Sapore della sborra

Peccati e Guai
a month ago

Quella sera eravamo a cena dai miei genitori. Una di quelle serate che sembrano immobili: piatti caldi, sorrisi di rito, conversazioni leggere. Una bottiglia di vino sul tavolo, le solite domande, le solite risposte.

Tutto sembrava normale. Ma io la guardavo.

Lucrezia, seduta lì, elegante, composta, sorrideva ai miei. Ma aveva quello sguardo. Quello sguardo che mi faceva tremare dentro. Uno sguardo che diceva tutto senza parlare. Uno sguardo da figa calda sotto il tavolo, da mutandina bagnata, da voglia che si agita sotto la pelle.

Aveva un vestitino nero semplice, corto quanto bastava. Le gambe accavallate con lentezza. Ogni tanto mi sfiorava con il piede sotto la tovaglia, facendo finta di niente.Le mani sul bicchiere, le labbra che si chiudevano sul bordo… e io immaginavo già altro tra quelle labbra.

A un certo punto, ricevette un messaggio. Lo lesse senza dire nulla. Ma quando alzò lo sguardo verso di me, capii subito. I suoi occhi… erano già un confessionale. Umidi. Profondi. Accesi.

Si avvicinò al mio orecchio, fingendo di chiedermi qualcosa sottovoce. Ma le parole che mi sussurrò furono tutt’altro.

«È Salvatore. Mi ha scritto. Ha voglia di me.»

Un brivido. Un colpo netto al petto. Il mio cazzo si mosse subito, nel silenzio apparente della cena.

Non era la prima volta che ne parlavamo. E nemmeno la prima volta che sentivo sulle labbra il sapore di un altro. Ma ogni volta era come la prima.

Ogni volta più forte. Più trasgressiva. Più nostra.

La guardai. Non servivano parole. Avevamo superato il punto del permesso. Eravamo già dentro la dinamica.

Io cornuto. Lei puttana adorata. E Salvatore… la sua nuova abitudine.

«Vai», le dissi solo. «Soddisfalo.»

Lei sorrise. Non un sorriso dolce, né complice. Un sorriso da troia elegante. Da donna consapevole. Lenta, padrona, spietata.

Si alzò con una scusa sottile: un problema a casa dei suoi genitori. Prese le chiavi della mia macchina e uscì. Nessuno al tavolo notò nulla. Solo io… e il mio cazzo duro sotto i pantaloni.

Rimasi lì, a parlare con mia madre, mentre nella mia testa scorrevano immagini incomplete:la sua figa che si apre, la lingua di Salvatore, il suo cazzo dentro di lei, le sue mani che le stringono i fianchi.

Due quasi ore dopo rientrò.

Perfetta. Impeccabile.

Vestita come prima, ma con qualcosa in più. Il viso rilassato, le guance leggermente arrossate, gli occhi che brillavano come vetro bagnato. Mi baciò.

Fu come leccare un segreto.

E lo sentii. Quel sapore. Non era solo il suo. C’era qualcosa in più. Qualcosa che conoscevo. Che amavo. Che mi faceva fremere dentro.

Sborra.

Lì. Sulle sue labbra.La sua. Di Salvatore.Mischiata alla saliva. Alla lingua. A lei.

«Wow… ti sei divertita», le dissi a bassa voce.

Lei non rispose. Mi guardò. E con un sorrisetto che sapeva di crimine e complicità, mi sussurrò:«Ho una sorpresa per te…»

«Usciamo.»

Salimmo in macchina. Lei sedette silenziosa, le gambe strette, le mani sul grembo. Non diceva nulla, ma ogni suo gesto, ogni suo respiro, sapeva di sesso. I suoi capezzoli si intravedevano sotto il vestito, duri, vivi. Le gambe non riuscivano a stare ferme.Tremava. Bruciava.

Guidai pochi minuti. Né lei né io sapevamo dove andavamo. Poi, come un segnale preciso, mi disse:

«Accosta.»

Lo feci.

Parcheggiai in un punto isolato, semibuio. Lei reclinò il sedile indietro. Lenta. Controllata. Alzò il vestitino, si sfilò le mutandine con grazia chirurgica. Me le porse. Erano umide. Calde. Il profumo era forte, pungente. Sborra, sudore, figa.

Poi si aprì le gambe. Senza dire nulla. Ma la sua figa parlava da sola.

Gonfia. Lucida. Spalancata. E colma.

Lì dentro c’era lui. C’era Salvatore. Ancora. Nonostante il tempo. Nonostante il ritorno.

«Amore… l’ho tenuta tutta dentro per te», mi disse. «Leccami.»

Il mio cuore esplose nel petto. Ma non per lo shock. Per l’eccitazione. Sapevo perfettamente cosa stavo per fare. E lo volevo.

Mi spinsi tra le sue cosce. Affondai la lingua. La sua figa era bollente. Un lago sacro. Un calice da bere fino in fondo.

Il sapore della sua sborra mi colpì subito. Salata. Densa. Animale. Una miscela di corpi. Di sudore. Di umori.

Ma io non mi fermai. Al contrario: mi spinsi più a fondo. Le labbra schiacciate contro di lei. La lingua affondata dentro.Volevo prenderla tutta. Ogni goccia. Ogni scoria del loro amplesso. Volevo bere lui. Per lei.

Lucrezia si contorceva. La testa all’indietro. Le mani tra i capelli. «Sì… così… mangiamela… sentilo… sentilo dentro… cornuto mio…»

Mi afferrò la testa e me la premette addosso.Mi stava scopando la faccia.

«Vuoi la sua sborra… vero? Te la sei cercata… la stai bevendo tutta… come piace a me…»

La feci venire. Una, due, tre volte. Il suo corpo tremava. Sussultava. Mi inondava la bocca. La lingua. Le guance.

Quando si calmò, mi tirò su con dolcezza animalesca. Mi slacciò i pantaloni. Il mio cazzo era duro come pietra.

Si sedette sopra. Senza fretta. Senza pietà. Mi fece entrare con un gemito profondo.

«Mi ha chiamata il suo sborratoio», disse, guardandomi negli occhi.

«Mi ha detto che mi avrebbe riempita quando voleva. E io gli ho risposto di sì. Che può farlo. Sempre. Quando vuole.»

Ogni colpo di fianchi era una coltellata di piacere. Un movimento da puttana. Una danza sporca. Una confessione continua.

«E mentre veniva dentro di me, pensavo a te. A come ti sarebbe piaciuto. A come ti saresti inginocchiato… a leccarla...»

Mi esplose dentro una foga cieca. La presi forte. La spinsi contro. Affondai.

«Tienilo dentro. Tutto. Adesso ci sono anch’io.»

Venni. Dentro di lei. Dentro la sborra di Salvatore. Dentro la stessa figa. Dentro lo stesso corpo.

La baciai. Forte. Le passai la lingua tra le labbra, cercando ogni sapore.

Ci guardammo. Lei sorrise. Poi sussurrò:

«Adesso… siamo completi.»