Il secondo lavoro di Vincenza

Capitolo 1 - Mari e monti

Tredici anni prima, sulla spiaggia di Sorrento…

«…e ora passiamo alla musica e lanciamo una delle hit di questa estate!»

Sollevai lo sguardo dal telefonino verso l’iPhone di zio Nino appoggiato al cestino di vimini. Le prime note della canzone erano ormai riconoscibili a chiunque: quella lagna di “Tutto l’amore che ho” iniziò a risuonare sotto l’ombrellone.

Sbuffai: avevo sperato in Shakira, magari con “She wolf”, o Katy Perry, e invece ancora Jovanotti. La quinta volta solo questa mattina.

Mia mamma, zia Nanda e la signora Russo erano sdraiate su teli pochi metri più in là. Sussurravano qualcosa tenendosi una mano davanti alla bocca e sogghignando. Lanciavano occhiate allo zio Nino, quello sfaticato, in pantaloncini, che stava parlando con nonna. Doveva aver fatto qualche altro casino, come diceva il papà, quando pensava che non lo sentissi.

Mi alzai in piedi e mi spazzai via i granelli di sabbia sul sedere con la mano sinistra; nella destra stringevo il Nokia N97. Mi avviai un po’ in là, lungo la spiaggia.

«Vincenza, non allontanarti con il mio telefono!»

Quanto rompeva mamma… non andiamo persi, io o il cellulare. Sollevai una mano senza distogliere lo sguardo dallo schermo. «Vado solo un po’ in là, non preoccuparti.»

La voce di nonna arrivò dalle mie spalle. «Tra poco mangiamo, ho preparato le crocchè.»

La bocca mi si riempì di acquolina al solo pensiero di mangiare la specialità di nonna. Mi girai. «Non mancherò, puoi scommetterci!» Nulla al mondo poteva tenermi lontana da quella prelibatezza.

Ma, adesso, voglio battere il mio record a “Micromaze”: non avrei permesso a quello stupido di Nicola di dire che lui era più bravo di me ai videogiochi, stracciandolo al suo titolo preferito.

Camminai per qualche centinaio di metri. La sabbia era calda ma non bollente, era piacevole sentirla che si intrufolava tra le dita dei piedi.

Non c’era in giro quasi nessuno al mare, solo la mia famiglia quasi al completo e qualche bagnante che se sonnecchiava sui teli a prendere il sole. Incrociai le gambe e mi lasciai cadere, seduta come gli indiani. Sollevai un po’ lo schermo, provando a scacciare il riflesso del sole. Feci una smorfia: avrei forse fatto meglio a restarmene sotto l’ombrellone, ma Jovanotti… mi fa venire il latte alle ginocchia. Quella lagna di canzone, poi…

Sospirai… vabbè, fa niente. Accesi lo schermo del telefonino e feci uscire la tastiera sotto. Lo… come aveva detto che si chiamava… lo smartphone! Lo smartphone di zio era davvero più bello, e un giorno ne avrei avuto uno anch’io della Apple. Non costava poi neanche tanto, se poteva permetterselo lo zio, che secondo papà era sempre al verde: mi sarebbe bastato comprare qualche vestito di meno e avrei potuto andare in giro anch’io con un gioiello della tecnologia simile… chissà che grafica avranno i videogiochi, quando sarò abbastanza grande per comprarmene uno!

Avviai “Micromaze”. Il gioco non era il massimo, e quelli dei telefonini non erano belli come quelli della Play che avevo a casa, ma mi sarei dovuta accontentare.

Un’ombra si posò sullo schermo, facendo sparire i riflessi.

Porca… mi balzò il cuore in petto. Non sarà qualche pazzo che

Sollevai lo sguardo, le gambe pronte a scattare e correre verso...

La faccia tonda di Gaetano sorrise beffarda. Da mio cugino non posso scappare. Dietro di lui, con il mignolo nel naso, si trovava Santo, il fratello stupido. Lo tirò fuori, guardò senza nemmeno mettere a fuoco il tesoro, e - discostai lo sguardo, bleah - se lo mise in bocca. Uno due anni in più di me, l’altro un paio di meno, ma mi sembravano tutti e due dei bambini stupidi. I bambini sono tutti stupidi, a differenza delle bambine, ma loro due lo son ancora di più.

Mi ritrovai sulle labbra il sorriso meno falso che riescii a fingere. «Ciao, ragazzi…» Mi sentii anch’io una stupida, quasi quanto i due fratelli: avevo passato tutta la mattina ad evitare di ritrovarmi da sola con loro due, e adesso mi rendevo conto che avrei fatto meglio a sentirmi Jovanotti che trovarmi sola con Wario e Waluigi.

