Leccata da Fior di loto

estasi io
a month ago
Leccata da Fior di loto

Quella mattina mi ero svegliata all’alba. Non avevo più voglia di restare a letto, come sempre mi sembrava di perdere tempo. Iniziai a correre per casa, preparare la pappa del cane, inserire una lavatrice, far partire la lavastoviglie e dare una rassettata veloce. Fortunatamente trovai anche il tempo di fare la mia pratica di yoga del mattino, i miei venti minuti di bagno di vita, quel momento che ti fa riattivare ogni piccolo canale energetico a partire dalla consapevolezza del respiro. In un attimo ritornai padrona del mio corpo. Il mio primo pensiero appena finito il momento di rilassamento fu estremamente razionale, troppo distante da quel benessere appena conquistato. 

L’abito da indossare per una importante riunione di lavoro che avrebbe comportato anche un noiosissimo pranzo, la cascata di impegni del pomeriggio e poi di nuovo il rientro a casa con la solita routine. Il telefono iniziò a squillare, non avevo tanta voglia di rispondere piuttosto avrei voluto lasciarmi cullare ancora qualche minuto dal silenzio del mattino. Era il mio capo che mi ricordava gli impegni della mattina, magari avessi potuto dimenticarli, ma c’era una novità. Non il nostro solito cliente ma un nuovo giovanissimo product manager. Questa era la notizia peggiore che potessi ricevere. Erano mesi che preparavo questo incontro, avevo studiato ogni minimo dettaglio, ogni parola ed ora mi ritrovavo davanti un pivello sconosciuto. Avrei potuto divorarlo con la mia esperienza ma, essendo dotata di una certa etica professionale, avevo deciso che lo avrei accolto senza pregiudizi. 

Vivevo sola da qualche anno dopo la fine di una pessima relazione sentimentale che aveva lasciato in me solo brutti ricordi, sofferenza e incertezze. Io che pensavo di essere la donna perfetta che poteva aspirare al meglio mi ero lasciata travolgere da una relazione insignificante fatta di sesso vorace nemmeno poi così soddisfacente, e poco altro. Era scesa davvero in basso rispetto ai miei standard e questa cosa mi infastidiva non poco. Ero riuscita sì a troncare senza grandi difficoltà, men che meno rimorsi, ma allo stesso tempo non riuscivo a vivere la solitudine con serenità e piacere. Avevo poco più di quarant’anni, un ottimo lavoro, una casa e un cane meraviglioso ma sentivo di aver ancora tanto da vivere, avventure o grandi amori era da vedersi. Ma poi l’amore, che cos’è? “Chiedilo al vento” mi rispondeva Vinicio Capossela che volteggiava sul mio giradischi nel suo album Camera a Sud. L’amore non è poi un’avventura dei sentimenti, un gioco, un abbandonarsi irrazionale ai sensi. Uno stravolgimento emotivo, un tuffo tra le lenzuola di seta, una torta al cioccolato dove affondare le dita per poi leccarle con sensualità mentre il tuo amante ti osserva?

Sì era tutto questo e molto altro ma ahimè non era il momento di crogiolarsi in congetture sentimentali. Smisi di puntare sognante la torta al cioccolato davanti a me e mi infilai in doccia, trucco, abito, scarpa con tacco in borsa e ai piedi le mie sneakers per non capitombolare in bicicletta nel traffico mattutino. Ero già a rischio con il mio tubino nero talmente stretto da farmi perdere il fiato e altrettanto pericoloso per i guidatori grazie al suo nutrito spacco posteriore che ad ogni pedalata lasciava intravedere sempre di più, una copia sofisticata della “monella” di Tinto Brass. 

Arrivai come sempre mezz’ora in anticipo, mi piaceva bere un caffè prima che l’ufficio si animasse. Due parole con il portiere napoletano che adoravo perché era uno dei pochi che conosceva le mie origini campane e non dimenticava mai un giorno di pronunciare il suo buongiorno in dialetto che sembrava appena uscito da una commedia di De Filippo, “Signuri’tutt’a post?”. Con ansia aspettava la mia solita risposta: “Tutt’a post don Peppe” e sogghignando compiaciuto tornava al suo lavoro. 

