Confessione #4 - noia da sessione

Astronomo
7 days ago

Gennaio 2025 è stato uno dei mesi più assurdi e strani della mia vita. E forse, in fondo, anche uno dei più intensi.

Ero in piena sessione d’esami. Tutti i giorni la stessa identica routine: sveglia, colazione veloce e poi subito in videochiamata con la mia ragazza. Studiavamo insieme, ore e ore davanti allo schermo, libri aperti, dispense ovunque e la tensione che aumentava ogni giorno di più.

Non che fosse una cattiva compagnia, anzi. Però capirai… quando sei costantemente in ansia per gli esami, e la persona con cui stai vive la stessa ansia, il clima non è esattamente quello ideale per tenere vivo il desiderio.

Il sesso in quel periodo praticamente non esisteva. Lei era presa, stanca, sempre con la testa altrove. E io? Io mi stavo lentamente prosciugando.

Non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Frustrato. Irritabile. Avevo bisogno di respirare, di staccare, anche solo un’ora al giorno.

L’unica vera parentesi in cui sentivo un po’ d’aria era la palestra. Ogni mattina, per due ore, mi allenavo. Era il mio piccolo spazio di libertà, di sfogo.

Ma anche lì, mentre spingevo sui pesi o correvo sul tapis roulant, la mente correva altrove. Non solo agli esami. Correva anche a certe fantasie che in videochiamata non potevano nemmeno affacciarsi.

E così… una mattina, per noia o forse per puro istinto, mi ritrovai a riaprire quell’account Instagram che tenevo solo per cazzeggiare. Un profilo secondario, senza nome, senza foto, dove ogni tanto entravo per guardare storie a caso.

Mai avrei pensato che da lì sarebbe partito qualcosa. E invece…

Durante quelle ore libere in palestra, in cui il corpo lavorava ma la testa viaggiava, iniziai a usare sempre più spesso quel profilo Instagram secondario.

All’inizio solo per noia, per distrarmi tra una serie e l’altra di panca, poi col tempo quasi come fosse un vizio. Scrollavo storie, rispondevo a qualche meme, osservavo profili che con quello reale non avrei mai potuto aprire.

Finché un giorno, tra le richieste, spuntò lei.

Viola.

Non so cosa mi colpì subito. Forse il nome. Forse lo sguardo. Forse quel modo così sottile di mettersi in mostra senza sembrare mai volgare.

Appariva piccolina dalle foto, probabilmente anche più giovane di me, ma aveva un modo di scrivere, parlare e persino vestirsi che sembrava molto più maturo. Sicura, ironica, provocante quanto basta.

Ci scrivemmo per ore, giorni interi. La sera, dopo lo studio, prendevo il telefono e andavo a letto con la sua voce negli audio. Ridevamo, ci raccontavamo assurdità, e con il tempo… diventammo più audaci.

I messaggi si fecero bollenti, le allusioni sempre più esplicite, i suoi audio pieni di malizia.

Viola era presa. Molto.

E io, pur sapendo quanto fosse sbagliato, mi ci lasciai trascinare come se fosse tutto inevitabile.

Anche perché… era davvero difficile resisterle.

Nelle sue foto appariva sempre perfetta: bassa, carnagione chiarissima, quella pelle compatta che sembrava di porcellana. I capelli lunghi e neri, sempre lisciati con cura, come seta. Gli occhi castani, enormi, due fanali sempre truccati benissimo. E quelle labbra carnose, perennemente tinte di rosso vivo, che sembravano fatte apposta per farti pensare a tutto fuorché allo studio.

Il naso era piccolino, quasi da bambolina, e sotto il trucco si intravedeva qualche brufoletto timido, niente che rovinasse l’insieme.

Aveva un seno grande, sodo, sempre coperto da top attillati nelle foto, come se sapesse esattamente cosa mostrare e cosa lasciare immaginare.

Il ventre piatto, tonico, sempre esibito con magliette corte, piercing all’ombelico e pose studiate.

E poi quelle cosce piene, rotonde, che incorniciavano un culo importante, alto e invitante, che nei reel sembrava avere vita propria.

Aveva capito subito come provocarmi. E lo faceva bene.

Ogni mattina in palestra diventava una scusa per risponderle.

Ogni silenzio della mia ragazza era un motivo in più per aprire quella chat e vedere se c’era un nuovo audio, un nuovo selfie, una nuova frecciatina da parte sua.

