmi gettare anche di fuori, sotto la pioggia e i fulmini, perché devo stare qui?
Uno schizzo caldo riempie la mia figa. Il cazzo resta dentro, in profondità. Il vecchio stronzo esala un sospiro. «Brava, Ilaria, mi piace quando mi fai godere.»
Quello davanti mi afferra i capelli e mi tiene ferma la testa, spinge la cappella fino in gola e si libera. Quattro schizzi di sborra mi colano nell’esofago. Mi libera la bocca e tossico, gocce biancastre si spandono sulla tovaglia davanti a me.
Il vecchio davanti a me ha il cazzo umido della mia saliva, una goccia bianca pende pigra dal taglio. Mi dà un paio di pacche sulla testa come se fossi un cane. «Ben fatto, puttanella, ben fatto.»
Un nuovo giramento di testa mi colpisce, la baita si solleva da una parte. Le palpebre si fanno insostenibili, il mondo si riduce sempre più.
Lo stronzo alle spalle di Alberto gli tira indietro i capelli, gli solleva la testa. «Hai visto che cosa hanno fatto a quella troia? Chi non rispetta la montagna, viene punito.»
Il mio ragazzo ringhia, mostra i denti, pronto a squarciare la giugulare al vecchio se solo lo lasciasse.
«Ma non è solo lei ad aver sbagliato: tu avresti dovuto impedirglielo.»
L’espressione di Alberto cambia in un istante, ha la bocca aperta, gli occhi spalancati. «Cosa…»
Il vecchio gira il busto e getta il ragazzo su un letto. I legni cigolano all’impatto. Ghiic!
Alberto punta le mani sulle coperte, si spinge in alto, il vecchio gli mette una mano sulla schiena e lo spinge sul letto. La faccia del ragazzo scompare tra le coltri grigie e una nuvola di polvere.
Il montanaro gli afferra le mutande, le strappa e le getta via. Ha già il cazzo fuori dai pantaloni in tiro.
Le braccia del mio ragazzo si muovono impazzite, le appoggia ovunque, prova a colpire l’anziano. «No, aspetta, non…»
Il vecchio si mette dietro di lui, infila il cazzo tra le chiappe di Alberto e spinge con un colpo secco.
Il grido del ragazzo scuote la baita. Le sue braccia puntate contro il letto tremano e cedono.
I miei occhi si chiudono, l’universo è una fessura appena visibile. Qualcosa di caldo cola tra le mie cosce, un sapore vomitevole gira nella mia bocca.
Il vecchio fa andare avanti e indietro il suo bacino contro quello di Alberto. Il letto cigola.
Ghiic!
Ghiic!
Il mondo è una tenebra, le mie membra sono prove di forze, la mia mente spazzata da un vento silenzioso. È successo qualcosa di brutto, sono triste, ma cosa… Io…
Chiic!
Chic!
***
Chic!
Chip!
Cip!
Cip! Cip! Cip cip!
Il gorgoglio di un passero s’insinua sotto il buio del mio sonno. Mi volto su un fianco, il tessuto grezzo che mi copre scivola sulla mia pelle, sembra quello dei sacchi di patate. Come mai non è il solito… Dove… dove sono? Perché io…
Grandine che batte sul tetto di pietra.
Il vomitevole latte drogato che imputridisce nel mio stomaco.
Vecchi puzzolenti che…
I loro cazzi che mi—
Le mie palpebre si spalancano, il cuore è prossimo a esplodere nel mio petto. Un grido muto mi muore in gola.
Balzo a sedere sul letto.
I muri della baita si chiudono attorno a me, mi circondano e… sbatto gli occhi… la luce mi abbaglia, entra a frotte da un muro crollato. L’erba di un pascolo si muove in una brezza, le gocce di acqua del temporale di ieri brillano sotto la luce del mattino. Banchi di nebbia immacolati sono appoggiati sulle pendici verdi delle montagne dall’altra parte della valle. Tutto ha la lucentezza dello smeraldo. Un capriolo solleva la testa dal prato, mi fissa e balza via verso il bosco.
Muovo lo sguardo attorno a me. Dove sono i muri neri di fuliggine, i tre letti, il tanfo, il tavolo? «Cosa…»
Sassi da muro sono sul pavimento attorno a me, sotto un tetto piegato e con i piattoni che stanno su per miracolo. Una coperta marrone bucata e lercia mi avvolge.
Me la strappo di dosso, mi contorco per liberarmene, lo scalcio via da me. L’odore di polvere e acre che emana mi riempie il naso, mi strappa dei colpi di tosse strozzati.
Mi ritrovo seduta nuda sul pavimento lurido pieno di foglie e pezzetti di legno, sassolini mi pungono il sedere. Balzo in piedi, mi passo le mani sul culo per pulirlo.
Oddio, ho qualcosa tra le cosce? Abbasso la testa, apro le gambe e me le tasto. Il cuore mi batte nelle orecchie. Non ci sono liquidi, non c’è nie—
Qualcosa si muove appena oltre il muro crollato, le mani mi balzano a coprire i seni e la figa. Fa che non siano quei vecchi bastardi… o un animale. «Non avvicinarti, io…»
Alberto mi guarda. «Oh, ti sei svegliata.» Gli abiti che indossa sono lerci, ma asciutti. Deglutisce. «S-stai bene?»
