La malga nella tempesta

Capitolo 1 - Prima parte

Il fischio di una marmotta lacera l’aria, due falchi che volano in cerchio da qualche minuto rispondono con i loro stridii lamentosi. Stringo gli occhi: nessun animale si muove tra le rocce e le frane, siamo troppo lontani: avrei dovuto portare un binocolo, ma siamo usciti di casa e saltati in macchina senza pensarci due volte. Vabbè, sarà per un’altra occasione.

Faccio un paio di passi indietro, i fili di erba secca mi sfiorano i polpacci nudi e il fiore di un cardo batte contro una gamba. Sollevo lo smartphone davanti agli occhi e compongo l’inquadratura: la cima del Monte Stirio si riflette sulle acque appena mosse del Laghetto dei Tre Saggi, baluginii balzano dalla cresta di un’onda all’altra.

Il telefono scatta la foto emettendo uno scrocchio. La controllo: il prato così giallo è un pugno in un occhio, ma una veloce modifica al computer lo renderà perfetto come immagine di mezzo nell’articolo sulla miniera di argento in fondo alla valle. Incredibile come non si trovino informazioni su questa escursione in Internet: ci penserò io a sopperire alla mancanza, così come ho fatto con altre. Questo articolo lo venderò in un attimo a qualche rivista o sito internet di escursionismo.

Spengo il telefono e lo metto nella tasca dei pantaloncini corti. Afferro lo scollo della maglietta e lo scuoto. Un soffio d’aria calda scende tra i miei seni sudati, ma non cambia nulla. È come respirare davanti ad un forno aperto, ma al posto del profumo della pizza grava il fetore che opprime la sala server al lavoro. Il mal di testa che mi assilla almeno da un’ora ha un picco che mi fa sollevare il labbro. E dicono che la natura sia la migliore medicina...

Il mio ragazzo è seduto su un macigno chiazzato di licheni gialli. Prende dallo zaino la borraccia, ne beve un paio di sorsi, emette un sospiro soddisfatto e la rimette a posto. Si appoggia con i gomiti alle ginocchia, ingobbendosi. Fissa l’orizzonte senza guardarlo.

«Lo sai perché si chiama il “Laghetto dei tre saggi”?»

Alberto muove la testa verso di me. Sugli occhiali da sole che ha tra i capelli corti guizza il riflesso del sole. Non si mette dritto. «Perché?»

Il ricordo della mia bisnonna che, la sera, mi faceva sedere sulle sue gambe e mi raccontava le leggende della valle in cui era nata tende le mie labbra in un accenno di sorriso. «Nel medioevo, o quel periodo… secoli fa, per capirci, venne scoperta una vena di argento in alta quota, e molti uomini che volevano migliorare la situazione delle loro famiglie vennero a lavorare nella miniera. Ma non era un lavoro facile…»

Il ragazzo si mette eretto con la schiena. «Grazie al piffero, il minatore non è un lavoro per tutti.» Lui è un programmatore, e anche se fa ore di palestra ogni settimana, e si vede nelle braccia e nelle gambe, non avrebbe la forza fisica, e di carattere, per spaccare pietre sottoterra. O forse sì?

«Le vittime erano molte, e si pensò di abbandonare la miniera.» È da qualche parte sotto quelle cime, in un luogo che, dalle foto che ho trovato, sembra uscito da un western o direttamente dalla superficie lunare. Solo il tempo per arrivarci a piedi o con i muli… «Ma visto che stava portando un minimo di ricchezza a gente che a stento mangiava una volta al giorno, quelli a valle decisero di chiedere alle tre persone più sagge nella zona di salire in montagna e chiedere agli spiriti e ai folletti di proteggere i minatori.»

Alberto si passa una mano sulla fronte madida di sudore. La maglietta rossa ha una macchia scura davanti. «E gli spiriti cos’hanno fatto? Hanno dato ai minatori i caschetti in mithril?»

Scaccio la battuta con un movimento della mano. «Non è quello che conta. La leggenda dice che le creature magiche avevano deciso di aiutare i minatori a patto che i tre saggi avessero vigilato sulle loro montagne, responsabili del comportamento di quelli del fondovalle nel caso fossero saliti in quota. Da allora, c’è stata una specie di tregua tra umani e creature magiche.»