E così, tra un “che fai oggi?” e un “non ci penso neanche a correre, ho già caldo”, le cose presero una piega inevitabile.

Le nostre conversazioni erano… strane.

Un po’ infantili, un po’ maliziose.

Passavamo dal parlare di sogni, serie tv e cazzate, a scivolare con naturalezza in battute sporche, allusioni, provocazioni. E io mi ci perdevo.

Viola era così, un contrasto continuo.

Un momento mi chiedeva il significato di un’espressione un po’ troppo difficile, il minuto dopo mi mandava un audio dicendomi:

“Chissà che voce hai quando godi…”

con quella voce lenta e bassa che ti si piantava in testa come un chiodo.

Non so quando me ne resi conto davvero, ma a un certo punto fu chiaro: era parecchio più piccola di me.

Non lo aveva detto esplicitamente, ma da certi dettagli lo si capiva.

Il modo in cui parlava della scuola, certe insicurezze mascherate da arroganza, quella fretta adolescenziale di voler sembrare più grande.

Eppure, nonostante tutto… non riuscivo a tirarmi indietro.

Anzi, era proprio quella differenza a eccitarmi di più.

Forse perché mi faceva sentire esperto, superiore, dominante.

Forse perché mi ricordava com’ero io, anni prima, quando c’era Stefania dall’altra parte a guidarmi.

Forse perché Viola, pur non sapendo nulla di me, si comportava con me esattamente come io mi comportavo con lei: mi prendeva sul serio, mi guardava come se fossi irresistibile.

E io, che da settimane mi sentivo ignorato dalla mia ragazza, avevo un disperato bisogno di sentirmi desiderato.

Un giorno mi scrisse:

“Lo so che sono più piccola e magari ti sembra strano, ma a me piacciono i più grandi. Mi fanno sentire più sicura. Tu poi… c’hai proprio quell’aria da bravo ragazzo che mi piace molto .”

Le risposi ridendo, ma dentro di me mi stavo già immaginando scene che non potevo permettermi.

Tenevo a bada il tutto solo grazie alla distanza, ma ogni suo messaggio era un colpo secco all’autocontrollo.

Ogni selfie, ogni frase buttata lì con nonchalance, ogni malizia non detta… era un gioco di seduzione continuo.

E io, in silenzio, ci stavo cascando sempre di più.

Il ponte di Carnevale arrivò come una boccata d’aria.

Due giorni liberi tra un esame e l’altro sembravano un sogno.

E senza pensarci troppo, le scrissi.

“Che fai giovedì mattina? Ho mezza giornata libera…”

Lei ci mise un po’ a rispondere. Poi, un vocale.

“Mi mette un po’ in ansia vederti, Ale… voglio, ma non so se è il momento. Non sono pronta.”

Risposi calmo.

“Tranquilla. Nessuna pressione. Solo per vederci, parlare un po’. Se vuoi.”

Alla fine accettò.

Ci vedemmo in un parcheggio un po’ isolato, vicino a un parco, verso le 10:30.

Lei era già lì. Appoggiata alla macchina, con un giubbotto oversize, i capelli sciolti, il trucco curatissimo come sempre.

Un filo di rossetto rosso sulle labbra carnose.

Mi guardava con quegli occhioni scuri e tondi.

C’era un mix strano nei suoi occhi: tensione, curiosità, voglia repressa.

Salii in macchina.

All’inizio fu solo una chiacchiera rilassata, un po’ di imbarazzo.

Poi ci sciogliemmo.

Le battute, i sorrisi, le dita che si sfiorano tra un gesto e l’altro.

“Non sembri così piccola, sai?”, le dissi.

Lei sorrise.

“È il trucco.”

“No. È il modo in cui mi guardi.”

Ci fu un silenzio.

Poi allungai la mano sulla sua gamba.

Lei non disse nulla.

Continuai a parlare, come se niente fosse, ma intanto la accarezzavo piano.

Il jeans sottile lasciava sentire il calore della sua pelle.

“Posso?”, le chiesi sottovoce, avvicinandomi.

Lei fece un mezzo sorriso.

“Non lo so.”

Mi avvicinai ancora.

Le mie dita risalirono appena.

“Se non vuoi… mi fermo.”

“È che… ho paura di rovinare tutto.”

“Non roviniamo niente. Solo seguiamo quello che ci viene.”

Il primo bacio fu leggero.

Poi le presi il mento con due dita e gliene diedi un secondo, più profondo, lento.

