Il Sapore della Sottomissione - Capitolo 3 – Decodificata

“Come stai?” Giulia fluttuava in un limbo sconosciuto, quel territorio che solo certe pratiche sono in grado di farti esplorare, dove il tempo perde significato e la realtà ordinaria sembra un ricordo sbiadito. “Come ti senti?” le chiese facendole girare il viso in modo che potesse guardarla negli occhi.
La pupilla dilatata di Giulia rifletteva la luce tremolante delle candele mentre cercava di riemergere dall’abisso del piacere negato in cui lui l’aveva immersa. Le sue labbra, secche dalla respirazione affannosa, si schiusero per cercare parole adeguate che non esistevano nel vocabolario di donna che era stata fino a poco prima.
Una goccia di sudore le scivolò lungo la tempia mentre i suoi occhi trovavano quelli di lui. “Tre volte, tre volte mi hai portata sull’orlo e tre volte mi hai strappata via. È una tortura che non sapevo di desiderare.”
Il corpo di Giulia vibrava ancora, ogni terminazione nervosa accesa come un circuito elettrico sovraccaricato. La sensazione delle sue dita era dappertutto, dentro e fuori di lei, facendole conoscere punti e sensazioni del proprio corpo che Marco, in vent’anni, non aveva mai trovato luoghi e quest’uomo aveva scoperto in venti minuti.
“È come se le tue mani mi avessero sbucciata,” disse, stupita dalla propria audacia. “Come se sotto la donna che credevo di essere ce ne fosse un’altra, bagnata, affamata, che non ha paura di essere vista.”
Non voleva uscire da quello stato di grazia, da quel vortice di sensazioni che la facevano sentire più viva che mai.
“Allora, andiamo al tavolo,” disse lui, soddisfatto dalla confessione appena ricevuta.
Dago la aiutò a rimettersi in piedi, le gambe di Giulia tremavano come foglie in una tempesta d’autunno. Il suo corpo, ancora vibrante per le sensazioni appena vissute, si abbandonò contro il suo petto. L’odore di lui, cuoio, legno e qualcosa di primitivamente maschile, le invase le narici, facendola rabbrividire. Avvertiva di essere come una corda di violino appena accordata, pronta a vibrare al minimo tocco.
Le sue mani, forti e sicure, la guidarono attraverso la stanza. Ogni passo era una piccola tortura. Le natiche arrossate che pulsavano, la figa che gocciolava umori, l’ano che pulsava ancora al ricordo delle sue dita invasive.
Il tavolo. Quello che nelle sue fantasie era stato solo un mobile ora si ergeva davanti a lei come un altare pagano. Il legno massiccio sembrava respirare nella penombra, le venature che catturavano la luce delle candele come vene pulsanti. Si chinò su di esso come in preghiera, il seno che sfiorava la superficie strappandole un gemito sorpreso.
Dago si mosse dietro di lei con la grazia di un felino. Il fruscio delle corde di juta era come un serpente che si snodava nell’aria carica di incenso. “Allarga le gambe,” ordinò, un comando che non ammetteva esitazioni. Il suo corpo obbedì prima che la mente potesse processare l’ordine, esponendola completamente al suo sguardo attento.
La prima legatura fu come una carezza brutale. La corda morse la sua caviglia destra, la juta che graffiava deliziosamente la pelle sensibile mentre lui eseguiva un perfetto double column tie. Ogni giro della corda era come un anello di una catena invisibile che la legava non solo fisicamente, ma anche emotivamente, grazie a quest’uomo che stava ridefinendo i confini del suo piacere.
La seconda caviglia venne assicurata con la stessa meticolosa attenzione. Ora era davvero immobilizzata, le gambe divaricate in una posizione che non lasciava nulla all’immaginazione. Il suo sesso pulsava, offrendo la sua eccitazione senza pudore, mentre il suo culo si contraeva involontariamente sotto lo sguardo penetrante di lui.