Salii a piedi le tre rampe di scale con un sorriso adolescenziale appena visibile sul volto. Comodamente sbracata sulla mia poltrona ergonomica sorseggiavo un caffè bollente e cercavo di liberare la testa da qualsiasi pensiero per cercare di accumulare più energie possibile da spendere durante la giornata. Un bel respiro e scattavo in piedi sui tacchi appena indossati e porgevo il buongiorno ai miei colleghi appena arrivati quasi facendo lo slalom tra una scrivania e l’altra per non perdere troppo tempo. Alle 9.30 era fissato il nostro incontro con il nostro cliente asiatico della priority list. Ah già questa volta aveva inviato un suo collaboratore di cui conoscevo soltanto il nome un certo Niky Yamuro. Aprii la porta sventolando in aria il mio laptop e cercai di accomodarmi alla mia postazione senza troppi indugi. Alzando gli occhi mi accorsi che era occupata da una raggiante e ai miei occhi poco più che adolescente Lolita che indossava in bella vista un paio di auto reggenti nere con rigo posteriore, le mie preferite, quelle che indossavo solo per le grandi occasioni. Sgranai gli occhi come se dinanzi a me si fosse palesata una mitologica Medusa e in effetti rimasi pietrificata incrociando il suo sguardo. Non so se ero più sorpresa dal fatto che fosse una donna o da quel suo sguardo sfidante e a tratti ammaliante che provocò in me una scarica elettrica dall’epica intensità. Cosa mi stava succedendo? Non avevo mai perso il controllo e questa non era affatto l’occasione di vivere la mia prima volta. Mi sistemai con eleganza l’abito, schiarii la voce anche se l’unica cosa che avrei voluto fare in quel momento era tirare giù quelle calze con i denti ma mi diedi del contegno.

Con il mio impeccabile inglese frutto di anni di studio negli istituti internazionali più accreditati diedi il benvenuto alla mia ospite con un sorriso evidentemente strozzato come la mia voce che appariva fioca e insicura. Il capo mi trafisse con uno sguardo e io scrollai la testa sventolando la mia chioma leonina quasi per emettere un vero e proprio ruggito. Cazzo dovevo riprendermi immediatamente da questo torpore dei sensi e così feci. 

Il mio capo tirò un sospiro di sollievo e io iniziai con la mia presentazione che scorreva come un fiume in piena, lo stesso fiume che scorreva tra le mie gambe ogni volta che incrociavo lo sguardo di Niky. Tutto stava andando come mi aspettavo, le mie tesi erano ineccepibili, le mie idee creative stavano conquistando la platea, eccetto lei che continuava a guardarmi insistentemente le labbra che si muovevano vorticosamente come le mie mani e i miei fianchi che ondeggiavano al ritmo delle mie parole. Sembrava non ascoltare nulla di quello che stavo dicendo, eppure ogni tanto distoglieva lo sguardo guardando fuori dalla immensa vetrata che si affacciava su un meraviglioso giardino verticale, e mi poneva qualche domanda con un filo di voce suadente. Io rispondevo quasi infastidita e poi riprendevo con la mia presentazione, a ritmo serrato. Finalmente arrivò l’ora del pranzo, i lavori sarebbero ripresi nel pomeriggio. Il ristorante che ci ospitava era arredato in stile vintage, vinili accuratamente selezionati riempivano le librerie appoggiate su pareti ricoperte di una strepitosa carta da parati in stile optical, un radiocronografo Brionvega riproduceva le note di “Kind of Blue” uno dei miei album preferiti di Miles Davis. Subito all’ingresso la poltrona nastro di Leonardi, un tuffo nel passato, mio padre ne aveva una nel suo studio di design e io immediatamente la riconobbi e soprattutto ricordai tutte le volte che da bambina provavo a sedermi e puntualmente scivolavo giù, un sorriso attraversò il mio viso ancora turbato dall’incontro della mattina. Niky intanto appoggiata di spalle alla parete multicolor mi guardava compiaciuta come se stesse leggendo i miei pensieri ed io ancora una volta fui colpita dai suoi occhi di mandorla esotica e dal suo profumo di loto bianco che si insinuava nelle mie narici con un effetto popper ferormonico. Consegnai il mio coprispalle all’attento cameriere e mi diressi verso la toilette per darmi una sistemata ma soprattutto respirare come una donna incinta tra una contrazione e l’altra. Ero ridicola, le mani appoggiate sul lavandino, un respiro, un altro e così per almeno venti volte. Avevo sentito una chiave girarsi nella porta ma ero talmente concentrata sul respiro che non mi soffermai più di tanto nel capire cosa stesse accadendo.

