Il secondo lavoro di Vincenza
Capitolo 3 - Puttane e putrelle
«Non poteva di certo trovare una posizione migliore per sembrare davvero una puttana.»
Fermo la macchina nel parcheggio davanti a Morena, che si stacca dal lampione a cui era appoggiata e getta il mozzicone di sigaretta in una pozzanghera. Ha fatto i bigodini ai capelli neri ed indossa una giacca scura lucida; almeno oggi non ha quei tacchi da trampoliere ma si è limitata a sei o sette centimetri. Prende dalla borsetta una confezione di mentine e se ne fa cadere qualcuna in mano. «Finalmente sei arrivata, Vincé.» Si getta le mentine in bocca.
Chiudo la macchina e la saluto con un cenno. Odio quando mi chiama “Vincè”, lei che è quasi austriaca. Probabilmente lo fa perché gelosa del mio nome, visto che il suo suona quasi come “Murena”.
Si rimette nella microborsetta nera la confezione di mentine, senza offrirmene. Ma io prima di uscire di casa mi sono lavata i denti e non fumo: quando mi mettono la lingua in bocca non hanno la sensazione di limonare un posacenere.
Ci sono un paio di locali lungo la via illuminata dai lampioni, uno anche piuttosto rinomato. Non che ci sia mai potuta entrare, ma di tanto in tanto lo sento nominare mentre sono inginocchiata a pulire cessi. «Dove dobbiamo andare?»
Morena accenna al palazzone dietro di lei, un condominio giallo che avrebbe bisogno di una mano di tinteggiatura, con segni di lacrime che scendono dai lati dei davanzali e un negozio vuoto al piano terra dalle vetrine impolverate. Mi auguro sia la casa del nipote del politico…
«Ci aspettano di sopra,» Morena si avvia verso il portone, «spero abbiano qualcosa da bere.»
Si avvicina al citofono, consulta i nomi e preme un pulsante.
Il citofono emette un trillo. Una voce maschile esce dall’altoparlante. «Chi è?»
Morena mi lancia un’occhiata e parla al microfono. «Abbiamo il regalo per il festeggiato.»
«Salite. Quarto piano, la porta in fondo a sinistra.» La comunicazione si chiude e si sblocca l’elettromagnete del portoncino, un’accozzaglia di finestrelle in una struttura di alluminio dorato.
La mia collega spinge il battente ed entra prima di me nel piccolo androne. La seguo nell’ascensore, una bara verticale non più grande delle cabine telefoniche che hanno portato via pochi anni fa dalla piazza di Caregan.
Morena mi fissa. Ha dieci anni in più di me, ma ne dimostra almeno altrettanti in più. Ha le unghie laccate di un rosso volgare, così come lo è il rossetto. Il fiato è un misto di nicotina e mentolo rivoltante. «Capiamoci subito,» si punta il dito contro il seno prosperoso, una valle ombrosa ben visibile nella scollatura della maglia grigia, «il ragazzino me lo faccio io. Ci vuole esperienza per farsi i verginelli.»
Non preoccuparti, non puntavo affatto a uno che abita in un posto simile, a me interessa diventare l’amante del politico. Fingo rassegnazione. «La tua anzianità vince sulla mia inesperienza.» Trattengo un sorriso alla smorfia della mia collega. «Vorrà dire che farò compagnia allo zio mentre tu consumi il cazzo del festeggiato.»
Morena scuote la testa. «Quale zio?»
«Il senatore. O deputato, quello che è. Il ragazzo non è suo nipote?»
La donna sogghigna. «L’assessore Pavan non è lo zio di Simone.»
Gli angoli della mia bocca calano come se fossero cera esposta al calore. «Cosa…»
L’ascensore si blocca e la porta si apre. Morena esce sogghignando ancora. Stronza.
Un ragazzo magro come un palo del telefono è davanti alla porta in fondo al corridoio. Mi aspetto quasi che la tuta azzurra che indossa gli scenda ai piedi, dove calza un paio di pantofole pelose.
Stringo le labbra per non mettermi a ridere. È quello il festeggiato? Mi trattengo dal battere una mano sulla spalla di Morena e dirle che ha proprio uno stallone da montare.
