Baccalà (libera traduzione da Eduardo De Filippo)
Questa poesia significativa e appassionante l'ho amata come amo tutte le opere del grande maestro Eduardo. Ho pensato di tradurla per divulgare in lingua italiana il messaggio profondo di vita che essa contiene.
Baccalà
Poemetto di Eduardo De Filippo
Traduzione dal vernacolo di G. Esse
<Baccalà! Baccalà! Correte tutti qua!>
Fischi e pernacchie, e pure qualche ortaggio;
e se per terra ci stava un pomodoro,
lo lanciavano appresso… a Baccalà!
<Fetenti!> strillava Baccalà contro la ressa
e poi sveniva in piazza: scena madre!
E tutta quella gente, allora era contenta,
quando vedeva a terra disteso Baccalà.
<Ha perso i sensi!>; <Ha fatto gli occhi storti!>,
<Quant’è brutto!>; <Chiamate la questura!>,
<E’ una vergogna, chiudetegli la toppa!>,
<Un secchio d’acqua in faccia… e torna in sé!>
E lui si riprendeva, in quel bailamme
fatto di risa e grida esagerate.
Se sono cento, contano per mille,
chi non conosce “Napoli” che strilla?
Tutto bagnato, in mezzo a quella gente,
che ride, e sfotte qual gigante buono,
il mentecatto si rimette in piedi:
piangendo, recitava… “pe’campà”.
Era alto due metri e venticinque:
le mani grosse appese a braccia fini,
come testa un melone e i piedi storti,
fu soprannominato Baccalà!
E non era esclusiva del quartiere
la sceneggiata che lui recitava,
per tutta la città lo si sapeva:
lo spasso generale? Baccalà!
Era per Napoli e trentasei casali
e chi non lo sapeva? Era uno spasso:
Baccalà non poteva fare un passo
senza far folla e senza fare il pazzo.
Napoli è una città particolare,
sembra come un teatro sempre aperto.
Ci nasce gente che, senza un accordo,
scende per strada e recita una parte.
Non c’è malizia a fare gli istrioni…
e la città si presta come scena,
la compagnia è quel popolo arguto,
l’elettricista è Dio, che tutto fa.
Ognuno fa una parte, una comparsa,
si sceglie un personaggio da indossare
poi mima un gesto, un intercalare,
per far successo e per farsi notare.
Che vende: pesce fritto e panzarotti?
Si piazza un bel pennacchio sul capello
improvvisato col foglio d’un giornale,
una camicia stinta e un vetusto gilé…
Chi vende fichi d’india, sa strillare?
E canta da tenore per la via.
E chi vende i melloni pur romanza
con voce tenorile, dal cantone.
E chi vende una busta con la sorte,
si veste da don Picchio;
e chi taralli,
si porta una scimmietta sulla spalla,
oppure un serpentello impressionante.
L’incensaio si veste tutto nero
per scacciare il malocchio dalle case.
Questo curioso tipo, brutto e secco,
terrorizza gli spettri e dice: “Sciò!”
Per avere successo e per far folla.
Perché al napoletano piace assai
esser guardato e poi riconosciuto
da chi sussurra all’altro: “Guarda la!”
Ora, direte, ma che centra la gente?
Tu stavi raccontando un’altra cosa!
E’ giusto ma non è che son distratto,
parlando della gente disegno “un Baccalà”.
Ce ne sono milioni d’istrioni,
ognuno fare sa la parte sua…
A chi non ci conosce sembra strano
e non si spiega tanti “Baccalà”.
Baccalà s’era fatto il suo tipetto
e viveva pacifico la sua felicità.
Quando una vera famiglia non ce l’hai
quel poco che raccatti può bastar.
E poi, perché non recitava tutti i giorni,
s’accontentava senza assai pretese,
Solo s’era di vena recitava…
e allora si vedeva… se no, no!
Infine, pure, una donna la teneva,
era una rossa sempre un po’ malata,
magra magra e non bella
ma coll’uomo suo ci sapeva fare.
Lo curava, gli faceva i biscotti,
una buona “parmigiana”, un po’ di vino.
Era innamorata di Gennarino…
sì, così si chiamava Baccalà.
