Irresistibile passione

Avevo il cazzo di quello sconosciuto in bocca, duro, caldo, pulsante, e ogni suo gemito era una scossa che mi attraversava la spina dorsale. Le sue mani erano salde sulla mia nuca, guidavano il ritmo, sempre più profondo, sempre più deciso. Lo sentivo premere contro la mia gola, e invece di tirarmi indietro, lo accoglievo. Tutto.
I sensi di colpa mi graffiavano dentro, ma non riuscivano a fermarmi. Anzi, sembravano alimentare quel fuoco. Pensavo a mio marito — alla distanza che si era scavata tra noi, alle notti vuote, alla pelle che non cercava più la mia. E ora, ogni spinta di quel corpo sconosciuto contro le mie labbra era una risposta brutale ma necessaria alla mia solitudine.
L’uomo ansimava sopra di me, e io godevo della sua fame. Sentivo ogni vena del suo sesso palpitare contro la mia lingua. Lo leccavo, lo succhiavo, lo stringevo tra le labbra come se fosse l’unica cosa che potesse tenermi viva in quel momento. Lui sussurrava frasi sporche — “Sei fantastica”, “Guarda come lo prendi” — e io le bevevo, come lodi oscene ma vere, come riconoscimento per un corpo che voleva ancora essere desiderato.
Poi si ritrasse appena, con un gemito strozzato. Mi guardò negli occhi, e nel suo sguardo c’era il limite tra il controllo e l’istinto.
«Se continui così, vengo.»
Gli sorrisi, le labbra ancora bagnate.
«È quello che voglio.»
«È quello che voglio», gli dissi, tenendolo con lo sguardo.
Lui lasciò andare un sospiro spezzato, qualcosa tra l’arreso e l’eccitato, poi mi tirò su con forza, afferrandomi per le braccia. Le sue labbra si schiantarono sulle mie, sentii il mio stesso sapore sulla lingua — e quella miscela di umiliazione e potere mi fece fremere le cosce.
Mi girò di spalle, con urgenza. Le sue mani corsero sotto la mia gonna, sollevandola in un gesto brutale e diretto. Le dita trovarono le mie mutandine già fradice. Le scostò, senza pazienza, e in un attimo sentii la punta calda del suo sesso premere contro di me.
«Sei già pronta», sussurrò al mio orecchio, con una voce ruvida.
«Da prima che entrassi nella stanza», risposi, ansimando.
Mi penetrò con una spinta profonda, decisa. Un gemito mi uscì dalla gola, strozzato ma famelico. Le mani sul muro cercavano equilibrio, ma lui affondava in me come se stesse cercando qualcosa che gli era stato negato per troppo tempo. Ogni colpo era un colpo al cuore della mia vita segreta, della parte di me che avevo sepolto sotto anni di routine e silenzi.
Il suo bacino batteva contro il mio con un ritmo feroce, mentre le sue mani si stringevano ai miei fianchi, a tratti violente, a tratti tremanti. Sentivo tutto: la sua voglia, la mia resa, la tensione elettrica che vibrava nell’aria. Il muro davanti a me sembrava dissolversi — vedevo solo ombre, ricordi, frammenti di ciò che ero stata. Ma lì, in quel momento, ero carne viva, pulsante, desiderata.
«Guardati», sussurrò, tirandomi per i capelli quel tanto che bastava per farmi girare il viso verso uno specchio sulla parete.
Mi vidi. Le guance arrossate, le labbra gonfie, gli occhi lucidi. E lui dietro di me, il corpo teso, le labbra socchiuse.
«Guardati mentre mi prendi tutto.»
E io lo guardai. E non distolsi gli occhi nemmeno quando venne dentro di me, con un gemito rauco e profondo, stringendomi come se avesse paura che sparissi.
Rimase dentro di me ancora qualche istante, respirando contro la mia schiena, le mani ferme sui miei fianchi. I suoi polpastrelli, prima così forti, ora sembravano quasi voler trattenere un contatto più intimo, più reale. Ma il momento di furia era passato, e con esso il delirio dei sensi. Mi sentivo svuotata. Viva. Colpevole.
Mi allontanai piano, sentendo il suo sesso scivolare fuori da me con un brivido che mi fece chiudere gli occhi. Tirai giù la gonna, sistemandomi senza dire una parola. Il silenzio era spesso nella stanza, interrotto solo dal ticchettio lontano di un orologio, e dal nostro respiro ancora affaticato.
Lui si sedette sul bordo del letto, nudo, il corpo ancora scosso da piccoli tremiti. Aveva il petto lucido di sudore e i capelli arruffati. Mi guardava. Con occhi chiari, svegli. Troppo svegli.
«Non dici nulla?» chiese, la voce più calma, ma ancora sporca di quel dominio che aveva avuto su di me pochi minuti prima.
«Cosa vuoi che dica?» risposi, mentre raccoglievo la mia borsa, evitando il suo sguardo nello specchio.
«Che non è la prima volta», disse lui, quasi indovinando i miei pensieri.
Mi voltai.
«E che non sarà l’ultima.»
Lo guardai allora, davvero. Sette anni più giovane di me. Pelle tesa, sguardo sicuro. Quel tipo di uomo che sa di piacere e sa come usarlo. Un ragazzo, almeno agli occhi del mondo. Ma non per me. Per me era carne viva, presenza pericolosa, una tentazione che si era trasformata in scelta.
«Non dovresti volermi», dissi piano.
Lui sorrise. «Per questo mi vuoi tu.»
E aveva ragione.
Mi venne da ridere. Una risata amara, stanca. Avevo un marito. Un uomo buono, presente, che mi aveva sempre trattata con rispetto. Eppure…
Eppure da mesi non mi guardava più come una donna. Solo come compagna, madre, presenza scontata. Nessuna mano rubata sotto il tavolo, nessun desiderio trattenuto a stento. Solo routine. Silenzio.
«Mi chiamo Elena», gli dissi, dopo una pausa.
«Lo so.»
«Tu?»
«Matteo.»
Matteo. Lo scrittore emergente con cui avevo scambiato quattro parole dopo la sua presentazione al circolo letterario. Mi aveva detto di voler scrivere di donne vere. Forse l’aveva fatto. O forse le stava solo vivendo.
Mi avvicinai alla porta.
«Non aspettarti nulla da me», mormorai.
«Non ho bisogno di aspettare. So che tornerai.»
Non risposi. Ma non chiusi quella porta del tutto. La lasciai socchiusa. Come una promessa. Come una condanna.
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