Il festeggiato mette la testa bionda nell’appartamento, sporgendosi dentro. «Nonno!» È afono, sembra cerchi di urlare dopo aver corso una maratona. «Sono arrivate le lurid—»
«Non urlare, Simo—» Strilla una voce, interrotta da un accesso di tosse catarrosa. Uno scaracchio proviene dall’appartamento.
Merda… la voglia di ridere scompare: mi sa che non sarò più fortunata della mia collega…
Morena bussa sullo stipite della porta. «È permesso?»
Un vecchio con i capelli bianchi che formano un’aureola come i frati nei cartoni animati sta finendo di pulirsi la bocca con un fazzoletto. Lo accartoccia e lo mette in una tasca di un paio di pantaloni di panno blu. «Entrate, entrate, e chiudete la porta.» Indossa una canottiera azzurra alla cui sommità spunta un cespuglio di peli bianchi.
Gli occhi iniziano a bruciare. Porca troia… questo ha iniziato la carriera nell’Impero Austroungarico…
Il nipote è dall’altra parte del salotto. Saltella da una gamba all’altra e ha le mani sul volto, eccitato. Sembra davvero non abbia mai visto una donna.
Morena entra in casa e io la seguo, chiudendo la porta dietro di me.
Simone parla attraverso le mani sul volto. «Posso, nonno?»
Il tono catarroso del vecchio lascia poco dubbio sul fatto che apprezzi le sigarette più di quanto lo faccia Morena. «Calmo, Simone.» Se un corvo parlasse gracchierebbe allo stesso modo.
«Suo nipote sembra impaziente», Morena carica in quelle parole una buona dose di entusiasmo.
Il vecchio scuote la testa. «Il mio Simone è vergine, povero caro, dovete capirlo.»
Simulo il miglior sorriso che in questo momento riesco a fingere. «Com’è possibile? È un così bel ragazzo.» Brutto-brutto-brutto non è, a meno che non picchi le ragazze mi sembra impossibile che…
Il vecchio sospira e gracchia ancora. «Faglielo vedere, Simone.» Dal tono di voce sembra che il nipote stia per mostrarci una ferita sfigurante…
Il ragazzo afferra con una mano l’elastico dei pantaloni, lo discosta e ci infila dentro l’altra mano. Sposta indietro la spalla, come se stesse tirando fuori un tronco. Sgrano gli occhi: dalla tuta tira fuori un avambraccio, ma al posto di una mano c’è attaccata una cappella.
Morena resta con gli occhi sgranati e la bocca aperta, e non quella bocca aperta che lascia intendere che la cosa sta piacendo. Io mi trovo immobilizzata, ho quasi paura che, se mi nota, poi voglia pestarmi con quella nerchia.
Simone guarda noi, poi il vecchio. Gli si illuminano gli occhi. «Queste non scappano, nonno!»
Morena si volta verso di me, sbiancata. Io sollevo le spalle e le sorrido appena. «Meno male che ci sei tu che hai esperienza», sussurro. Io non ho alcuna intenzione di avere a che fare con un missile balistico simile: metti che vuole scoprire se gli dà più soddisfazione la figa o il culo… O ripetere uno di quei deepthroat che ha visto nei porno.
Appoggio una mano sulla spalla di Morena e la spingo verso il ragazzo.
«La milf!» strilla quello, saltellando. Il cazzo si muove come il trampolino per i tuffi durante i salti di prova. Quel coso ha bisogno sulla cappella di un cartello di carico sporgente per quando gira in strada. O di una carriola su cui appoggiarlo. Spero che le palle non siano delle dimensioni equivalenti, o ci vorrà il salvagente quando sborrerà.
Faccio l’occhiolino al ragazzo. «Ti divertirai con Morena, Simone.»
Lui l’afferra per la mano e quasi la trascina in camera da letto. Quando Morena sosteneva che gli piace lungo e grosso, di certo intendeva qualcosa di più contenuto di quella putrella.
La porta si chiude e il ragazzo lancia grida di eccitazione.
La voce del vecchio non è altrettanto soddisfatta. «Povero caro, tutte lo evitano perché hanno paura di un mostro simile.»
Non rispondo, non potrei dare loro torto. Sono felice di essermelo schivato. Da una parte spero che la serata vada bene e soddisfi Stefano, dall’altra mi auguro di non rischiare più di farmi sfondare da un tronco di sequoia simile.