Il mio ragazzo si alza in piedi e si sgranchisce la schiena. «Bella storia. È per questo che sono tre ore che stiamo facendo escursionismo? Vedere una miniera la cui sicurezza era stata assegnata agli gnomi e al Balrog? Ci sarà un cartello con scritto “Tu non puoi passare” attaccato alle assi all’ingresso.» Sospira. «In questo momento non mi dispiacerebbe se mi portassero un po’ di pan di via…»

Che stronzo… Sono anni che volevo scoprire i luoghi che facevano da sfondo alle storie che mi raccontava Mariellina, e solo perché non sono al livello dei suoi fantasy mi prende per il culo. Appoggio le mani ai fianchi. «Sì, ci tengo tanto.»

Lui si sfila gli occhiali da sole dai capelli e se li inforca. «Il cartello segnavia indica ancora un’ora e mezza per la nostra destinazione, ma ho idea che non ci arriveremo.»

«Io non sono stanca.» Qualcuno ha sostituito le mie gambe con pezzi di legno, e la schiena mi duole. La testa, poi…

«Nemmeno io, ma non è per quello…» Alza un braccio e indica l’orizzonte. Le cime delle montagne dall’altra parte della valle sono nell’ombra di nuvole nere che si muovono ad una velocità che non ho mai visto prima.

Sbuffo dal naso. Proprio oggi doveva piovere? «Facciamo in tempo a raggiungere la miniera? Non mi va di buttare via una mattinata…»

Alberto apre la bocca per parlare ma un fulmine dardeggia, unendo in un lampo di luce il cielo e un pilone dell’alta tensione che spezza il profilo della catena montuosa. La mia emicrania esplode alla vista dei lampi. Stringo i denti e le palpebre.

La bocca del mio ragazzo si distorce in una smorfia. «Credo sia meglio tornare alla macchina.» Il tuono brontola che non faremo in tempo e ci prenderemo una lavata. Se ancora ci andrà bene.

Mi lancio verso il mio zaino con un paio di balzi, afferro la borraccia e il sacchetto con le pesche e ce li getto dentro. Chiudo le fibbie e me lo carico in spalla. Non mi sono nemmeno ricordata di portarmi una mantella o il k-way… Altra voce della lista di cose lasciate a casa. «Potevi controllare il meteo, Alberto.»

Lui si carica a sua volta lo zaino. «Te l’avevo detto, Ilaria, che il cielo non prometteva nulla di buono. Ma quando ti metti in testa una cosa…»

Gli scocco un’occhiataccia. Prendo dalla tasca lo smartphone per scoprire se il cielo ci farà la grazia. In cima allo schermo, le quattro tacchette sono sostituite da un triangolo vuoto. Merda, niente rete…

***

Alberto si ferma, si guarda attorno con le mani sui fianchi. È rosso in viso, ha una goccia di sudore sulla punta del naso. Se la toglie con il dorso di una mano, davanti alla bocca aperta, avida di ossigeno. «Sei… sicura che è il sentiero che… che abbiamo preso nella salita?»

I muscoli delle gambe sono infiammati dalla corsa in discesa, qualcosa nella testa mi batte come un martello.

Il sentiero è una striscia di terra nuda in mezzo a ciuffi di erba schiaffeggiati dalle folate di vento in un tratto di montagna pianeggiante, identico a mille altri luoghi che ho percorso negli ultimi anni. Un forte dolore mi aggredisce gli intestini. Dovevo prendere la strada a sinistra, al bivio un chilometro fa? Che fine ha fatto il cartello segnavia? «Sì. Ma l’importante è arrivare a valle il prima possibile.»

Un lampo brilla un paio di volte a qualche chilometro da noi, il tuono ride alle mie parole. Solo un pollice di cielo è ancora libero dalle nuvole nere. Non ce la faremo ad arrivare alla macchina bagnati solo di sudore.

Il limite superiore del bosco di pini si profila a qualche chilometro da qui, i loro rami a formare delle tettoie sotto le quali salvarci dalla pioggia. Forse. «Andiamo.»

Pochi passi e il pascolo si abbassa in una breve discesa prima di passare nei pressi di un paio di edifici in pietra circondati da una palizzata. Oggetti in legno e ferro sono appoggiati alla rinfusa contro i muri. Una finestra è illuminata e le folate di vento schiaffeggiano e disperdono il fumo che esce dal camino.

Alberto si ferma accanto a me. Piega la testa su una spalla e l’altra. «Non ricordavo ci fosse una malga in esercizio.»

Durante la salita eravamo passati accanto a due ruderi con le pietre di muri rotolate nel prato e i tetti crollati. Al bivio dovevo prendere l’altra strada. «Chiediamo se ci fanno passare a tetto il temporale»

Il mio ragazzo si ferma, un sopracciglio alzato, le labbra piegate in quel suo sorrisetto ironico. «Sai che sembra l’inizio di un film splatter, vero?» Il tono è leggero, ma i suoi occhi scrutano la malga con diffidenza.