La sua mano mi toccò l’avambraccio. Tremava un po’.

Quando le slacciai il giubbotto e passai una mano sotto la felpa, sul suo fianco nudo, non disse nulla.

Respirava solo più forte.

Le sfilai la felpa piano, rimanendo in reggiseno.

Il seno sembrava pieno, duro, incorniciato da un pizzo nero.

Le posai le labbra sul collo, mentre una mano le accarezzava la pancia.

Lei gemette appena.

“Non l’ho mai fatto, Ale.”

“Lo so.”

“Non voglio sembrare una stupida.”

“Non lo sei. E non ti forzo. Ma ti desidero tanto…”

Mi guardò. Silenziosa.

Poi sussurrò:

“Chiudi le portiere.”

Lo feci, in silenzio, cercando di non rompere quel momento così fragile.

L’aria era densa.

Sapevo che non potevo correre, non con lei.

E allora presi tempo.

La baciai piano, sotto l’orecchio.

Una carezza lenta sul fianco nudo, poi la pancia piatta, poi le cosce.

Lei si lasciava fare, rigida ma aperta.

Aveva il cuore che batteva all’impazzata.

Quando allungai la mano tra le sue gambe, sopra le mutandine, lei sobbalzò appena.

“Va bene?”

Annui, mordendosi il labbro.

Le accarezzai piano l’interno coscia, sfiorandola senza premere.

Poi finalmente la toccai lì, con delicatezza.

Era già umida.

Ci guardammo negli occhi, lunghi secondi, mentre le mie dita cominciavano a muoversi più decise, lente ma precise.

Un cerchio morbido, poi due, poi il ritmo leggermente più rapido.

“Oh… Ale…”, sussurrò.

Le sue cosce si strinsero un po’, poi si aprirono di nuovo.

La sua mano cercò la mia.

Le accarezzai il viso con l’altra, poi tornai giù, con pazienza.

Volevo che si sentisse al sicuro, accompagnata.

La guardavo mentre si scioglieva.

Gli occhi chiusi, le labbra socchiuse, un piccolo mugolio.

Le sue mani adesso mi stringevano il polso, non per fermarmi… ma per tenermi.

Poi smisi.

“Ci sei?”

“Sì…”, disse ansimando.

“Vuoi che continuiamo?”

Ci fu una pausa.

Il suo sguardo era rosso, acceso.

Non disse “sì”.

Non servì.

Sfilai le sue mutandine lentamente, mentre lei si stendeva sul sedile.

…Dopo qualche minuto, mentre ancora la stavo toccando, le sussurrai:

“Ti va di spostarci dietro?”

Lei fece un piccolo cenno.

Uscimmo dai sedili anteriori e ci sistemammo dietro, dove c’era più spazio.

Io seduto, lei davanti a me, con le cosce che tremavano ancora un po’.

La presi per i fianchi e lei si mise lentamente a cavalcioni, vestita solo con la maglietta e niente altro sotto.

Mi si aprì davanti.

Le sue cosce piene, il ventre piatto, le mani che si stringevano nervosamente l’una con l’altra.

Le sfilai lentamente la maglietta, rimanendo in silenzio.

I suoi seni grandi mi saltarono davanti, nudi, tesi.

Non resistetti.

Le portai le mani sotto, glieli presi con entrambe le mani, con dolcezza e desiderio insieme.

“Quanto sei bella…”, le sussurrai.

E lei abbassò lo sguardo, rossa, con un mezzo sorriso sulle labbra.

Poi li divorai.

Li baciai, li succhiai piano, con attenzione, mentre lei si aggrappava alle mie spalle, ancora sorpresa da quelle sensazioni nuove.

Ogni volta che sentiva la mia bocca su di sé emetteva un suono strozzato, quasi incredulo.

A un certo punto si fermò e mi guardò.

Seria.

“E tu?”

Capì che voleva vedermi.

Mi spogliai piano, stando attento a non interrompere quella bolla.

Quando fui nudo, lei abbassò gli occhi.

Si morse il labbro, esitò.

Poi allungò la mano, sfiorandomi.

Mi toccò con curiosità e un po’ di paura, come se volesse capire tutto con le dita.

Io le accarezzai il viso.

“Va tutto bene. Sei sicura?”

Annuì, ancora un po’ tremante.

Si rimise lentamente a cavalcioni sopra di me, con il corpo che cercava appoggio, sicurezza.