«Non è un cattivo ragazzo,» gracchia ancora il vecchio, scuotendo la testa, «ma è timido con le ragazze per il suo…»
…brontosauro? Sorrido. «Non si preoccupi…» Onorevole? Senatore? «…dottor Pavan, Morena sarà felice di… ehm… far scoprire a suo nipote le gioie del sesso.» Ma mai quanto provare a sedersi domani…
«E tu come ti chiami, ragazza?»
Apro la bocca per rispondere, ma mi fermo. Forse non è una buona idea dare la mia vera identità ad un politico. Potrebbe risalire al mio passato? Sì, dovrei crearmi uno pseudonimo di lavoro: dopotutto, quante Vincenza possono esserci a Treviso? «Ehm… La-Lara Croft.»
Lui mi fissa sotto le sopracciglia cespugliose bianche, le pupille pallide che mi scrutano. «Croft? Simone ogni tanto parla di te. Devi essere famosa: sei su qualche giornaletto…» Le labbra del vecchio si schiudono in un sorriso appena accennato. «…quei giornaletti. Hai capito, no: Le ore, Supersex…»
Puntello il sorriso. Questo dev’essere rimasto alle Sorelle Bandiera e Betty Boop.
«Magari avrebbe preferito fottere te invece della tua collega.»
Sorrido. «Sarà per la prossima volta.» Meglio ancora se mai.
«Posso provarti prima io, così gli dico se sei davvero così brava.» Sposta il culo in avanti sul divano rivestito da una coperta bianca piena di grossi fiori e si mette a trafficare con il bottone della patta dei pantaloni. «Scoprirai che essere ben forniti qui sotto è una cosa comune nella famiglia Pavan.»
«Davvero?» Spero che il nipote sia l’unico con un’anaconda nelle mutande e il resto della famiglia abbia dimensioni più umane.
Il vecchio finisce di combattere con i pantaloni e li abbassa mostrando delle gambe che sono quasi più sottili del cazzo del nipote. Appaiono un paio di mutande sfatte, che sembrano quelle indossate sotto le toghe dagli antichi romani nei film storici. «Posso avere sessantasei anni, ma ho ancora un manganello duro come il marmo.»
Cala le mutande e da un gomitolo di peli in mezzo alle gambe spunta un pollice stanco. Lo afferra e lo… non ne fa nulla, non è abbastanza grande per muoverlo.
Cosa diavolo… Un senso di allarme mi assale, simile a quello che ho provato quando il nipote ha tirato fuori quel boa costrictor e, al contempo, contrario: cosa cazzo dovrei farci con quel… coso?
Il vecchio lo muove scuotendolo. Sembra una scena di quei film scemi che vedevo a quindici anni su Internet con le amiche per farci quattro risate. Lui mi fissa, sembra risentito. «Allora? Vuoi che fotta solo mio nipote Simone?»
Dalla camera accanto provengono cigolii del letto e Morena che grida il nome del ragazzo, spesso interrotto da grida che non sembrano di piacere.
«Pago due troie,» gracchia il vecchio, «e mi aspetto che lavorino tutte e due.»
Deglutisco. Non fosse per il fatto che Stefano userà la valutazione del vecchio per decidere se accettarmi nell’agenzia di accompagnatrici, direi al vecchio che qui ci vuole la bacchetta magica, e io non sono Hermione che può lanciare un “arrapatum”… Mi sbottono la giacca, la appoggio sulla sedia vicina e sollevo la maglia e la maglietta.
Il vecchio sorride soddisfatto. «Gran belle bocce, Lana.»
Lana… Getto i vestiti sulla giacca e mi avvicino al cliente.
Lui allunga la mano che non sta sostenendo il pollice e mi strizza una tetta. Al posto della mano ha una morsa.
Stringo i denti. Non avrò le angurie di quella troia di Francesca, ma tutti hanno sempre apprezzato le mie tette: ricordo ancora come Adriano, alla finale della gara di pompini, ammirava le mie due bocce. Magari, se ci gioca un po’, anche al vecchio arriva un po’ di sangue dove serve quando vai a zoccole…
Mi inginocchio e simulo un sospiro di piacere. «Si vede che hai una certa esperienza…»
Anche l’altra mano mi palpa il seno. «Se tu sapessi quante me ne sono scopate!»