***

Le scarpe affondano nella fanghiglia attorno alla malga, la mota non vuole lasciare le suole. Il recinto è un groviglio disordinato di rami presi ad accettate e legati con corde sfilacciate, i muri sono di sasso, tenuti insieme da malta grigiastra e ragnatele che si scuotono nelle raffiche della tempesta. Lastre di pietra chiazzate di licheni gialli e verdi appoggiate a travi di legno spiovono sopra di noi. Il riparo perfetto per qualsiasi cosa il cielo abbia deciso di riversarci addosso.

Mi fermo, una folata di vento mi fa sbattere la maglietta. Le dita gelide e umide dell’aria afferrano i miei seni e mi fanno tremare. Indico ad Alberto il tetto.

Lui lo studia. «Cosa?»

«Non ci sono pannelli solari e parabole.»

Il lampo che illumina la valle ha per lui maggiore interesse. Solleva le spalle. «Chissene frega se non hanno la televisione. Guarderemo i fulmini, da sotto un tetto hanno un fascino particolare.»

Si avvicina alla porta, una serie di assi screpolate di legno nero su cui campeggiano delle grosse teste di chiodo piramidali arrugginiti. Bussa: il suono sembra quello di quando si picchia il pugno su un castagno.

Non riesco a spiegarmi come possano vivere senza elettricità o una televisione. Come le passano le sere? Leggendo? Giocando a Monopoli? Raccontandosi storie di fantasmi?

Al muro è appoggiata una carriola in legno che dà l’impressione che possa cadere a pezzi da un momento all’altro, con la ruota che vibra ogni volta che si alza il vento in un cigolio che sembra un’implorazione alla pietà, e accanto una grossa conca di rame con un buco abbastanza grande da infilarci un pugno. Poco oltre, a terra sotto una finestra, c’è una falce con il manico in legno e la lama storta.

Ma dove cazzo siamo finiti? Al bivio non ho sbagliato strada, ho sbagliato secolo.

I vetri della finestra sono piccoli e luridi, e l’interno della malga è solo un alone arancione con… mi si blocca il fiato… un’ombra si stacca dalle altre e si muove verso la porta! Un brivido mi attraversa la schiena e azzanna gli intestini. Le gambe perdono ogni stanchezza e sono cariche come mai lo .

Afferro la maglietta bagnata di sudore di Alberto. Lui ha la mano alzata per bussare di nuovo. Volta la testa verso di me.

Ho il cuore in gola. «Andiamocene,» sussurro.

Il vento sibila, qualche goccia di pioggia mi punge il viso come aghi gelidi.

Lui scuote la testa. «Sei impazzita? Sta per diluviare.»

Il cuore mi batte nelle orecchie, tutto il sangue affluisce alle gambe. Devo correre, correre lontano da qui, anche sotto la pioggia. Anche sotto i fulmini. «Ti prego, andiamo via!»

Alberto mi scocca un’occhiataccia e bussa. Un colpo, due, tr—

La porta si spalanca con un cigolio, una bestemmia silenziosa e uno strattone la trascinano con una punta in un solco nel pavimento. Balza fuori un ors— un vecchio alto quanto la porta. Indossa un abito lercio, consunto e rattoppato. Ci fissa. La punta della barba bianca all’altezza dell’ombelico si scuote nelle folate d’aria e un cappello a cono verde e macchie gli pende da una parte. La fascia di volto visibile è rossa e screpolata per la continua esposizione alla luce del sole di montagna e due occhi azzurri slavati ci puntano circondati da rughe profonde. Una zaffata di sporco, bestiame e latte cotto per ore tracima dalla porta e mi strizza lo stomaco.

Il vecchio fa un cenno verso di noi con il mento, come a scacciarci. «Cosa volete?» I denti sono gialli, affilati come lame, il fiato è un pugno nello stomaco.

Alberto è immobile, come gli erbivori quando si trovano davanti un predatore. La sua mano si stringe sulla mia. Apre la bocca ma è come se avesse dimenticato come si parla. «Noi… noi vorremmo chiederle se…»

Gli tiro la mano. Un lampo si scarica su una cima, dietro a una cortina di pioggia. Una goccia corre lungo la colonna vertebrale, ma non è sudore né pioggia. Andiamocene, ti prego…

Il mio ragazzo si spinge di qualche centimetro indietro con il busto. «No… niente…» Fa mezzo passo indietro. «Volevamo sapere se questo… questo sentiero arriva a valle.»

Il vecchio si protende fuori quanto basta per vedere il cielo ardesia. «Non ci arrivate a valle.» La sua voce sembra quella delle campane che suonano per richiamare ai funerali. «È meglio se restate qui.»

