Silenzio, Latte, Calore

Il parcheggio del Laghetto dei Riflessi è molto piccolo ed era affollato. Auto accatastate in ogni angolo ed io che guidavo piano, cercando di trovare un posto per infilarmi.
Volevo solo staccare, prendermi un pomeriggio di respiro.
Poi la vidi.
Era china sul baule di una piccola city car, vestita leggera, di lino chiaro. Una ragazza giovane, minuta, con una grazia quasi infantile. Stava cercando di tirare fuori un passeggino dal baule e una delle spalline le scivolò giù. Il vestito seguì il movimento, cedevole. Il tessuto si aprì piano, come se accarezzasse la pelle invece di coprirla.
E lì, all’improvviso, una mammella sfuggì del tutto.
Nuda. Bianca. Gonfia.
Il capezzolo scuro, teso. Una goccia di latte che le pendeva come un gioiello proibito.
Io rimasi immobile. La fissavo dal volante. Lei non sembrava accorgersene. Poi si girò. I nostri occhi si incrociarono.
Il seno ancora fuori.
Mi guardò.
E sorrise.
Non si ricompose.
Prese un neonato dal sedile passeggero e lo sistemò nel passeggino. Nel chinarsi di nuovo, anche l’altro seno si affacciò fuori dal vestito, come se il corpo stesse rinunciando del tutto al pudore.
I capezzoli scuri, duri, lucidi. Le punte colavano latte a piccoli battiti lenti, come pulsazioni.
Lei mi guardava e diceva qualcosa, ma non sentivo. Fece un gesto col dito.
Abbassai il finestrino.
“Scusami… magari ti sto bloccando. Hai spazio per uscire?”
“No no, tranquilla. Cercavo solo un posto dove parcheggiare e non restare incastrato.”
“Ah ok. Perfetto.”
Un sorriso di cortesia. Ma gli occhi le brillavano. E io non staccavo lo sguardo da quel seno che tremava ancora libero. Lei, lentamente, si tirò su le spalline. Ma sembrava farlo per forma. Non per pudore.
Parcheggiai poco più avanti.
Scelsi uno spazio improvvisato.
Scesi, chiusi l’auto e mi incamminai. Pochi metri davanti a me c’erano i passi leggeri della mamma ed il suo passeggino.
Camminavo dietro di lei. Non troppo distante. Mai troppo vicino.
Il sentiero era tranquillo.
Ombra, sole, il rumore di ghiaia sotto i piedi.
Ogni tanto lei si voltava. Mi guardava. Si sistemava i capelli dietro l’orecchio.
Io osservavo ogni movimento. Il modo in cui il vestito le si incollava addosso.
Il tessuto che si apriva sui fianchi.
Quel corpo che camminava davanti a me e sembrava dirmi: “Guardami pure.”
Poi un tonfo.
Un giocattolo volò fuori dal passeggino.
Lei si voltò di scatto.
“Uffa… Jacopo, dai…Basta!!” Urló
La voce era esasperata. Non rabbiosa. Solo esausta.
Mi chinai. Raccolsi il gioco. Glielo porsi.
“Tieni.”
Lei lo prese. Ma non mi guardò. O meglio… mi guardò senza vedermi.
Il mento le tremò. Gli occhi lucidi.
“Scusami…” sussurrò. “È tutto troppo.”
Fece un passo indietro, poi un altro in avanti. Non sapeva dove andare. E io, senza pensarci troppo, le misi una mano sul braccio.
“Ehi… va tutto bene?”
Lei mi fissò un secondo. Poi si lasciò andare. Appoggiò la fronte contro il mio petto. Sentii il suo seno schiacciarsi sul mio petto. Era caldo, vivo.
Il capezzolo si premette contro la stoffa della mia maglietta e senza che potessi evitarlo,
mi intrise. Latte caldo. Vivo. Una chiazza di umido che sembrava marchiarmi..
Le passai un braccio intorno alla schiena. Non dissi molto.
“È normale… sei esausta. Molte neo mamme affrontano la tua situazione. Non sei sola, fatti aiutare.”
Lei annuì piano, restando lì. Il respiro le tremava.
Poi si tirò su lentamente. Si sistemò il vestito con calma. Fece un piccolo sorriso imbarazzato.
“Grazie…”
“Di niente. Vieni, proseguiamo insieme?”
Camminammo. In silenzio. Ma vicini. Il peso che aveva addosso sembrava più leggero.