Io la tenni stretta, le guidai le anche con le mani, mentre lei cercava la posizione.

“Piano…”, sussurrai.

“Ti accompagno io.”

Lei fece un respiro profondo… e avvenne.

La sentii stringermi tutta intorno.

Calda, tesa, stretta.

Fece un piccolo gemito.

Si fermò.

Le accarezzai la schiena, il collo.

“Va tutto bene. Fermati quando vuoi.”

Rimase immobile qualche secondo.

Poi cominciò a muoversi piano, pochissimo.

Un’onda dolce, incerta, ma vera.

Io l’avevo tra le mani.

Era sua la prima volta, ed ero io a viverla con lei.

Come un passaggio di consegna.

Come una strana giustizia del tempo.

…cominciò a muoversi con piccoli colpi lenti, con il respiro sempre più agitato, e le mani sulle mie spalle che cercavano un punto fermo.

La guardavo in viso.

Era bella.

Le guance arrossate, le labbra socchiuse, gli occhi che cercavano i miei per capire se andava tutto bene.

“Va tutto benissimo…” le sussurrai, stringendola piano contro il mio petto.

Lei si affidò.

Piegò la schiena leggermente, e io le afferrai i fianchi, accompagnando i suoi movimenti.

Piano.

Forte.

Ancora piano.

Ogni volta che scendeva sentivo la sua stretta aumentare, e la sua voce che si faceva un po’ più viva.

Gemiti dolci, trattenuti, come se avesse paura a lasciarsi andare davvero.

E io glielo dicevo.

“Fallo. Se ti va, fallo. Nessuno ti sente.”

Mi avvicinavo al suo seno, baciandolo di nuovo, lasciandoci la bocca, i denti, le mani.

E lei si muoveva sempre meglio, un po’ più decisa, con quel mix di paura e voglia che solo una prima volta può regalare.

Poi, a un certo punto, si fermò.

Aveva gli occhi lucidi.

“Fa male?”, le chiesi.

“No… ma è tanto. È strano… bello ma tanto.”

La strinsi, e ci fermammo un attimo così.

Poi, senza dirlo, ricominciò da sola.

Un ritmo più lento, più profondo.

Le mie mani scorrevano su di lei.

Dal fondoschiena morbido e pieno, alla schiena liscia, alla nuca dove infilai le dita per tirarla leggermente a me e baciarla.

Quel bacio fu diverso.

Lento, carico.

Lei ci mise tutta sé stessa.

Quando cominciò a muoversi più forte, capii che ci stava entrando davvero.

Mi guardava in viso, a volte abbassava gli occhi, poi li rialzava.

Io la prendevo sempre più con le mani, guidandola, affondando anche io sotto di lei.

Ci veniva da ridere, da gemere, da stringerci forte.

A un certo punto, con una mossa naturale, la sollevai piano e la girai, adagiarla sotto di me.

“Ora tocca a me…”, le sussurrai con un mezzo sorriso.

Lei spalancò gli occhi.

Mi fissava.

La baciai di nuovo, e ricominciai a muovermi dentro di lei, con dolcezza ma sempre più deciso.

E lì fu tutto diverso.

Le sue mani sul mio petto, la sua bocca socchiusa che si apriva a ogni affondo, e i suoi occhi che sembravano brillare.

La pelle sudata, i corpi incollati.

Un rumore umido e ritmico che si faceva sempre più evidente nella macchina chiusa.

Ogni movimento più profondo la faceva tremare, e io stringevo i denti, cercando di trattenermi.

Poi, mentre le baciavo il collo e le spingevo le gambe un po’ più su, le sussurrai:

“Ci sei?”

Lei annuì, mordendosi il labbro.

E poi la vidi chiudere gli occhi e lasciarsi andare.

Venimmo quasi insieme.

Con un misto di sorpresa, calore e fatica.

I suoi gemiti quasi spezzati contro il mio orecchio, le sue unghie leggere sulla mia schiena.

Fu forte.

Reale.

Indelebile.

Rimanemmo abbracciati lì dentro, ancora nudi, a respirare forte.

Io con la testa sul suo seno, lei con le dita che mi accarezzavano piano i capelli, senza dire nulla.

“È tutto ok?”, le chiesi dopo un po’.

“Sì… grazie.”, mi disse piano.

E mi sorrise.

Con quel sorriso piccolo, ancora impaurito, ma fiero.

Non so se fu il silenzio.

O il modo in cui lei mi accarezzava ancora, con la punta delle dita sulle costole.