“Stendi le braccia davanti a te,” la sua voce era miele bollente versato su ghiaccio. Giulia obbedì, allungando le braccia sul tavolo. Le corde scivolarono lungo i suoi polsi, intrecciandosi in schemi ipnotici che parlavano di un’arte antica quanto il desiderio stesso.
Dago lavorava con la precisione di un chirurgo e la passione di un artista. Ogni nodo era un punto di ancoraggio non solo per il suo corpo, ma per la sua anima che si liberava attraverso questa dolce prigionia. La corda risaliva lungo i suoi avambracci come una seconda pelle, creando un intreccio che era tanto bello quanto funzionale.
“Respira,” le ricordò lui, notando come il suo corpo tremava sotto le sue attenzioni. Le sue mani esperte continuavano a tessere quella tela di piacere e controllo, ogni passaggio della corda che stringeva un po’ di più il nodo della sua sottomissione. Concluse l’operazione fissando il capo della corda ad un gancio sotto il piano.
Il risultato finale era un’opera d’arte vivente. Le corde di juta la tenevano in una presa che era tanto inesorabile quanto confortante. Era completamente immobilizzata, esposta, vulnerabile, eppure mai si era sentita così libera, così viva.
Dago si allontanò un passo, ammirando la sua opera. “Perfetto,” mormorò, e quel singolo complimento le mandò brividi lungo la schiena. “Ora possiamo iniziare a soddisfare la tua fantasia, la tua richiesta.” Il suono soffocato dei suoi passi sul pavimento era come il ticchettio ovattato di una pendola che scandiva i secondi prima del suo piacere.
Lo sentì muoversi dietro di lei, il rumore degli oggetti sul tavolo che venivano spostati faceva accelerare il suo cuore. Non poteva vedere cosa stesse scegliendo, e quella privazione della vista intensificava ogni altra sensazione. Il suo corpo era un radar ultrasensibile, che registrava ogni minimo suono, ogni variazione nell’aria.
“Ricorda,” la sua voce era ora più vicina, un sussurro caldo contro il suo orecchio, “hai le tue parole di sicurezza. Ma non credo che le userai.” Un dito le tracciò la spina dorsale, dalla nuca fino all’osso sacro, facendola inarcare come un gatto. “Perché questo è esattamente ciò che volevi, vero?”
“Sì…” La sua voce era poco più di un respiro, ma conteneva tutta la verità del suo essere. Sì, questo era ciò che aveva sognato nelle sue notti solitarie. Sì, questo era ciò che aveva immaginato mentre si toccava furtivamente sotto le coperte, con Marco che russava ignaro accanto a lei. Sì, questo era il tipo di abbandono che aveva sempre temuto e desiderato in egual misura.
Giulia percepiva il suo sguardo come un tocco tangibile sulla pelle. Impossibilitata a muoversi, poteva solo seguirlo con gli occhi, la testa che si girava quanto le permetteva la posizione, cercando di anticipare le sue mosse. Il collare di metallo le ricordava ad ogni respiro la sua posizione, il freddo dell’acciaio ormai temperato dal calore del suo corpo.
Dago si fermò dietro di lei, fuori dalla sua visuale. Le sue mani iniziarono una lenta esplorazione della schiena. Non erano carezze, erano valutazioni, come un artista che studia la creta prima di iniziare a modellarla. Le dita calde tracciavano percorsi invisibili sulla sua pelle, cercando i punti dove la giusta pressione avrebbe dato nuova forma ai suoi desideri. Erano anche gesti semplici che permettevano di iniziare una conoscenza più intima.
“Chiudi gli occhi.” la voce di Dago è un vento caldo che le accarezza la pelle. Giulia eseguì l’ordine senza incertezze, senza aggiungere un suono, pronta a diventare creta malleabile sotto le sue mani, a lasciarsi plasmare nella creatura di piacere che lui aveva intravisto dentro di lei.