Dopo una quindicina di minuti, arrivammo in una piccola radura, appartata, con una zona d’ombra e un’apertura al sole. Lei si fermò.
“Qui va bene?”
“Perfetto.”
Tirò fuori una stuoia da sotto il passeggino.
“Mi aiuti?”
“Certo.”
Stendemmo la tela. Lei si sedette subito, con un sospiro che sapeva di resa.
Io mi tolsi la maglietta.
“Fa un caldo bestiale.”
Lei mi guardava. Gli occhi seguirono il profilo delle mie spalle, poi scesero verso i pantaloncini.
“Ti dà fastidio se resto in boxer a prendere il sole?”
Scosse piano la testa.
“No… fai pure.”
Mi sfilai i pantaloncini. Rimasi in boxer aderenti. Il mio cazzo iniziava a gonfiarsi. Non era un’erezione piena, ma bastava. Lei lo vide. Lo guardò. Poi abbassò lo sguardo. E si morse il labbro.
Il suo vestito era completamente zuppo. Le chiazze di latte sui seni ed il sudore lo avevano reso trasparente. Lei lo osservò, seccata. Poi guardò in giro.
“Dici che può passare qualcuno qua?”
“Direi di no. Siamo isolati.”
Rimase in silenzio.
Poi fece un piccolo respiro.
E si sfilò il vestito.
Il lino le scivolò via lungo il corpo.
Restò in piedi con solo un tanga rosso. Minuscolo. Zuppo.
Le labbra della figa uscivano ai lati, gonfie, vive.
Il triangolo del tessuto non riusciva più a contenerla.
Le tette nude, piene, pesanti, i capezzoli tesi.
Il latte colava in gocce lente.
Il mio cazzo si sollevò di scatto sotto il boxer.
Lei lo vide.
— “Almeno qualcuno mi guarda ancora come una donna…”
Poi voltò la testa verso di me.
— “Mi chiamo Beatrice.”
— “Piacere…”
Fece un mezzo sorriso.
— “Da quando è nato Jacopo… mio marito non mi desidera più. Non mi tocca più. Come se il mio corpo non fosse più mio. Solo utile. Solo una madre.”
Lo disse senza rancore.
Ma con una fame che le bruciava negli occhi.
Io non risposi.
La guardavo.
E il mio cazzo parlava per me.
Rimanemmo lì. Parlando piano. Di tutto e di niente.
E senza rendercene conto, erano passate tre ore.
Il sole cominciava a piegarsi e l’aria era diventata densa.
In quel momento Jacopo cominciò a piangere.
Feci per alzarmi, ma lei mi fermò con una mano sul petto.
“Stai… ci penso io.”
Prese il bambino in braccio, si sistemò seduta accanto a me. Il suo seno era già nudo, pronto.
Lo attaccò al capezzolo in un gesto fluido, naturale.
Allattava.
Accanto a me.
Nuda.
Con l’altro seno che gocciolava latte a ogni respiro.
La guardavo. Senza parlare. Il mio cazzo era diventato duro come ferro.
Quando Jacopo si addormentò, ci rivestimmo in silenzio.
Tornammo al parcheggio, con passi lenti, fiato corto, e qualcosa che cresceva tra noi.
Lei sistemò il bambino in macchina. Lo allacciò al seggiolino. Io chiusi il passeggino e lo riposi nel bagagliaio per lei. Mi voltai per salutarla.
“Aspetta,” disse.
Era seduta. Portiera aperta. Mi fece cenno con le dita.
Mi avvicinai. Lei mi guardava con gli occhi accesi.
Allungò la mano. Mi prese il cazzo da sopra i pantaloncini.
Lo strinse. Lo sentì duro, enorme.
Abbassò piano l’elastico.
Il mio cazzo saltò fuori. Gonfio.
“È… bellissimo… il doppio di quello di mio marito…” sussurrò.
Lo prese con due mani. Poi lo portò alla bocca.
E cominciò a succhiarlo.
Con fame. Con lussuria. Con gratitudine.
Slurp. Slap. La bocca piena, la saliva che colava.
Mi guardava da sotto. Le labbra tirate, le guance vuote, la lingua che danzava sotto la cappella.
Poi si fermò.
“Voglio sentirti dentro.”
Salì sul sedile. Mise le mani sul sedile passeggero dove vi era fissato il seggiolino.
A pecora. Il vestito sollevato. Il tanga spostato.
E lì… la sua figa.