Con la testa ancora chinata davanti allo specchio, sentii il mio abito nero salirmi piano piano dalle ginocchia fino in vita, e vidi scivolare giù la mia brasiliana di pizzo nero lucente. La zip dell’abito si stava rassegnando alle mani abili che iniziavano a percorrere la mia schiena come la tastiera di un pianoforte a coda, mentre una lingua calda e umida segnava il territorio, vertebra per vertebra. Non ero mai stata con una donna e sentire quelle mani delicate esplorarmi con una così profonda consapevolezza mi eccitava all’inverosimile. Le dita sui miei capezzoli turgidi, la lingua che dall’interno coscia risaliva da dietro sul mio culo e sulla mia figa depilata mi conduceva in una sorta di delirio emozionale. 

Sentii la sua mano entrarmi dentro e il suo corpo nudo attaccato al mio. Mi girai perché volevo essere sì preda ma desideravo poterla guardare negli occhi. Niky era nuda davanti a me in tutta la sua freschezza e sensualità. Mi prese il viso, mi infilò la lingua in bocca quasi per volermi finalmente zittire, le sue mani continuavano a percorrermi dentro e fuori. La sua testa tra le mie gambe, la lingua che roteava sul mio clitoride gonfio e pulsante. Lo prese tra le labbra e iniziò a succhiarlo con prepotenza e io cercavo di non urlare ma ero inevitabilmente posseduta da quell’astuzia. Nessun uomo me la aveva mai succhiata così, rischiavo di venirle in bocca in pochi secondi, ma volevo assolutamente continuare a godere ancora un po’. Dalla sua borsa tirò fuori uno strap-on dildo immagino, lo avevo visto solo in foto. Lo indossò in pochi secondi, con una mano spruzzava del lubrificante sulla punta di questo pene enorme mi girò di schiena spingendomi con una forza sproporzionata rispetto alla sua esile figura e iniziò a penetrarmi con lentezza e profondità. Con le dita affusolate mi faceva esplorare le gioie della doppia penetrazione. Non riuscivo a resistere, le dissi che stavo per venire, lei si chinò sotto di me continuando con le mani. Io esplosi in una cascata nella sua bocca scivolando piano pano su di lei fino a mettere completamente la mia figa sulle sue labbra e lei instancabile continuava a succhiare e godere di tutto il mio piacere. 

Mi alzai di corsa riagganciandomi l’abito, misi lo slip in borsa, mi guardai allo specchio, ero stravolta. Aprii la porta, con un gesto galante la feci uscire per prima, come un cavaliere con la sua signora. Ci accomodammo al tavolo, noncuranti dell’attesa dei presenti, l’una accanto all’altra. Ordinammo in maniera disordinata, il mio unico pensiero in quel momento era infilare una mano nella sua fighetta orientale bagnata. La lunga tovaglia bianca copriva completamente il mio braccio che iniziava ad esplorare questo mondo sconosciuto. Il mio capo intratteneva gli altri ospiti con un tale impegno da non accorgersi assolutamente di quello che stava accadendo così come gli altri presenti. Niky era imperturbabile come se fosse avvezza a questo genere di avventura. Io le strizzavo il clitoride, lo massaggiavo e poi di nuovo dentro di lei. Ogni tanto mi fermavo per accarezzare la sua pelle setosa, scostavo nuovamente il perizoma e riprendevo con una masturbazione delicata e soffusa come la luce di una candela. Nonostante ciò, vedevo che il suo sguardo stava cambiando come la sua voce. Dopo qualche secondo le vidi fare un sussulto e sentii la mia mano bagnata del suo godimento. 

Non credevo a me stessa, a quello che stavo facendo così sotto gli occhi di tutti. Ero eccitata ma anche spaventata, stavo mettendo in pericolo la mia vita e la mia carriera, ma nessuno si era accorto di nulla eccetto il cameriere alle nostre spalle che con una voce teatrale fuori campo ci disse: “Le signore gradiscono un caffè?”.

Racconto selezionato dalla redazione, scritto originariamente da: evorhivre

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