L’ultima volta

I giorni passarono.

Poi le settimane.

Poi i mesi.

Lucrezia non era più solo la mia donna.

Era diventata sua.

Usciva sempre più spesso.

All’inizio me lo diceva. Poi smise.

Ogni volta tornava a casa svuotata e soddisfatta, con la pelle profumata del suo odore e del suo cazzo.

La figa lucida, allentata.

Gli occhi spenti e pieni allo stesso tempo.

All’inizio gliela leccavo ancora.

Anche solo per assaggiare cosa restava.

Poi… iniziò a negarsi.

«Non oggi», mi diceva.

«Mi ha già presa lui.»

Un giorno tornò con il rossetto sbavato, i capelli incasinati, le cosce bagnate.

Provai ad avvicinarmi.

Lei mi sorrise come si sorride a un cane che chiede cibo mentre tu stai mangiando il tuo.

«Tesoro… questa è roba sua. Tu lo sai.»

Mi inginocchiai. Provai a supplicarla.

Lei aprì le gambe e si accarezzò la figa davanti a me.

«Guarda com’è gonfia. Mi ha scopata per due ore. Mi ha riempita tre volte.

Ho ancora la sua sborra che mi cola. E tu vuoi leccarla… vero?»

Io annuii.

Ma non mi fece nemmeno avvicinare.

«No. Non oggi. Oggi voglio tenermela dentro.

Mi fa sentire piena. Vissuta. Sua.»

Mi voltò le spalle.

E andò a dormire.

Così sono diventato un’ombra nella mia stessa casa.

Guardavo, servivo, pulivo.

Ma non scopavo più.

Non venivo più toccato.

Non venivo più guardato da uomo.

Lucrezia brillava.

Ogni giorno più bella. Più viva.

Come se il cazzo di Salvatore l’avesse risvegliata del tutto.

Un pomeriggio, rientrò presto.

Aveva lo sguardo serio.

Mi chiamò in salotto.

Io ero già in ginocchio. Quasi per istinto.

«Devo dirti una cosa.»

Mi tremò il petto.

Lei sospirò.

Si mise seduta. Aprì le gambe lentamente.

La figa era nuda. Ancora arrossata.

Ancora calda.

«Mi sento strana da giorni. Ho fatto un test.»

Silenzio.

«Sono incinta.»

Mi mancò l’aria.

Mi si ghiacciò lo stomaco.

Lei aspettò. Poi aggiunse:

«È suo. Di Salvatore. Ovviamente.»

La guardai. Non riuscivo a parlare.

Lei si passò una mano sulla pancia, ancora piatta.

«Sai perché l’ha voluto? Perché gli piace vedermi piena. Non solo la figa.

Mi vuole anche l’utero. La pancia. Vuole lasciarmi qualcosa dentro. Sempre.

E io… lo voglio anch’io.»

Poi si alzò.

«Domani me ne vado. Con lui.»

Mi crollò il mondo addosso.

Cercai di fermarla. Di dirle qualcosa. Di chiedere almeno… un’ultima volta.

E lei sorrise.

«Te lo aspettavi. Ma… ti ho tenuto un regalo.»

Mi prese per mano.

Mi portò in camera.

Si spogliò lentamente.

Senza dire nulla.

Si sdraiò sul letto. A gambe aperte.

La sua figa era bellissima.

Ancora umida.

Ancora viva.

«Voglio che mi scopi. Un’ultima volta.

Voglio guardarti mentre mi vieni dentro.

Voglio sentirti perdere per sempre.»

Mi spogliai tremando.

Il mio cazzo era duro, gonfio, doloroso.

Mi posizionai su di lei.

Lei mi prese per i fianchi.

«Guardami negli occhi.»

Lo feci.

Entrai dentro.

E mi esplose il cuore.

Era calda. Accogliente.

Aveva ancora il suo odore.

Ma era mia. Per un attimo. Solo per un attimo.

Mi muovevo piano. Poi più forte.

Lei gemeva, ma non per me.

Era eccitata dal gesto, non da me.

«Fermati. Ora vienimi dentro.»

Io lo feci.

Svuotai tutto.

Dentro di lei.

Nel suo corpo già preso.

Nel suo utero già fecondato da un altro.

Lei mi guardò.

Sorrise.

Poi si mise a cavalcioni su di me.

Si aprì le labbra della figa con due dita.

«Adesso. Leccami.»

Obbedii.

Affondai la lingua.

Dentro la mia sborra.

Dentro la sua figa.

Dentro la nuova madre di un altro uomo.

La pulii.

Leccai tutto.

Ogni goccia.

Ogni umiliazione.

Ogni verità.

Lei si accarezzava la pancia.

«Grazie, amore. Mi hai fatto diventare quello che dovevo essere.»

Poi non si mosse subito.

Mi guardò.

Mi accarezzò i capelli.

Poi si alzò.

Aprì un cassetto.

Tirò fuori uno dei suoi giocattoli.

Lo conoscevo bene.

Uno strap-on nero, lungo, liscio, con l’imbracatura lucida.

Lo aveva usato su di sé. Su altre donne.

Ma mai su di me.

Fino a quel momento.

«Ora tocca a me, amore.»

Mi voltò sul letto, nudo, tremante, con la faccia ancora umida della sua figa.

«Hai preso il suo cazzo, hai succhiato il suo seme, mi hai riempita.

Ma prima di andarmene… voglio fotterti io.»

Me lo disse calma, come una regina che firma l’ultimo ordine.

Non c’era odio.

Solo potere.

Indossò il cinturone.

Si sputò sulle dita.

Mi allargò le chiappe con decisione.

«Resta fermo.»

Io ero già aperto.

Il mio buco ardeva ancora del passaggio di Salvatore.

Ma ora era lei.

Mi entrò dentro con lentezza chirurgica.

Il cazzo sintetico scivolò tra le mie carni, e io gemetti.

Mi morsi il labbro. Non dissi nulla.

Lei affondò.

Mi stava scopando.

«Ti piace, cornuto? Questo è il mio addio.»

Ogni colpo era più deciso.

Mi prendeva con foga, con precisione, con vendetta erotica.

«Ora ti porto via anche l’orgoglio.

Quando chiuderò la porta… resterai vuoto. Dentro e fuori.»

Io gemetti forte.

Il mio cazzo era di nuovo duro.

E senza nemmeno toccarlo, venni.

Sborrai sul lenzuolo, in silenzio, mentre lei mi scopava il culo.

Quando si fermò, si sfilò l’imbracatura.

Me lo passò sulle labbra.

«Lecchialo. È l’ultima cosa mia che avrai.»

Lo feci.

Poi si rivestì.

Prese la valigia.

Si fermò sulla soglia.

Mi guardò un’ultima volta.

Io… a carponi. Con la faccia sporca. Il buco aperto.

Il corpo svuotato.

La mente spezzata.

Lei sorrise.

«Adesso… sei mio.

E lo sarai anche quando non ci sarò più.»

E se ne andò.

Con suo figlio.

Con la sua libertà.

Io restai.

A leccare. A ricordare. A obbedire. Anche senza padrona.