La mano di Alberto mi stringe forte quasi quanto la mia morsa. «No, meglio se…»

Non aggiunge altro: si volta e si allontana dalla porta irrigidito. Lancio un’ultima occhiata al vecchio; nella baita, un altro anziano è seduto accanto al camino nero di fuliggine, illuminato dalle fiamme di un fuoco fumoso  in cui sta gettando un ciocco di legno. Accenno una smorfia di saluto al vecchio e raggiungo Alberto con un paio di lunghi passi. Il fango sotto le suole mi fa slittare.

Mi metto davanti ad Alberto, come se possa farmi da scudo dallo sguardo di quel gigante con la barba e la puzza di capra.

Un fulmine lampeggia dall’altra parte della valle e una folata di vento gelida scuote le punte dei larici. La porta cigola alle mie spalle e sbatte.

Tre ore sotto l’acqua e i fulmini mi sembrano più sicure di entrare in quella baita…

***

La pioggia cade a secchiate. Mi soffoca come un’onda, impregna i miei abiti, mi gela, mi abbatte. Schizza da sotto le mie scarpe, mi inzacchera le gambe. Il sasso che affiora è scivoloso, slitto, una saetta di dolore esplode da una caviglia, resto in piedi per miracolo.

Alberto è davanti a me, corre a perdifiato, ad ogni balzo barcolla nel fango del sentiero. Indica avanti. «Arriviamo laggiù!»

Il pascolo alla mia destra è un prato in pendenza, il burrone alla mia sinistra cade nella nebbia senza fine. C’è un pino solitario in mezzo al nulla, come ad aspettarci.

Un granello bianco colpisce un masso, esplode in schegge di ghiaccio. Un altro cade più avanti in una pozzanghera. Grandine, merda!

«Qui sotto, presto!» Alberto solleva il ramo del pino, dagli aghi cadono goccioloni di acqua. Si porta un braccio sopra la testa per proteggersela.

Inciampo su un sasso al lato del sentiero, finisco sulle mani, una pigna rimane sotto un mio palmo, un paio di scaglie mi azzannano la pelle. Gattono sugli aghi di pino asciutti sotto il ramo. L’odore della resina mi riempie i polmoni in debito di ossigeno. Mi giro e mi getto a sedere a terra. Respiro a grosse boccate, sono accaldata sebbene sia stata sotto la pioggia per nemmeno cinque minuti.

Non abbiamo fatto in tempo ad allontanarci dalla baita che uno scroscio di pioggia ci è crollato addosso, dando inizio al temporale.

Alberto butta dentro il suo zaino e mi raggiunge. Si siede accanto a me, le maniche della maglietta rossa che gocciolano, i capelli fradici. Ansima.

La pioggia diminuisce di intensità, granelli di ghiaccio la sostituiscono. Le montagne dall’altra parte sono state inghiottite da coltri di pioggia e grandine, il mondo è una gelida sfera di colori smorti circondata da un muro grigio sferzata dal vento.

Sembra di essere delle formiche contro le quali qualcuno scaglia manciate di sale grosso.

Il mio ragazzo si controlla un braccio: un chicco di grandine l’ha colpito e una goccia di sangue esce dal taglio. Poteva andarci peggio, se fossimo rimasti un minuto in più senza un riparo.

Se fossimo entrati nella baita…

Deglutisco, sono sotto un temporale ma non ho saliva in bocca. È solo colpa mia se non siamo rimasti alla baita, se siamo andati a prendere pioggia e grandine in mezzo ai pascoli invece di accettare il riparo che ci ha offerto il…

I muscoli si tendono al ricordo del malgaro, della sua puzza, di… di qualcosa di oscuro che non riesco a riconoscere. Forse… forse è meglio restare qui.

Mi sfilo lo zaino e lo apro. «Aspetta, Alberto…» Non ho portato con me il kit di pronto soccorso, questa volta. Come abbiamo fatto a organizzarci così male per questa escursione? Frugo tra le cose che ho dimenticato di togliere dopo il giro al lago della settimana scorsa e prendo una bandana, quella che mi era stata data ad una qualche gara di corsa campestre. Stringo le labbra: non è un cerotto sterile, ma dovremo arrangiarci con della medicina da campo.

Mi metto in ginocchio, gli aghi del ramo si infilano tra i miei capelli. Spero non ci siano insetti nascosti…

Passo la bandana sotto il braccio di Alberto.

Lui la osserva. «Non ce n’è bisogno, Ilaria.»