Gaetano fissò ancora il mio petto, un sorriso beffardo sulla bocca. Adesso mi prenderà ancora in giro perché non ho… no, guardava il telefonino. Lo sapeva che era di mia mamma, che se lo avesse toccato suo padre lo avrebbe riempito di botte. Loro due non avevano un buon rapporto.

Gaetano non l’ha con nessuno, se non con Santo.

«Smettila di perdere il tuo tempo con i videogiochi: sono stupidi, lo dicono sempre i miei.»

Santo sghignazzò, il dito che andava in esplorazione nell’altra narice.

Il sorriso falso si dileguò dal mio viso. I tuoi lo dicono perché non possono comprarteli. Chiusi il telefono e lo strinsi come se fosse stato il mio tesoro. «Faccio quello che voglio, Gaetano: a me piacciono i videogiochi e ci gioco finché mi va!» Se fossi stata Lara Croft lo avrei pestato.

O, più probabilmente, Gaetano passerebbe il tempo a fissarmi quelle tettone e a insultarmi ancora più ferocemente.

Spero davvero di averle, delle tettone simili, quando sarò grande… Non so perché dovrei volere qualcosa di così fastidioso da tenere sul petto, ma sono certa che sarei felice di averle.

I due cugini sghignazzarono. Questa volta Santo non sembrò gradire il cappero e si pulì la punta del mignolo sul costume sporco. Gaetano si sporse verso di me, allungò una mano e mi assestò un colpo sulla punta del naso con uno scatto dell’indice. «I videogiochi sono da cretini, meglio i film che non fai nemmeno fatica e sono più belli da vedere.»

Gli avrei mollato un ceffone, a quel maleducato! Mi portai una mano alla faccia: non mi aveva fatto quasi nulla, ma volevo farlo sentire in colpa, volevo fargliela pagare, perché una donna andava sempre trattata con il massimo rispetto. “Nessuna parte del corpo di un maschio deve toccare quello di una ragazza”, diceva sempre la mamma. «Che stronzo che sei, Gaetano!»

«”Stronzo” mi ha chiamato, la cuginetta troietta…» Si girò verso il fratello che sghignazzava. Non credetti nemmeno avesse capito cosa gli aveva detto. «Ancora non lo sa a cosa serve la pucchiacca che ha in mez—»

«Non voglio che mi chiami “troietta”!» Non avevo idea di cosa volesse dire, di preciso. Forse non lo sapeva nemmeno lui. È come chiamano le donne che fanno cose schifose con la pipì dei maschi… Lo stomaco mi si strinse solo all’idea confusa di qualcosa del genere. Perché si comportavano in quel modo? Doveva essere vomitevole, anche più di vedere Santo che si mangiava le caccole. «Non lo sarò mai!» Mi sentii esplodere, non mi tratteni più. «Troietta sarai tu.»

Gaetano si mise di nuovo in posa: gonfiò il petto con le tettine, ritirò il pancione e sollevò le braccia come quelli che fanno palestra, ma, invece di gonfiarsi i muscoli sopra, la roba pendette sotto. Era ridicolo. «Io sono Rambo.»

Mi morsi la lingua per non fargli notare che più che Stallone sembrava un muccone. Cercai di restare seria. Quello stronzo mi aveva pure dato della troietta, che dev’essere un’offesa di quelle cattive… Non oso chiedere alla mamma, ma ne sono certa. Mi strinsi il naso, come se mi facesse ancora male. «Finiscila, sei stupido.»

Gaetano abbassò le braccia, il pancione si scosse in una risata. «”Stupido” io? Non sono io quello che tra tre giorni prende il treno e va in Polentonia perché suo papà non sa tenersi un lavoro qui.»

Mi si mozzò il fiato. Adesso gli metto le mani addosso davvero a quello stronzo, anche se non sono Lara. «Il mio papà lavora a Caregan perché lì lo pagano bene!»

«Il mio vecchio dice che bisogna essere cretini per andare in un posto dove non ci sta il mare ma lo smog di Milano e la nebbia tutti i giorni.»

Il tuo, di padre, non ha mai fatto nulla in vita sua e lavora di nascosto, stronzo! «Milano non è in Veneto, e la mamma dice che vivremo meglio lì che—»

Gaetano mosse una mano come a scacciare le mie parole. «Ma falla finita!»

Strinsi il telefono tanto forte che le dita iniziarono a farmi male. «Il vostro papà è un fallito,» sibilai. Il panzone e il rimbambito sussultarono a quelle parole. «Voi due siete degli stupidi, e non farete mai nulla nella vita. Io vado al Nord a studiare, tu resta qui a fare lo stagionale come il tuo papà, che magari ti cala un po’ la pancia a muoverti.»

Gaetano mostro di avere almeno lo sguardo di Stallone quando doveva combattere contro i cattivi nel bosco e sollevò un pugno davanti a me. «Brutta troia, io ti—»

Il vocione tonante di zio attraversò la spiaggia. «Bambini, venite a pranzo!»