Vivevano sereni tutti e due.
Bastava un grido, un fischio, a Gennarino,
e gli scugnizzi di tutti i quartieri
spuntavano dai vicoli e dai bassi,
arrivavano a “carrette”, a centinaia,
per far lazzi e pernacchie in quantità.
Non era un uomo, era un Cristo in croce
ma si sentiva il re della città.
Si sentiva sicuro.
Da giù alla Villa fino all’Ascensione
proprio come un artista in cartellone,
strillava forte: “Arriva baccalà!”
La gente si affacciava dai balconi
vecchie, mamme, figlie: che minestra.
Attorno a Gennarino era una festa:
era una festa tutta per Baccalà!
E poi successe che arrivò la guerra
Non l’ultima, quella del ’18.
La classe di Gennarino ci andò “sotto”,
Persino lui andò e si presentò.
Adesso voi, che siete intelligenti,
quando si presentò presso il distretto
lungo com’era, nudo e senza petto…
la vera guerra si scatenò là.
E fu una brutta botta, che credete?
Lui, che tra la gente che sfotteva
si entusiasmava e sopra ci rideva,
nell’occasione si sentì morir.
E vedette partir tanti soldati
tenendo le bandiere, con la fanfara in testa:
lacrime, fiori, strilli… tutt’altra festa
ch’eclissò quella del vecchio Baccalà.
Si rassegnò, pensò: “La guerra è guerra,
è cosa seria, si capisce. La gente
è preoccupata. Sicuramente dice
Il è più importante il re che Baccalà!
Vuol dire che, a pace sistemata,
ritorneranno allegri come un tempo.
Allora io mi presento… la gente si diverte,
e torna la felicità…
quando comincio a dire: Arriva baccalà!”
Povero Gennarino, certo non lo sapeva
che la guerra è un tempo di follia;
se si scatena, è come una saetta,
cent’anni in tutta fretta fa passar.
Il mondo si trasforma, cambia faccia,
come il mare dopo la tempesta
e del tempo passato nulla resta
neanche il desiderio.
Si gira pagina e non ci pensa più.
La guerra finì a ottobre del ’18,
mi pare ieri, e Gennarino uscì.
E quello che trovò per le sue strade
nemmeno lo poteva immaginare.
La gente entusiasmata che strillava
<La pace è fatta. Viva Trieste e Trento!>
e pure lui si lanciò, tutto contento,
tra quella folla per farsi guardar.
Ma nessuno lo notava. Quella folla,
che pur da vicino lo vedeva,
di lui più non rideva.
E allora li fermava e gli gridava:
<La pace è fatta. Arriva Baccalà!>
E passò l’inverno Gennarino,
s’era ammalato di malinconia.
Piangeva senza lacrime, poiché
nessuno più pensava a Baccalà.
Nemmeno la sua donna,
si sapeva spiegar tanta tristezza.
Diceva: <E pigliala in allegria…
vedrai che a primavera ritorna Baccalà.>
E venne la stagione, tornò il sole,
quel sole che riscalda e dà speranza.
A Napoli, quando arriva Maggio,
la gente si vuol bene e il bene fa.
Gennarino pensò “Ecco il momento”
E si lanciò per vico Ventaglieri gridando:
<Sono tornato come ieri,
il servo vostro, arriva Baccalà!
Guagliù, gente, correte! Io sono vivo!>
… ma come non si fosse presentato,
la gente se n’era scordata,
e lo scugnizzo andava a lavorar.
E ancora un fallimento il giorno dopo,
quando discese in piazza, a san Gaetano;
la gente lo guardava da lontano,
e si chiedeva: <Che grida? Ma chi è?>
E dissero lo stesso una mattina
tutta la folla del vico Lammatare
davanti a un “basso”, casa popolare,
umida e sporca:
<E’ morto. Ma chi è?>
<La corda l’ha attaccata sotto i travi,
e per morire ha sofferto veramente>
disse qualcuno, <E certamente,
lungo com’è, come poteva far?
S’è tirato le gambe e le ha tenute
strette al suo corpo, fino all’agonia…
Se stanotte lo sogno, uh mamma mia.
E’ brutto, poveretto… ma chi è?>
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