“Facevano la fila per farsi mettere a pecora…”, certo, roba chilometrica.
Allungo la mano sul cazzetto e lo tocco con un dito. É tutto raggrinzito, sembra uno di quei mucchietti di argilla posti sul tornio del vasaio, ma in formato minuscolo. È come toccare un’escrescenza priva di vita. Un paio di palle più lunghe del cazzo finiscono tra le gambe secche.
«Ai tempi, mi bastava vedere un po’ di mona per impalarne tre alla volta.» Il vecchio continua a malmenarmi le tette. «Adesso è come un diesel, ha bisogno di un po’ di tempo…»
A me sembra il Ciao arrugginito di mia madre, appoggiato al muro della casa a Sorrento e buono solo alla rottamazione.
Lo prendo in mano e lo massaggio. Mi stupisce che inizi a ingrossarsi. Lo faccio drizzare anche ai vecchi…
Una mano molla la mia tetta sinistra e si appoggia sulla mia testa. Me la spinge verso il basso.
«Succhiamelo, Laura.» Non è una richiesta, ma un ordine. O almeno dovrebbe essere per il vecchio, ma io non so se essere disgustata da quel coso o divertita dal fatto che non ricordi un nome per dieci secondi.
Cedo e apro le labbra. È come mettersi in bocca del cuoio.
Le mura attutiscono il grido proveniente dalla camera da letto. «Sì, lurida! Ti riempio la mona!»
Morena ansima, a stento capisco le sue parole. «Sei stato fantastico, Simone…»
«Non ho finito.»
Il cigolio ricomincia.
«Ha preso da me,» sogghigna il vecchio, «adesso ti faccio vedere quanto duro e quante volte ti riempio.»
Certo… Comincio a muovere la testa su e giù, ma non c’è molto spazio di manovra: il cazzo si è ingrossato un po’, ma adesso è come un indice. Passo la lingua sulla punta, è come leccare del cartone.
E lui puzza di acqua di colonia di terza categoria. Se l’è sparsa nelle mutande?
«Continua, non fermarti… Ho sempre avuto una grande resistenza! Vedrai, Laura, quando ce l’avrò tutto in tiro!»
Nemmeno se ti metti il viagra nel culo, riesci a fartelo venire duro, vecchio bastardo…
Inizia a farmi male il collo a furia di andare su e giù. Solo il cazzo è diventato un po’ più lungo e duro.
Il cigolio dalla camera da letto si interrompe, sostituito da un grugnito. «Ti faccio esplodere la passera, lurida!»
«Il mio Simone si sta dando da fare! Alla sua età, anch’io…»
Si daranno da fare anche i carabinieri, quando li chiameranno i vicini per gli schiamazzi.
La voce di Morena è intervallata dagli ansimi. Mi sa che non sta fingendo per nulla. «Simone… sei un toro… per questa sera penso che hai fa—»
«Girati, adesso voglio il tuo buco del culo, lurida.»
Meno male che era timido con le ragazze, il nostro Simone. Magari se porto l’assessore a vita di là, a vedere il nipote che sfonda il culo a Morena, si decide ad eccitarsi e sborrare anche lui. O gli viene un infarto e, invece di venire, se ne va... L’importante è smetterla di succhiare questo pezzo di cuoio.
«Aspetta,» la voce della mia collega sembra allarmata, «non è meglio se ti faccio un pompino e—»
«Adesso il culo, il pompino me lo fai dopo per pulirmi la cappella!»
Il vecchio scoppia in una risata. «Il mio Simone sa come mettere al suo posto le troie come voi.»
Lancio un’occhiata al bastardo. Lo sai che hai il cazzo tra i miei denti?
Il cigolio ricomincia, accompagnato da grida smozzate di Morena. Non so se è peggio farsi sfondare da un diciottenne super-mega-dotato o fare cilecca con un ultrasessantenne convinto di avere la resistenza di un maratoneta.
Il cazzo cresce un altro po’ e la punta della lingua si infila tra le pieghe che coprono la cappella. L’accarezzo.
Il vecchio ansima, la mano sulla mia testa si scuote, lancia un gemito.
Sollevo lo sguardo per controllare che non sia stato un infarto. No… e non so se sia un bene o un male…
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