Lady Winterhard
L’enorme membro di Julius era puntato a pochi centimetri dal viso di Frida. Il colossale servitore dalla pelle d’ebano ondeggiava leggermente il bacino, in modo da imprimere movimenti concentrici alla sua prorompente virilità: una sorta di danza ipnotica che attirava su di sé le pupille della propria padrona, ormai abbandonata ad un ossessivo anelito erotico.
La ragazza, completamente nuda, costretta da catene ai polsi e alle caviglie ad una gelida stalagmite, tentava inutilmente di afferrare tra le labbra l’oggetto del suo desiderio o, perlomeno, di raggiungerlo con qualche guizzo della lingua che faceva saettare disordinatamente tra le labbra. Ma era tutto inutile: il collare che le stringeva la gola non le permetteva di protendere la testa più di tanto, se non voleva rimanerne strozzata.
Julius dosava alla perfezione i propri movimenti e sapeva che, se Frida fosse riuscita a raggiungere il suo sesso, non l’avrebbe più lasciato andare, a costo di serrarlo nella dolorosa morsa dei suoi denti.
La torcia, appoggiata a pochi metri di distanza, diffondeva una luce tenue che veniva riflessa e accentuata dalla quarzite contenuta in abbondanza nelle pareti dell’ampia grotta. Il bagliore tremolante investiva anche le numerose altre stalattiti e stalagmiti che circondavano il laghetto di acqua termale al centro dell’ambiente, creando così inquietanti ombre che sembravano animate da vita propria. Ma la mente maliziosa di Frida non ne era affatto spaventata: le vedeva come altrettanti giganteschi membri, pronti a possederla dopo che Julius si sarebbe soddisfatto su di lei.
Ormai esasperata dal desiderio per il prolungarsi del perfido gioco di Julius, Frida decise di mettere da parte le sue prerogative di padrona e tentò di convincere il suo servitore, implorandolo con voce suadente: “Ti prego, dammelo…”
Quasi a volerla supportare, la supplica venne immediatamente seguita dal flebile fischio di Juna, la splendida e fedele femmina di puma bianco che, acquattata a poca distanza, non distoglieva lo sguardo dalla scena, per essa ormai molto usuale.
Per tutta risposta, Frida ricevette solamente il sorriso beffardo del suo momentaneo persecutore che perseverò nel farle sospirare il succoso frutto virile per altri interminabili minuti.
Infine, anch’egli desideroso di soddisfarsi, decise di far progredire il gioco. Impugnò il proprio randello e prese a strofinarne il glande sul viso della sua vittima. Il filamentoso liquido pre-eiaculatorio iniziò a spargersi sulle candide gote e sulla fronte della ragazza, facendole luccicare al pari dei suoi occhi di ghiaccio, ormai languidi e rassegnati all’indicibile libidine che la pervadeva e che occupava ogni anfratto della sua mente.
“Ficcamelo in bocca! Ti scongiuro!” urlò dalla disperazione. Juna, allarmata dalla perentorietà del richiamo, rizzò la testa e accompagnò l’ordine della sua protetta con un ringhio acuto e rancoroso rivolto al pervicace energumeno.
Impermeabile ad ogni qualsivoglia minaccia, Julius non si intimidì, e fu solo lui a decidere quando riempire la bocca di Frida con il proprio sesso. Lo fece con la medesima ed esasperante calma con la quale aveva finora sostenuto la sua parte, ma la penetrazione dell’anfratto orale della ragazza fu ugualmente deciso, perché era consapevole che a lei piacesse così.
Lasciò che ella lo accogliesse per quasi la metà. Trenta centimetri di lunghezza e un diametro simile a quello di una lattina di birra non le permisero di riceverne di più. Nonostante siffatte dimensioni che le deformavano la bocca e il volto, per Frida fu un autentico sollievo, e non perse un attimo prima di iniziare a far vorticare la lingua attorno a quell’obelisco di carne, dall’odore particolare e penetrante ma per lei inebriante, fremente, bollente e ricoperto da un fitto reticolo di vene pulsanti.