Poi arrivò la prima goccia, calda. Giulia si contrasse più per la sorpresa che per l’intensità del calore. Poco dopo una seconda. “Il rosso dona sulla tua pelle.” aveva mormorato mentre accendeva una seconda candela “vediamo come si combina con il bianco.” Ora il ritmo delle gocce si era intensificato. Lui giocava facendo variare l’altezza delle mani. Quando la mano avvicinava la candela era più bassa, l’impatto era lieve, ma il calore maggiore. Quando la mano allontanava la candela l’impatto era più secco, ma il calore più delicato.
Concentrato, quasi cercasse di creare un disegno goccia dopo goccia, aveva percorso tutta la schiena, spostandosi da zone ritenute meno sensibili a quelle più sensibili. Un passaggio sulle chiappe, particolarmente sensibili causa il precedente trattamento. Giulia restava con gli occhi chiusi, quasi in silenzio, solo impercettibili variazioni di respiro.
Alle due candele se ne aggiunsero altre due di altri due colori, viola e nero. Muovendo due candele per mano, che colavano in modi e tempi diversi, danzando come un maestro di Tai Chi continuò la sua opera d’arte per qualche altro minuto. Poi, facendo colare della cera sul legno vissuto, fissò le candele attorno alle sue braccia, quasi a volerla illuminare meglio. Poi tornò il tocco delle mani, sicuro, avvolgente. Ogni carezza faceva saltare un po’ di scaglie di cera. Ogni carezza apriva una breccia in nuove sensazioni, emozioni. Era come se stesse usando la pelle di Giulia come fosse un organo sessuale.
Persa in quella sensazione quasi casta, fece appena in tempo a percepire la mano che scivolava tra le sue chiappe, accarezzava l’ano e scendeva giù, decisa, ad impossessarsi del suo sesso. “Senti quanto è bagnata questa santarellina.” fu il commento che, con fetente sottigliezza, aveva provocato eccitante imbarazzo.
Per un istante, un breve istante per lui, un interminabile istante per lei, si era allontanato, aveva perso il contatto con lei, con quel corpo ancorato ad un tavolo in fratino ed uno spirito irrequieto pronto a volare via.
Poi era tornato il contatto, non il contatto delle sue dita, della sua mano ma qualcosa di freddo e pungente: la rotella di Wartenberg.
La musica, se c’era ancora come sottofondo, era lontana, lontanissima. La sua voce invece, era lì, presente, così calda da sembrare solida. “È la rotella che hai scelto,” disse Dago facendola rotolare dal bacino lungo la schiena, “quella piena di punte.” La sua voce aveva quel tono da professore che spiega l’anatomia mentre disseziona un cadavere.
Le punte metalliche tracciavano linee di risveglio sulla sua pelle, contraddicendo ogni logica. Dovevano ferire, quelle piccole lame che roteavano lungo la sua spina dorsale, invece la carezza pungente le accendeva circuiti neurali che credeva spenti. Era come se il suo corpo fosse una mappa sepolta sotto strati di conformismo, e quella rotella un metal detector che localizzava tesori nascosti.
Ogni passaggio le rivelava zone dimenticate di se stessa. La curva tra collo e spalla che si contraeva sotto il tocco metallico. La depressione alla base della schiena che si arcuava cercando più pressione. Il solco vertebrale che vibrava come una corda di chitarra pizzicata da dita esperte. Quarant’anni in questo corpo e non aveva mai saputo che potesse cantare così.
La rotella scivolava lateralmente ora, esplorando i fianchi con curiosità chirurgica. Giulia sentiva la pelle raccogliere informazioni che il cervello traduceva in linguaggi sconosciuti. Non era dolore quello che la attraversava – era precisione pura, come se ogni punta fosse un ago di agopuntura che liberava energia bloccata da decenni di repressione.
