Costretto a distribuire pompini
Nei giorni successivi al mio primo incontro con Mauro, che ho narrato nel racconto «Il mio vicino mi ... », passai lunghe sere a infilarmi il dildo su e giù per il culo pensando al suo cazzo. Un giorno, lo incontrai nell’androne del palazzo, in compagnia della moglie e della figlia, e provai una forte gelosia. Per lui ero solo una puttanella, un buco dentro cui svuotarsi le palle, ma non riuscivo a non essere geloso della sua mogliettina. Ricordo che mi salutò con indifferenza, per poi salire in ascensore con la famiglia.
Un pomeriggio, mentre studiavo per un esame, qualcuno suonò il campanello. Andai ad aprire di corsa, speravo si trattasse di Mauro e non rimasi deluso. Col suo solito modo di fare autoritario entrò in casa mia e afferrandomi per le guance, disse:
«Non mi sono dimenticato di te, sei libera domani sera?».«Sì».«Brava! Domani, alle 22, fatti trovare nei garage sotterranei. Ti voglio bella. Ma attenta a non farti vedere».«Cosa hai in mente?», chiesi simulando preoccupazione.«Non sei nella posizione per fare domande», ribattè lui con decisione.
A quel punto, lo stallone, visibilmente eccitato, strinse ancora di più la mano sulle mie guance e, con forza, mi spinse sul divano. Mi ritrovai a gambe all’aria. Indossavo il mio abbigliamento casalingo: leggings neri e delle pantofole rosa col pelo che, a causa della spinta, caddero sul pavimento. Mauro le guardò con spasso e disse:
«Sei proprio una femminuccia. Me lo fai venire duro come il marmo, peccato non abbia tempo per fotterti adesso». Poi, uscì furtivamente dal mio appartamento.
La sera successiva lo aspettavo chiuso nella mia rimessa, al buio, spiando l’esterno dalle fessure del basculante. Volevo fare colpo su di lui, dunque mi abbigliai come una puttana. Indossavo dei tacchi rosa shocking con plateau, autoreggenti nere a rete a maglie strette, minigonna in pelle del colore delle scarpe, una camicetta bianca che mi lasciava scoperto l’ombelico adornato con un piercing e un giubbottino di pelle anch’esso rosa shocking. Anche il trucco era tutto un programma, avevo la pelle del volto liscia e lucida come quella di una bambola; rossetto rosa e volumizzante alle labbra.
Quando lo vidi arrivare uscii dal mio nascondiglio. Gli andai incontro come un cagnolino, ma sculettando come una cubista. Con un bacio e una pacca sul culo mi ordinò di salire in macchina. Il mio cazzetto, duro come non mai, premeva contro la gonna. In auto parlò poco, ma era visibilmente eccitato dalla mia trasformazione. Mi accarezzò ripetutamente le gambe velate.
Arrestò il veicolo nella piazzola della stazione ferroviaria meno frequentata della città. Scendemmo e con fare circospetto mi condusse al gabinetto della stazione e chiuse la porta alle sue spalle. Cominciai ad avere un po’ di paura. Il cesso era piuttosto pulito. Vi aleggiava un odore di disinfettante mescolato a quello acre del piscio. Il gabinetto, senza tavoletta, era affiancato da un corrimano, di quelli che servono ai disabili per sostenersi. Lo stallone estrasse dai jeans il cazzo, ritto e duro, e m’ingiunse di succhiarlo.
M’inginocchiai con fatica, complice la gonna troppo stretta, e iniziai a godermi quella deliziosa clava ricoperta di pelle. Mentre lo spompinavo, pensai a quante volte avevo ciucciato cazzi nei bagni delle discoteche. Succhiare mi ha sempre eccitato. Il pompino infatti stabilisce una gerarchia: il macho si colloca a un livello superiore, io a uno inferiore. Accovacciato tra le gambe di un uomo, inginocchiato a bordo strada o nei bagni di una discoteca, svendo la mia residua mascolinità e mi sento femmina.
Fui riportato dai miei pensieri alla realtà dalla copiosa eiaculazione di Mauro. Subito dopo la sborrata, con una rapidità felina, mi mise l’ovoidale di un paio di manette al polso sinistro e l’altro lo agganciò al corrimano.
«Cosa fai?», urlai con voce stridula.«Zitta, puttana, adesso stai qua, in silenzio», mi rispose con voce dispotica.Spense la luce del bagno e ne uscì, lasciando la porta socchiusa.
Il cuore mi batteva all’impazzata, soffi di aria mi penetravano le autoreggenti facendomi venire i brividi, le ginocchia e le caviglie mi dolevano per la posizione in cui ero costretto. Inizia a chiamare sottovoce, comunque obbediente alle direttive del mio fottitore, «Mauro, Mauro». Nessuno rispose. Poi, dopo circa dieci minuti, un uomo entrò nel bagno e chiuse la porta alle sue spalle. Al buio chiese:
«Sei tu la puttana di Mauro?»«La sua puttana», così mi chiama, pensai.«Sì, sono io», risposi sforzandomi di far uscire una vocetta servizievole.
Lo sconosciuto procedette a tentoni. Infine, quando i suoi occhi si abituarono alla penombra del luogo, tirò fuori un cazzo di notevoli dimensioni e, senza troppe cerimonie, me lo schiaffò giù nella gola, premendo con ambedue le mani sulla mia nuca. L’epiglottide si contrasse in uno spasmo. Mi mancava il respiro. Iniziai, con la mano libera, a battere dei colpi sulle gambe dell’uomo, ma quello non estrasse l’asta se non dopo un tempo che mi parve infinitamente lungo.
Diedi dei forti colpi di tosse. Ma dopo qualche secondo, la nerchia della sconosciuto stava, nuovamente, violentandomi la gola. Dopo ancora qualche resistenza, mi rilassai e lo lasciai scoparmi la cavità orale, tenendomi con la mano libera a una sua gamba. Chi, in quel momento, fosse passato davanti alla porta chiusa di quel bagno pubblico, avrebbe udito il gloglottare caratteristico dei «soffocotti». Per il piacere mi venni nelle mutandine e subito provai un certo senso di colpa: mio padre mi pagava gli studi universitari e io passavo le notti vestito da baldracca con il cazzo di qualcuno in bocca.
Proprio mentre la nerchia era saldamente conficcata nella mia gola, al punto tale che le mie labbra sfioravano i peli pubici dell’uomo, egli mi sparò in gola tutto il suo liquido seminale. Il mio corpo fu attraversato da una scossa, ebbi numerosi singulti, dello sperma viscido mi uscì da una narice. Sentivo la bava colarmi dalla bocca fino in terra. Lo sconosciuto trasse via il membro e si mise a pisciare nel WC. Schizzi di urina mi centrarono in volto. Poi, mi diede una carezza sulla testa e se ne andò.
Dopo qualche minuto rientrò Mauro e accese la luce e si mise a ridere. Mi liberò dalle manette e, vedendomi vagamente perplesso, mi chiese:
«Cos’è quella faccia? Era un mio amico».«Potevi avvisarmi», risposi.«Non fare l’offesa, sto solo esaudendo il tuo desiderio di essere sfruttata. Torniamo alla macchina».Aveva ragione, amo sentirmi un contenitore per la sborra degli uomini veri.
Quando uscii, vedendomi nello specchio del bagno, capii perché Mauro rise: l’ombretto era colato in due lunghe righe fino alle guance, il rossetto era sparso su tutto il volto, mescolandosi malamente al fard. Avevo l’aspetto di una battona sfatta. Soddisfatta, raggiunsi Mauro sculettando sugli alti tacchi rosa.
Generi
Argomenti