Ebbe subito un violento orgasmo che, suo malgrado, la costrinse a staccarsi dal prelibato oggetto per poter assecondare gli ansimi provocati dal piacere e lasciar defluire tra le cosce la potente squirtata, il cui getto andò ad infrangersi a terra, per poi rimbalzare in parte sui suoi piedi e su quelli del suo servitore.
Julius attese che Frida ritornasse pronta a succhiarlo, quindi glielo conficcò nuovamente fin quasi in gola.
Per quel poco che le permetteva lo stretto collare in metallo, la ragazza muoveva parossisticamente la testa in avanti e all’indietro, infliggendogli micidiali pompate che avrebbero fatto eiaculare un uomo normale in pochi secondi.
Invece, per portare Julius all’orgasmo, sapeva che avrebbe dovuto lavorare di mascella e lingua per parecchio tempo. Anche Juna ne era consapevole. Rassegnata, appoggiò il muso affilato sulle zampe anteriori e attese sonnecchiando l’evoluzione di quel furioso amplesso orale.
L’improvviso acuirsi dei rumori gutturali della propria padrona e del suo servo fecero ridestare Juna dal torpore, certa che, da lì a poco, sarebbero potuti tornare a casa.
Infatti, dopo esigui istanti, la bocca di Frida iniziò a riempirsi del cremoso sperma che veniva eruttato dal membro di Julius con fiotti ripetuti ed abbondanti, al punto che, per non soffocarla, l’uomo estrasse il membro e, smanettandolo furiosamente, terminò di spruzzare sul viso della ragazza, fin quasi a ricoprirlo per intero, quanto gli restava dentro.
Aiutata dalle dita del servitore che, nel frattempo, si erano insinuate nel suo solco intimo martoriandole la vulva, Frida ebbe un altro orgasmo, talmente devastante da farle perdere le forze e costringerla ad abbandonarsi, trattenuta nel suo accasciarsi dalle sole catene che la soggiogavano.
Completamente svuotato, Julius dette un’ultima scossa al membro, poi lo ripose nel sospensorio. Recuperò il resto dei propri indumenti, si ricompose, andò verso la sua padrona e la liberò dalle costrizioni, aiutandola a sorreggersi mentre lei tentava di riprendersi.
Le passò un fazzoletto per ripulirsi il viso dall’impiastramento che le impediva persino di aprire completamente gli occhi per non venirne accecata.
Juna si era nel frattempo alzata e spostata guardinga verso l’ingresso della grotta, osservando con attenzione verso l’esterno. Voltò il muso in direzione dei due e, con un sibilo prolungato, li avvisò che stava per fare buio. Avrebbero dovuto darsi una mossa se volevano essere a casa prima che venisse meno il dominio diurno del puma sui feroci branchi di lupi.
Questa era una delle regole ferree a cui dovevano soggiacere, la cui deroga avrebbe potuto avere conseguenze letali.
Purtroppo, l’anziana donna alla quale i genitori di Frida affidarono la figlia, prima di sostenere la battaglia finale contro le Forze Oscure che li vide soccombere da vincitori, era stata zelante ma un po’ troppo frettolosa nel formulare il suo incantesimo a protezione della ragazza. Così, alla sua dipartita, la parola rassicurante data dalla vecchia fattucchiera ai duchi di Winterhard si trasformò, suo malgrado, nella prigione che teneva reclusa Frida da ormai centovent’anni.
Assieme a Julius, Juna e ad Olga, la governante, la duchessina Frida di Winterhard viveva in un limbo gelido, isolato e fermo nel tempo dei suoi vent’anni. In una landa di un paese del Nord, immersa in una foresta all’apparenza sconfinata, la vasta tenuta dei Winterhard era delimitata da un muro di cinta nemmeno troppo alto da scoraggiare qualche sventurato intruso, se mai ne fosse capitato uno in un luogo così freddo e remoto.
Ciò che lo avrebbe annientato senza scampo sarebbero stati i lupi sanguinari che ne percorrevano costantemente il perimetro. Dato il loro numero e la loro ferocia, non avevano timore di nulla, tranne dell’ancora più spietata Juna che, in fatto di astuzia, forza, velocità e risolutezza, non aveva rivali. La femmina di coguaro era cresciuta in totale simbiosi con la sua padrona e non si separava mai da lei, specialmente durante le lunghe e solitarie passeggiate diurne che Frida faceva all’interno della proprietà.