Cristo, come può una cosa così piccola rivoltarmi come un calzino? Le punte continuavano la loro danza cartografica, mappando territori che Marco aveva attraversato mille volte senza mai esplorare. Ogni centimetro di pelle diventava territorio vergine sotto quella carezza metallica che la costringeva a riconnettersi con un corpo che aveva abitato ma mai davvero conosciuto.
Era questa la vera nudità – non l’assenza di vestiti, ma la scoperta di avere una geografia interiore più complessa di quanto avesse mai immaginato. La rotella le stava insegnando che esisteva in modi che non aveva mai sospettato, che ogni millimetro di carne custodiva segreti che solo il tocco giusto poteva decifrare.
Un minestrone di emozioni la travolsero, come quando un’onda improvvisa ti tira uno schiaffo. Non le aveva infilato uno o due dita come faceva Marco. La sua mano aveva avvolto la sua figa, ricoperta, accarezzata, avvolta con quella mano calda, che irradiava qualcosa difficile da descrivere. Pur restando ferma, la mano sembrava toccarla, accarezzarla. Le faceva venire voglia di strofinarsi contro.
Dall’altra parte, in contrasto, la rotella continuava a correre sulla sua schiena. Per assurdo, ora era lei a desiderare che lui le infilasse due dita tra le grandi labbra, che gliele infilasse prepotentemente, così a fondo da percepirle in gola.
Quando la sua mente decifrò questo pensiero, si sentì arrossire tutta, dalla punta delle dita dei piedi alla punta dei capelli.
La voce di Dago arrivava da lontano, ma colpiva come uno schiaffo sul culo.
“Non ti ho ancora fatto nulla e sei bagnata come una cagna in calore.”
Poi, come probabilmente si era sentita la prima tela di Fontana, le dita la aprirono. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto sfuggire. Ma lei non voleva. Ad occhi chiusi aveva vissuto ogni sensazione fisica e ogni emozione che quel gesto, fatto come lo aveva fatto lui, le stava facendo vivere. Un gemito scivolò fuori dalle sue labbra come una goccia di saliva.
Le dita iniziarono ad esplorare, a muoversi, avanti, indietro, destra, sinistra, su, giù, ruotando, toccando. Ad un certo punto si rese conto che nemmeno lei era mai stata così cosciente del proprio sesso, della sua figa, del suo utero. Come poteva quell’uomo farle vivere questo?
Di nuovo, proprio mentre stava sentendo il piacere crescere, il vuoto.
Le sue dita non erano più dentro. La rotella non le pungeva più la pelle. Quasi con terrore gli occhi si spalancarono, come se tutto quello che era successo fino ad allora fosse stato solo un sogno. “Respira, sono qui, sei al sicuro.” una coperta calda sull’anima la fece respirare. Solo qualche istante. Il tempo di avvertire qualcosa di duro, premere contro le grandi labbra, aprirla, farsi strada, facilmente, tanto era bagnata, eccitata.
Quasi poteva riconoscerlo, era il primo dildo. Le dimensioni gestibili, le ricordava esattamente quello che aveva a casa. Ma la situazione, essere legata a quel tavolo, il fatto che fosse un’altra persona a muoverlo, che fosse lui a muoverlo, a muoverlo in quel modo. Il respiro cambiò repentinamente.
La mano continuava a variare intensità, profondità e frequenza dei movimenti. Mentre si stava perdendo in quelle sensazioni, in quel piacere, che lui le stava facendo vivere la sua voce la fece tornare quasi completamente alla realtà. “Quanto avresti voglia di godere?”
Giulia cercò di dare una voce e un senso alla sua risposta, senza riuscirci.