Una figa vera. Di donna. Di madre. Gonfia. Labbra larghe, bagnate. Il buco rilassato, ma vivo.
Una figa che aveva partorito. E che ora voleva essere scopata.
Le affondavo il cazzo dentro con forza, le mani sui suoi fianchi, il suo culo stretto piegato sul sedile di guida.
Il vestito era ormai un’ombra umida sotto di noi.
— “Sì… così… scopami… ancora… più forte…”
Sentivo la figa stringermi.
Calda. Aperta.
Un corpo che non cercava amore, ma bisogno.
Poi arrivò il primo scatto.
Le cosce le tremarono. Il bacino si inarcò.
— “Sto venendo…”
Il primo orgasmo la attraversò.
La sua figa si strinse e mi risucchiò dentro.
La sentivo contrarsi a ondate.
I muscoli che spremevano.
Un gemito profondo, quasi disperato.
Continuai a muovermi, più lento, ma senza fermarmi.
Volevo sentirla sciogliersi sotto di me.
Il secondo orgasmo arrivò di colpo, più liquido.
Uno schiocco viscido, e poi il rumore secco di un fiotto che le scappava da dentro.
Squirtó.
Scattò avanti con il bacino come
per sedersi, un getto pieno e teso le uscì dalla figa e schizzò in avanti.
Passò tra il cambio e il freno a mano, centrando in pieno il seggiolino e cio che esso conteneva.
— “Lo sto bagnando tutto…” ansimò.
— “Sto venendo così forte che non riesco a trattenermi…”
Non potevo credere ai miei occhi.
Lei non smetteva.
Era come posseduta.
Torno in ginocchio sul sedile, donandomi ancora io suo sesso.
Avevo raggiunto il culmine.
“Sto venendo…” le dissi
“Dentro… voglio sentirti… vieni dentro…”
Le affondai il cazzo fino in fondo.
Sborrai.
Un’esplosione di calore, in profondità.
La mia sborra le inondò il ventre, poi colò fuori, mista ai suoi fiotti.
Scivolò lungo le sue cosce e uno schizzo colpi il bordo inferiore del seggiolino.
Una scia lattiginosa, lenta, visibile.
Il seggiolino era un disastro.
Imbrattato. Marchiato. Irrimediabilmente bagnato.
Beatrice si accasciò sul volante.
Sfinita. Sudata. Aperta.
Poi si voltò.
“È la prima volta dopo mesi… che mi sento viva.”
Si tirò su piano. Osservavo un filo di sborra che si spezzò in aria e le colò giù tra le cosce.
Lei non disse nulla.
Allungò la mano verso il sedile accanto, frugando alla cieca. Le dita afferrarono qualcosa: una bavaglia. Bianca, piccola, con sopra stampato un riccio blu e la scritta “Amore di mamma”.
La guardò un istante. Poi se la passò tra le gambe, senza esitazioni. Si pulì a fondo. La figa era gonfia, dilatata, rossa. Umori ovunque. Il mio sperma colava ancora fuori, caldo, denso, e lei lo raccoglieva con gesti lenti, quasi meccanici. Lo strofinò sulla pelle interna delle cosce, poi risalì.
La bavaglia si impregnò di latte e sborra. Sembrava un panno da cucina dopo un orgasmo.
Poi si sistemò le mutandine — lente, tirate su sopra quella figa devastata — e si rimise addosso il vestito. Lo lisciò con le mani, lo tirò giù sulle cosce, anche se sapeva che era inutile: era fradicio, trasparente, grondante di lei.
Si girò verso di me.
Io ero ancora lì, fuori dall’auto, con il cazzo semi-duro che sporgeva sopra l’elastico dei pantaloncini. Le mani appoggiate sul bordo della portiera, lo sguardo fisso su di lei.
Sul sedile di guida, dove aveva appoggiato le ginocchia, c’erano latte, umori e sborra. Tracce precise del suo corpo. Una mappa del nostro incontro.
Frugò nella borsa.
Tirò fuori una penna.
Uno scontrino.
Lo scrisse lì, davanti a me. Sulla coscia nuda.
Cifra dopo cifra.
Poi lo piegò. Me lo porse.
— “Se vuoi.”
Mi avvicinò le labbra.
Mi baciò.
Poi all’orecchio:
“Fammi sentire una puttana, anche se sono madre.
Voglio che mi usi come non si usa una madre. Come non si dovrebbe.”
Mise in moto.
E se ne andò.
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