Era necessaria quasi mezza giornata di cammino per giungere al suo confine sud, dove si trovava l’ingresso principale, sbarrato da un elaborato cancello in ferro battuto. Almeno, a Frida pareva di ricordarlo così, dato che tutte le volte che aveva tentato di avvicinarsi, era stata trattenuta da una forza a lei ignota che le impediva di avanzare fino in sua prossimità. Perciò, aveva modo di osservare lo sbarramento solo da piuttosto lontano, quando la nebbia era abbastanza clemente da non impedirne la visione.
Raggiungere il confine nord, invece, era una chimera per qualsiasi essere vivente. Molto prima di arrivare al suo limite, il cammino era reso impossibile dall’altezza inusitata della neve e dal vento ghiacciato che sferzava senza sosta la superficie del manto bianco, provocando una perenne quanto micidiale bufera di schegge ghiacciate e taglienti.
Le aree ad est e ad ovest erano occupate da una rigogliosa e pressoché impenetrabile selva di conifere, popolata dalla fauna tipica di questi ambienti nordici. Cervi, caprioli, volpi, lepri e una folta moltitudine di uccelli di varie specie ravvivavano con la loro presenza la desolazione di una siffatta dimensione di vita.
Al centro di questo mondo, sorgeva il maniero dei Winterhard che, ovviamente, non aveva bisogno di alte mura per essere difeso. La sua architettura di metà Ottocento offriva una sensazione di elegante e sobria accoglienza, non nascondendo l’altissimo tenore di vita che i suoi proprietari avevano conquistato, investendo con grande lungimiranza nelle miniere di diamanti del Sudafrica.
Le immense ricchezze accumulate dai genitori di Frida erano custodite nelle numerose diramazioni sotterranee che si articolavano in un vasto labirinto naturale, mortale per chi non ne conoscesse il percorso alla perfezione, che iniziava proprio nell’ampio atrio dove ella amava farsi sottomettere da Julius e dove le piaceva fare lunghe nuotate nel caldo e corroborante bacino termale, sempre sotto l’occhio vigile di Juna.
Quando Frida si fu finalmente rivestita con l’aiuto di Julius, la sparuta comitiva uscì dalla grotta e prese la via del ritorno verso l’abitazione, distante circa un chilometro. Ormai era quasi buio e il manto nevoso, quasi congelato, scrocchiava sotto i loro passi, diventando un forte richiamo per i predatori.
Normalmente, Juna camminava accanto e molto vicina alla propria padrona ma, in quest’occasione, consapevole del pericolo a cui erano esposti, preferì seguirla ad una ventina di metri, fermandosi frequentemente ad annusare e a scrutare dietro a loro per accertarsi che nessun lupo si fosse messo in testa di aggredirli alle spalle.
Julius li precedeva reggendo la torcia, semplice ma piuttosto efficace deterrente nel caso di isolati e temerari aggressori.
Frida, protetta dal freddo grazie all’ampio e pesante mantello con cappuccio, guardava i suoi passi e, in silenzio, come spesso le accadeva, rifletteva sulla sua condizione, rimuginando sul modo di uscirne per condurre una vita normale, come tutte le ragazze mortali della sua età.
L’incantesimo si sarebbe estinto nel momento in cui avesse fatto l’amore con l’uomo della sua vita ma, per trovare questa persona, aveva solamente una possibilità all’anno, in occasione della festa per il suo compleanno. Fino ad allora, ne aveva vissute ben centoventi di queste occasioni, nel migliore dei casi risoltesi senza successo, o con parecchie e cocenti delusioni.
“Possibile che nessuno si innamori di me per ciò che sono? Una splendida ragazza con un corpo sensuale e conturbante, d’animo gentile e romantico, con cultura, educazione e intelligenza senza eguali nel panorama della gioventù moderna?” erano le domande che ormai l’attanagliavano senza tregua.
