Sapore della sborra

Quella sera eravamo a cena dai miei genitori.
Una di quelle serate che sembrano immobili: piatti caldi, sorrisi di rito, conversazioni leggere.
Lucrezia, però, aveva quello sguardo.
Quello sguardo da brivido sulla pelle, da fiamma sotto la tavola.
A un certo punto, ricevette un messaggio.
Lo lesse. Poi mi fissò.
Occhi lucidi, profondi, già umidi di voglia.
Si avvicinò all’orecchio.
«È Salvatore. Mi ha scritto. Ha voglia di me.»
Il mio cazzo si mosse subito.
Non era la prima volta che ne parlavamo.
E nemmeno la prima volta che sentivo sulle labbra il sapore di un altro.
Ma ogni volta era come la prima.
Ogni volta più forte. Più perverso. Più nostro.
La guardai senza bisogno di parole.
«Vai», le dissi. «Soddisfalo.»
Lei sorrise. Un sorriso da puttana consenziente, elegante e spietata.
Con una scusa veloce, lasciò la cena e prese le chiavi della mia macchina.
Io rimasi lì, tra un bicchiere di vino e i sorrisi dei miei genitori.
Ma la mia testa era altrove.
Non immaginavo scene precise. Non ancora.
Solo il gusto vago e stuzzicante del proibito che stava per compiersi.
Due ore dopo rientrò. Perfetta. Rilassata.
Il viso acceso, gli occhi brillanti.
Mi baciò.
E lo sentii. Quel sapore.
Non era solo il suo.
C’era qualcosa in più. Qualcosa che conoscevo.
Sborra.
«Wow… ti sei divertita», le dissi a bassa voce.
«Ho una sorpresa per te…», sussurrò.
«Usciamo.»
Salimmo in macchina. Non disse nulla, ma le sue cosce si stringevano.
Guidai pochi minuti. Poi:
«Accosta.»
Lo feci.
Lei reclinò il sedile all’indietro, lenta, precisa.
Si tolse le mutandine e me le porse, umide, calde.
Poi si aprì le gambe.
La sua figa brillava. Gonfia. Colma.
«Amore… l’ho tenuta tutta dentro per te», mi disse.
«Leccami.»
Il mio cuore accelerò.
Ma non per lo shock.
Per l’eccitazione.
Sapevo cosa mi aspettava.
E lo volevo.
Mi spinsi tra le sue cosce.
Affondai la lingua.
La sua figa era calda, bagnata… e piena.
Il sapore della sua sborra mi accolse subito.
La sua. Di Salvatore.
Calda, salata, densa.
Lo sentivo lì, vivo, dentro di lei.
E ora… dentro di me.
Ma io non mi fermavo.
La leccavo più forte. Più profondo.
Volevo prenderla tutta.
Volevo assaggiarlo. Bere lui. Per lei.
Lucrezia si contorceva.
«Così… bravo… mangiamela… fammi godere… sì… sentilo cornuto…»
La sua voce era un sussurro perverso.
La sua figa, un calice sacro da svuotare.
La feci venire più volte. Tremava. Sussultava.
Mi stringeva la testa. Mi scopava la faccia.
Quando si calmò, mi tirò su.
Mi aprì i pantaloni.
Il mio cazzo era una lama pronta a esplodere.
Si sedette sopra.
Si infilò tutto, lentamente.
E iniziò a cavalcarmi.
«Mi ha chiamata il suo sborratoio. Mi ha detto che mi avrebbe riempita.
E io gli ho detto che lo ero. Che può farlo ogni volta. Sempre.»
Ogni colpo era una parola. Ogni parola, una coltellata di piacere.
«E mentre veniva dentro di me, pensavo a te. A come ti sarebbe piaciuto. A come avresti leccato tutto.»
Mi esplose dentro una foga animale.
La presi per i fianchi. La spinsi forte.
Le urlai:
«Tienilo dentro. Tutto. Adesso ci sono anch’io.»
Venni.
Dentro di lei.
Mischiandomi a lui.
Nella stessa figa.
Nel suo corpo.
Ci baciammo.
Lei mi guardò e sussurrò:
«Adesso… siamo completi.»
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