O il fatto che i suoi capezzoli, ancora tesi, sfioravano appena il mio petto nudo ogni volta che respirava.

Ma mi bastò un attimo per capire che non era finita.

La guardai, le presi il viso tra le mani, e le diedi un bacio lento.

Non uno di quelli teneri.

Uno più profondo.

Con la lingua, le labbra, il respiro più caldo.

Lei mi guardò stranita, sorpresa, ma non si tirò indietro.

“Hai ancora voglia?”, le sussurrai.

Mi fece un piccolo cenno col capo, timido.

E allora la presi.

Le afferrai il seno con entrambe le mani, stringendolo con più decisione, godendomi il peso pieno e perfetto, i capezzoli duri sotto i pollici.

“Lo sai che potrei stare ore solo così…”, le dissi, “…a stringerti queste tette e a baciartele piano.”

Lei arrossì, si morse il labbro, e fece un mezzo sorriso.

Mi ci buttai sopra.

Le presi un capezzolo tra le labbra, poi l’altro, succhiandolo con più forza.

Le mani che la stringevano da sotto, affondando nei suoi seni morbidi e sodi.

Lei si inarcava piano, stringeva le cosce contro il mio bacino, e gemeva.

Più forte di prima.

Le sussurrai all’orecchio, con voce roca:

“Un giorno… quando sarai pronta…mi devi fare una bella spagnola. Ma fatta bene, come si deve.”

Lei sorrise, quasi vergognandosi.

“Non l’ho mai fatta…”, mormorò.

“Lo so.”, risposi, leccandole un capezzolo con lentezza esasperante, “Ma ti verrà naturale, fidati.”

Avevo preso il controllo.

Ero sopra di lei, le baciavo il collo, la leccavo tra i seni, e intanto le mani le tenevano ferme le braccia sopra la testa.

“Ora lasciati andare…”, le dissi.

“Lascia fare a me.”

Scivolai più in basso, tra le sue cosce.

Era ancora bagnata.

Ma più rilassata.

Più pronta.

Aprii il cassetto, presi un altro preservativo, me lo infilai con calma mentre lei mi guardava con occhi spalancati e pieni di desiderio.

Poi la girai, con una lentezza calcolata.

La misi a quattro zampe sul sedile dietro.

Le accarezzai il fondoschiena pieno, ne presi una chiappa tra le mani e gliela baciai piano.

Lei si voltò, inarcando la schiena.

Le entrai di nuovo.

Un po’ alla volta.

Più deciso.

Lei lanciò un gemito più alto, con le mani aggrappate al sedile, i capelli che le cadevano sul viso.

La tenevo per i fianchi, affondavo con un ritmo lento ma profondo, mentre il rumore dei nostri corpi riempiva lo spazio ristretto.

Ogni tanto, quando rallentavo, le afferravo il seno da sotto, stringendolo forte, affondandoci le dita con un senso di possesso.

“Ce l’hai troppo bello questo seno, Viola… davvero troppo.”

Lei gemeva solo il mio nome.

A un certo punto, si girò appena e mi disse:

“Continua così… non ti fermare.”

E io continuai.

Senza fermarmi, senza distrarmi.

Fino a che i suoi gemiti si fecero più forti, più veloci, quasi scomposti.

E lì le presi i capelli, le sollevai il busto leggermente, la baciai dietro l’orecchio e le dissi:

“Vieni con me. Dai.”

E ci arrivammo insieme.

Ancora.

Ancora più intensamente.

Alla fine ognuno per la sua strada.

Nei giorni seguenti lei mi scriveva spesso.

Messaggi, vocali, domande inutili, frasi dolci.

Era presa.

Ma io avevo la testa altrove.

La sessione mi stava uccidendo e sinceramente… non avevo voglia di complicarmi la vita.

Un giorno, tra un ripasso e l’altro, le scrissi chiaramente che ero fidanzato.

Non so se fosse davvero una sorpresa per lei, suppongo l’avesse già capito.

Aggiunsi anche che era troppo piccola, che non cercavo una relazione con lei.

Ma se voleva…

Beh, se voleva, potevamo continuare a scopare.

Niente più, niente meno.

Ovviamente, dopo quella frase, le cose cambiarono.

Non ci fu un litigio vero, nessuna scenata.

Ma semplicemente… la cosa morì.

Come un po’ mi aspettavo.

E come, sotto sotto, volevo.

Fine.