Non lasciai il tempo a Wario e Waluigi di reagire, mi girai e corsi verso la sicurezza della famiglia. Quella mattina ero triste al pensiero di lasciare Sorrento, ma in quel momento non vedevo l’ora di andare in Veneto. Lì non erano stupidi come Gaetano e suo fratello.

«Brava, corri, cuginetta troietta!» gridò lo stronzo.

La risata da iena di Santo mi insegui lungo la spiaggia.

Trattenni le lacrime. Non sarò mai una troietta, stronzo! Non ti darò mai questa soddisfazione!

Due anni e mezzo prima, nei boschi attorno a Caregan…

La folla alle mie spalle applaudiva e chiedeva a gran voce che la sfida finale avesse inizio. C’erano quasi tutte le quinte e le quarte superiori di Caregan, più qualcuno con qualche anno in più, venuto anche da Feltre e Fonzaso, e forse anche dal resto della provincia di Belluno.

Lanciai un’occhiata dietro di me. Il cuore mi si aprì. Un centinaio di ragazzi e ragazze sono qui per vedermi trionfare.

Martina mi diede una pacca sulla spalla. «Fagliela vedere, Vincenza!» Era la mia migliore amica, non potevo deluderla: era da quando ero corsa ad iscrivermi alla gara che mi sosteneva e credeva in me. Stentai a trattenere una risata al ricordo di lei che mi proponeva di prestarmi il suo fidanzato per allenarmi.

Dall’altra parte, Chiara mi sorrideva. Era tozza, fuori forma e portava un’acconciatura imbarazzante. Da subito avevo capito che mi seguiva solo per splendere di luce riflessa. Sapeva che ero io la più popolare della scuola, e sperava che i ragazzi avessero iniziato a cagarla mentre mi ronzavano attorno. Fatica sprecata: quando avrò vinto, la mia luce sarà tanto abbagliante che diventerai solo un’ombra vicino a me.

Chiara guardò oltre me, dove si mettevano le ragazze in attesa di essere chiamate a gareggiare. «Meno male che Linda non si è presentata o sar—»

Scattai verso di lei. «Linda non vale un cazzo! Lei…»

Chiara fece un passo indietro, sollevò le mani davanti a sé per proteggersi. Mi fissò pallida come se fossi impazzita.

Alzai le mani a mia volta, ma per mostrarle che non avevo intenzione di farle del male. Il cuore mi batteva a mille. Inspirai. «Linda non avrebbe fatto nulla che io non sono in grado di fare.» Sospirai, la testa mi girava. «E io l’avrei fatto comunque meglio.»

Chiara annuì ma restò un paio di passi più lontana da me con gli occhi spalancati.

Non era vero. L’esibizione di Linda era stata qualcosa che non avrei mai potuto eguagliare, mi veniva il vomito per l’agitazione solo a ricordare cosa avessi visto quando ero tra gli spettatori. Ancora non riuscivo a credere che non si fosse presentata alla finale, e sperai che non si facesse vedere fino a quando la finale non avesse avuto termine.

Martina mi diede un’altra pacca. Lei avrebbe continuato a credere che avrei vinto anche se la troietta bionda avesse rifatto quel… quello che aveva fatto l’altra volta. «Ben detto, Vince! L’avresti stracciata!»

Annuii. Il sorriso tremava appena meno delle gambe all’idea della biondina sfigata che sbucava dagli alberi del bosco attorno alla vecchia segheria, a far svenire un altro giudice con il suo pompino. Aveva dato buca anche l’altra bionda, Marina… o qualcosa del genere. La finale della gara di pompini avrebbe visto due ragazze invece di quattro combattere a colpi di lingua e risucchi per la gloria.

Martina indicò alla nostra sinistra, davanti alla folla di spettatori. La sua voce si fece dura, i suoi occhi si strinsero. «E sono certa che batterai anche lei!»

Odiava quella zoccola di Francesca quanto me.

Tutte odiavano Francesca a scuola, a parte la sua amica con i capelli rossi, e un altro paio, le sue Chiara.

Il pubblico alle mie spalle esplose in un boato di applausi e acclamazioni. Adriano, in mezzo al parcheggio lurido, ci fece segno di avvicinarci.

Lancio un’occhiata alla mia avversaria. Acclamata dalle sue amiche, Francesca si avviò verso i giudici. Mi guardò a sua volta e un ghigno comparve sulla sua faccia. Maledetta troia… erano anni che cercava di superarmi a scuola, sbattendo le tue oscene bocce in faccia a ogni maschio e facendo la cazzona, ma l’aspetta una brutta fine. Aveva alle spalle una famiglia ricca che le comprava qualsiasi cosa volesse, ma ero io la regina della scuola superiore. Tra pochi minuti, la N. Sandrini verrà rinominata V. De Luca in mio onore!