Il fiato mi entra a tratti, ogni espirazione rischia di essere l’inizio di un pianto. «Invece sì.» Faccio un nodo, stringo quanto basta per tenere su il fazzoletto ma senza far male ad Alberto.

«Grazie, amore.» Il mio ragazzo si appoggia con la schiena al tronco del pino.

Mi stringo a lui. I brividi mi scuotono la schiena, gli occhi mi bruciano come quando sta arrivando la febbre, ma so – spero – che non è febbre. Devo cambiarmi, ma dove? È come essere sotto una doccia.

I chicchi di grandine s’infrangono sulle rocce, rimbalzano come proiettili. Schizzi di acqua gelida mi colpiscono il viso. Appoggio il capo sulla spalla umida di Alberto, l’odore acre del suo sudore copre il profumo di resina, ma il calore del suo corpo combatte l’ululare del vento.

Lui mi accarezza i capelli, mi sfila un ago rimasto in una ciocca. Sospira, il suo sguardo perso nella nebbia che sta salendo.

Stritolo il suo braccio e avvicino i piedi al sedere per non lasciare le scarpe sotto l’acqua che gocciola dal pino.

La grandinata aumenta, sembra sparata con le mitragliatrici. Essere all’aperto sarebbe un suicidio o quasi. I rami si scuotono nelle folate e fanno cadere su di noi goccioloni gelati. Uno schiocco sopra di noi mi fa sollevare la testa, ma è tutta una coltre verde impenetrabile alla vista. Il pino reggerà… vero?

Un lampo illumina la valle, il tuono ha lo stesso suono di centinaia di tubi di ferro che cadono su un pavimento, ma mille volte più forte.

Sposto lo sguardo verso Alberto, lui mi guarda di sottecchi e continua ad accarezzarmi i capelli. Lo stringo più forte. Perché l’ho fatto finire in questo casino? Solo perché volevo vedere una miniera di cui mi raccontava la mia bisnonna? I tre saggi governavano sugli uomini durante la loro presenza nel regno delle creature magiche, e quando chiedevo come punissero, Mariellina si zittiva, e mi guardava. Nel suo sguardo leggevo, anche a quattro anni, che era meglio non indagare sulle pene che affliggevano a chi contravveniva alle regole. Altroché i fantasy che piacciono ad Alberto, questo è più un racconto dell’orrore…

La grandine viene sostituita dalla pioggia. Il mio ragazzo si sporge fuori dal pino. «Sembra stia diminuendo di intensità.»

«Pensi che non grandinerà più?» I fili d’erba del pascolo spuntano da un tappeto di chicchi di ghiaccio. Un ramo del pino si è spezzato e pende dietro di noi. Nelle pozzanghere del sentiero sembrano congelate come in inverno. Non basterebbe un ombrello per proteggersi da una mitragliata simile…

Alberto torna sotto il tetto verde. «Non lo so… potrebbe essere solo una pausa momentanea.»

Oltre le sue spalle, il bosco in cui confidavamo di trovare rifugio durante la discesa sembra essersi allontanato rispetto a prima, nulla se non pascoli dove rischiare di prendersi un altro bombardamento di ghiaccio per chilometri. E non so nemmeno dove arrivi davvero il sentiero: magari giunge a valle, davanti ad un bar con della cioccolata fumante… magari si perde in una radura che nessuno visita da mezzo secolo.

Alle mie, di spalle, a meno di cinque minuti, sorge la malga, con l’inquietante montanaro, il suo compare, la puzza di stalla. Il fuoco fumoso.

Un vero tetto di ardesia.

Il calore per asciugarsi.

Mi volto verso Alberto, il suo viso lascia trasparire il dubbio su cosa fare. Se non l’avessi trascinato con me, in questa stupida avventura per onorare le storielle che mi raccontava Mariellina, saremmo a casa, seduti sul divano, a rimpiangere internet che non funziona e la tv che non prende. Sopprimo uno scoppio di risa: non mi lamenterò più di nulla, finché sarò all’asciutto.

Afferro lo zaino e mi trascino fuori dalla protezione del pino. Molti rami sono in una posizione innaturale, vittime della potenza della grandine. Non reggerà un altro giro di tempesta, non voglio che ci troveremo qui sotto quando tutto crollerà. Un paio di flash mi accecano. Il tuono brontola nelle mie ossa. «Andiamo, Alberto. Chiediamo a quelli della malga di farci passare la notte da loro.»

Lui si appoggia su un gomito e mi guarda da sotto la pianta. «Sei sicura?»

Mi si stringe lo stomaco all’idea di tornare lì, ma il pino è la versione vegetale di un edificio usato come bersaglio dall’artiglieria. «Sì.»