«Io…» sbatto gli occhi, mi sento mancare le forze nelle gambe. «La malga? I tre vecchi che ci hanno—»
Il mio ragazzo mi interrompe. «Non c’è nessuna malga, non ci sono vecchi.» Inspira a bocca aperta. Punta il suo sguardo verso qualcosa là fuori. Lo punta lontano da me? «Di cosa stai parlando, Ilaria?»
Non è la malga, questa. Non le assomiglia nemmeno: non c’è il camino, non ci sono i letti. Di certo non può essersi diroccata tanto in una notte… Mi gratto una tempia. Apro la bocca, ma non so cosa dire. «Non lo so. Ieri stavamo scappando dal temporale, ho preso la strada sbagliata al bivio e siamo finiti davanti ad una malga con tre vecchi inquietanti che…» Cazzo, mi si fermano le parole in gola, come se avessi ancora infilato quel cazzo schifoso… Chiudo gli occhi, mi viene da vomitare. «…che…»
Deglutisco ma la bocca è secca. Le mani rugose dei due vecchi, il tavolo polveroso, i miei muscoli che non rispondevano ai miei comandi, l’altro vecchio che bloccava Alberto. Respiro una boccata di aria fresca e umida. I loro cazzi che riempivano la mia figa e la mia bocca. Alberto che urlava, il vecchio che lo violentava… L’uccellino continua a cantare. Non smettere, ti prego, la tua musica è la mia vita…
Alberto scuote la testa. «Non so di cosa stai parlando. Stavamo scendendo dalla montagna, sì, e hai provato a prendere il sentiero sbagliato, ma ti ho richiamata e continuato per quello della salita.»
Non ho memoria di nulla di simile. «Davvero?»
«È stato quando mi sono accorto che avevi la febbre, probabilmente un colpo di sole e la stanchezza della salita.» Alberto fa un passo avanti, una smorfia si disegna sulla sua bocca. «La pioggia ci ha raggiunti e ho deciso di fermarci qui, nella baita diroccata che avevamo visto risalendo, e ci siamo rimasti per la notte: tra fulmini e tempeste, non era il caso di restare all’aperto.»
Mi gratto sotto il mento. In effetti, quando eravamo al laghetto, mi sentivo poco bene… Indico la coperta ai miei piedi. «E questa?»
«Eri bagnata e avevi la febbre al punto da tremare. Dicevo cose sconnesse. Ti ho spogliata e avvolta in quel telo.» Alberto si morde le labbra. «Non c’era di meglio in questo buco.»
Fisso un mucchio di terra sul pavimento da cui spunta un ciuffo d’erba. No, non ho il minimo ricordo di quanto mi ha detto. Ma se avevo la febbre e vaneggiavo…
Tutto questo casino per colpa mia, per scrivere un articolo da vendere a qualche rivista di escursionismo… «Grazie, Alberto. Probabilmente mi hai salvato la vita.»
«Ci mancherebbe. Non ti ho impedito di salire fino a qui anche se il meteo metteva brutto.» Lui zoppica fino al suo zaino.
«Cos’hai?»
Una smorfia arriccia le sue labbra. Si piega per prendere lo zaino e l’espressione di dolore si allarga agli occhi e alle sopracciglia. Mostra i denti. «Scendendo sono caduto e ho picchiato l’osso sacro.»
Mi mordo le labbra, il petto mi si stringe. «Mi spiace.»
«Vestiti che torniamo alla macchina.»
Annuisco. I miei abiti sono spiegazzati su un sasso accanto a me. Devono essere ancora bagn— Le mani toccano il tessuto asciutto. Mi blocco. Com’è possibile?
Sollevo la maglietta. È sporca di polvere nera e costellata di macchie scure. Ha un leggero odore di… La appoggio al mio viso. Puzza di fumo.
Lancio un’occhiata ad Alberto. È fuori dal rudere, lo zaino in spalla, che controlla lo smartphone.
«Hai acceso un fuoco?»
Lui mi guarda con gli occhi granati. «Cosa… Sì!»
Non vedo segni di cenere attorno a me. Non immaginavo nemmeno sapesse accenderlo.
«E dove l’hai—»
Alberto mi fissa. «Dai, Ilaria, muoviti a vestirti che dobbiamo arrivare alla macchina prima delle nove, o scade il biglietto del parcheggio.»
Stringo le labbra per non rispondergli. Che caratteraccio. Prendo le mutandine e me le infilo. Non posso nemmeno rispondergli perché gli sono in debito per la mia vita.
Finisco di vestirmi e allaccio le scarpe. Dentro sono ancora bagnate, il piede affonda nella soletta intrisa di pioggia. Metto lo zaino in spalla e raggiungo il mio ragazzo. Puzza quanto i miei vestiti.
Il sole brilla in cielo appena sopra le cime, l’aria è fresca e i prati e i boschi hanno un verde saturo. Un concerto di uccelli si alza dalle piante più a valle.
«Andiamo.» Alberto mi precede nel sentiero pieno di pozzanghere, zoppica ad ogni passo.
Se è in quelle condizioni è solo colpa mia. «Ti fa male camminare?»
Lui non si volta. «Muoviamoci. Spero che non abbiamo lasciato abbassati i finestrini della macchina.»
Lo seguo senza parlare. Per qualche motivo, un pensiero resta nella mia mente: sotto i pantaloni, Alberto indossa gli slip?
Fine
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