Adriano si mosse davanti a me, Enrico appoggiò un cuscino impolverato ai suoi piedi. Peccato: speravo in Daniele come mio giudice, alla finale, ma mi stava andando meglio della troia, che si era beccata quel mostro di Michele. Non trattenni un sorriso.

È lo stesso che Linda ha mandato a gambe all’aria con il suo pompino nella semifinale: Francesca non potrà mai arrivare al suo livello.

La mia vista illuminò il viso di Adriano. «Ciao, Vincenza.»

Trattenni un sorriso da come mi fissava le tette: un paio di bottoni della camicetta aperti trasformavano qualsiasi uomo in uno schiavo. «Sono felice tu sia il mio giudice, Adriano.» Sfoggiai la mia voce più seducente, ma sapevo che lui era cotto di me. Mi passai una mano su una ciocca di capelli castani che portai dietro all’orecchio con studiata naturalezza: un piccolo aiuto nel sedurlo non guastava comunque. «Ci divertiremo, tu e io…»

Mi inginocchiai davanti al giudice. Lui si sbottonò i pantaloni e tirò fuori il cazzo.

Elargii un sorriso al ragazzo e presi in mano il suo pesce. Ho visto e scopato di meglio, ma servirà benissimo allo scopo di distruggere Francesca davanti a tutti. Aprii le labbra, allungai la lingua e la passai sulla cappella liscia e pulita. Per lo meno, rispetto ad altri, si è lavato il cazzo prima di un pompino.

Lui esalò un respiro vibrato, inspirò con il naso fino a gonfiare il petto.

Lanciai un’occhiata a Francesca, inginocchiata davanti a Michele. Lei gli parlava, cercava di sedurlo mentre stringeva il suo cazzo in mano; lui le fissava le tette, indifferente al chiacchiericcio. Chissà se era vera la voce che la troia se li era fatti tutti, i giudici, qualche giorno prima…

Non aveva importanza. La migliore sono io, e lo dimostrerò, anche in modalità “difficile”. Anzi, questa è letteralmente “Hardcore”.

Aprii le labbra e le chiusi sulla cappella di Adriano. Preparati, che stai per scoprire cos’è un vero pompino.

L’acclamazione del pubblico aumentò, divenne febbrile, sembravano scatenati.

Scivolai lungo l’asta di Adriano e lui mi prese la testa.

Mi fermai. Cosa stava facendo? Non poteva toccarmi con le mani: Era contro lo stesso regolamento che avevano inventato i giudici!

Dalla folla nel piazzale si levò un grido di terrore. «Il preside!»

Mi si bloccò il cuore per un istante. Un senso di gelo corse lungo la schiena, la vescica sembrò prossima a liberarsi.

«Cazzo!» Adriano mi spostò la testa e il suo pesce scivolò fuori dalla bocca. Enrico era sbiancato in volto, sembrava prossimo all’infarto.

Balzai in piedi e mi voltai. I miei compagni, il pubblico venuto in mezzo ai boschi a vedermi dimostrare di essere la migliore pompinara della scuola, stava fuggendo in ogni direzione. No: in ogni, tranne in quella dove si trovava la strada che conduceva alla statale, e sulla quale si sta avvicinando un’auto identica a quella del preside. Da dietro gli alberi ne comparvero un altro paio: una era quella di una delle prof di matematica, l’altra non la conoscevo, ma stava portando anche quella guai.

Guai molto grossi.

Non provai l’istinto di fuggire, a differenza dei miei compagni. Era andato tutto in malora: qualcuno aveva spifferato e ci aveva gettati tutti nella merda… Una morsa di dolore mi strinse il petto, le lacrime mi bruciavano gli occhi.

«Vaffanculo!» ringhiò Francesca alle mie spalle.

Il suo viso era in fiamme, stringeva i denti forte quanto il pugno destro che aveva sollevato all’altezza dei suoi seni. «Era la mia possibilità di diventare famosa, di andarmene da questo buco di culo!»

Mi fissò, i suoi occhi si strinsero nel disgusto. «Una di quelle due cagne bionde ci ha vendute, ne sono certa…» Tornò a guardare le auto: si sono fermate e vomitavano insegnanti e genitori. «Ammazzerò quella che mi ha impedito di diventare una star…»

Scossi la testa. È folle… è impazzita… Pensa che avremo un futuro, ora che saremo lo zimbello di tutta Caregan?

Il preside e il vice si avvicinarono al trotto, il resto degli adulti li seguiva: mancano solo forconi e torce perché fosse una perfetta rappresentazione della folla arrivata a prendere le streghe e condurle al rogo.


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