“Allora facciamo così, voglio che provi a resistere più che puoi – il dildo sembrava avere cambiato forma e dimensione o forse, era la sua vulva ad essersi gonfiata dal desiderio di avere un orgasmo con il risultato che tutte le sensazioni, in quel momento, erano amplificate, decuplicate – e quando non ce la farai più, mi chiederai, mi supplicherai di darti il permesso di godere – il dildo si fermò così a fondo da farle realizzare per la prima volta dimensioni e capacità del suo sesso – poi quando ti concederò di godere, dovrai contare – il tono di voce divenne più rauco mentre il dildo ricominciava a muoversi – dovrai contare tutti gli orgasmi che ti farò avere … a voce alta …”
Come poteva dirgli che lei avrebbe voluto godere, adesso, immensamente, subito e poi ancora, e ancora, e ancora. La sua parte pudica provò a trattenerla.
Si impegnò a resistere, mordendosi le labbra fino a sentire il sapore del sangue in bocca, provando a pensare a quando Marco la toccava, alle bollette da pagare, al mutuo.
Persa in quel tentativo di controllo del proprio corpo non riusciva a rendersi conto di quanto tempo fosse passato dall’inizio di quella piacevole tortura, se pochi secondi o infiniti minuti o altro.
La voce le uscì senza passare per il cervello, per la parte razionale: “Per piacere, Signore” — un lungo silenzio mentre cercava di fermare quell’orgasmo che non vedeva l’ora di esplodere — “posso godere?”
Il dildo le martellava la figa. Il silenzio. Il piacere che cresceva esponenzialmente raggiungendo un livello ingestibile. Lo sforzo di trattenere tutto.
Già arrivare all’orgasmo, per lei, era un’esperienza non proprio comune, quotidiana. Doverlo gestire, fermare, trattenere la stava facendo impazzire. Poi finalmente, una voce quasi irriconoscibile le concesse il piacere di deflagrare.“Ora, dammelo, dammi quell’orgasmo che non riesci a trattenere più!”
L’orgasmo, dopo essere stato trattenuto così a lungo, esplose come una diga che esplode sotto la pressione dell’acqua.I gemiti sfuggirono dalle sue labbra, squillanti. Il corpo, si contorceva tra piacere e corde. “uuuuunoooo ….Grazie signore…” farfugliò soddisfatta, convinta che di lì a poco sarebbe stata liberata.
L’orgasmo, vissuto così raramente, le aveva cancellato la memoria a breve termine. Lui, le concesse quel tempo per godere, capire, assorbire quel piacere che tanto le aveva raccontato le mancasse. Poi, come si fa con una pregiata e costosa bottiglia di vino, lentamente, l’aveva “stappata” liberata di quell’oggetto che la riempiva.
Del freddo metallo comparve tra le sue chiappe, scorreva su e giù, stuzzicando l’ano, poi scendendo accarezzando tra le labbra, raccogliendo i residui del suo orgasmo e portandoli su quel buchino stretto. “E così, questo, non è mai stato… usato.” Nella sua voce si poteva ascoltare il rammarico di non poterla deflorare come avrebbe voluto. Ma aveva promesso.
“Ricordati” — la voce la afferrò da dietro, come se le stesse tirando i capelli — “hai scelto tu quale usare.” Il plug, con la sua fredda, liscia superficie, iniziò a giocare, premere, provare ad allargare. Un’altra volta lei non riusciva a capire quanto lui giocasse o quanto lui fosse premuroso. Ogni volta il plug le allargava di qualche millimetro di più l’ano. Nessuno aveva mai giocato con quella parte di lei. Mentre la sua mente era persa in ragionamenti moralisti e pudici, contro piacere e perversione, con un’ultima decisa spinta, il plug invase il culo di Giulia. Un gemito di dolore e piacere le fece tremare le labbra. I muscoli delle cosce tremavano, vibravano. Mai nessuno prima di allora aveva invaso quella parte del suo corpo. E questa sera era già la seconda volta che succedeva. Era nuova ogni sensazione. Era nuovo tutto. E lei, soprattutto lei, era qualcosa che non aveva ancora un nome.
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