Lo sfarzo della sua dimora, la condizione di regina assoluta del suo mondo, il pieno soddisfacimento dei suoi bisogni e dei suoi capricci sessuali, gli oggetti di lusso e le possibilità di comunicazione offerte dalle moderne tecnologie non le bastavano più. Anzi, era sempre più convinta che avrebbe saputo rinunciare a tutto ciò, forse anche al sesso, pur di vivere con una persona che le facesse battere il cuore, anche se ciò avrebbe significato invecchiare ed esporsi a tutte le condizioni, talvolta molto spiacevoli, dell’umano vivere, compresi gli acciacchi e le malattie, cose che lei aveva studiato sui libri ma di cui non aveva mai avuto esperienza, nemmeno di un semplice raffreddore.
Gli ululati dei temibili quadrupedi si fecero più frequenti e vicini, perciò Julius esortò la sua padrona ad allungare il passo, invito avvallato subito dopo da un ringhio deciso di Juna.
Quando arrivarono in prossimità dell’ingresso di casa, videro l’imponente figura di Olga che, tenendo scostata una tenda del salone principale, osservava attraverso i vetri il loro arrivo, evidentemente in ansia per la loro sorte.
“Siete degli imprudenti a stare in giro fino a quest’ora! Mi piacerebbe sapere che cosa cazzo c’è di così interessante da fare là fuori…” furono le frasi che accolsero Frida e Julius mentre si toglievano di dosso i manti imbiancati dalle goccioline di nebbia ghiacciate che vi si erano depositate lungo il tragitto. Juna, giustamente immune al rimprovero, e con l’aria di quella che “Io non voglio saperne niente…”, si allontanava quatta quatta verso la cucina, dove avrebbe trovato la sua ciotola colma di cibo succulento.
Il servitore guardò l’orologio che segnava le 16.30.
“Mi sono attardata a fare il bagno al laghetto…” rispose la ragazza con tono poco convincente, lanciando un’occhiata complice al suo domestico che, invece, conservò la consueta espressione imperturbabile, ad eccezione dell’aggrottamento involontario della spaziosa fronte.
La governante raccolse i soprabiti con fare sbrigativo e si allontanò farfugliando qualcosa di incomprensibile ai più, in quanto pronunciato in un dialetto in uso solamente in remote aree della Russia, sua patria d’origine. Tornò subito da loro e, con un tono completamente diverso, annunciò che entro qualche minuto avrebbe servito il tè con i biscotti appena sfornati.
Julius non assaggiò i dolcetti, preferendo mangiarsi un sostanzioso panino, farcito con una spessa cotoletta impanata, maionese e pomodoro. Normalmente, ciò avrebbe contrariato molto la fredda e suscettibile governante, ma la sua mancata reazione avversa fece intuire a Frida che la russa voleva ingraziarsi i favori del collega, in vista della notte di sesso che avrebbe desiderato trascorrere con lui da lì a poche ore.
Frida conosceva bene i suoi “polli” e, sebbene nessuno gliel’avesse mai dato ad intendere, sapeva che i due scopavano da sempre. Non ne era certo gelosa, in quanto non era innamorata di Julius, e ciò che le importava veramente era che il nerboruto colosso d’ebano fosse sempre ben “carico” e disponibile a soddisfare le sempre nuove e, talvolta, assolutamente bizzarre situazioni sessuali che la ragazza si inventava, dimostrando un’incredibile fantasia erotica, al limite del diabolico.
Come ogni sera dopo cena, ognuno si ritirò nelle proprie stanze. Non trascorse nemmeno un’ora che, nel silenzio assoluto della casa, Frida iniziò ad udire i sospiri e i rantoli di Olga che stava ricevendo le attenzioni di Julius. Interruppe il lavoro che stava svolgendo al computer e, leggera come un fantasma, percorse il lungo corridoio che separava il suo appartamento dalla camera della governante.
I tipici rumori generati da una furiosa scopata echeggiavano oltre la porta ed erano troppo invitanti per la curiosità lussuriosa della giovane che, senza alcuna remora, si chinò ad osservare dal buco della serratura ciò che accadeva al di là di essa.
Le apparve in primo piano l’imponente culo del servitore che, sorreggendosi sulle braccia e con le gambe tese, appoggiate sul letto solamente tramite le punte dei piedi, stava penetrando Olga con affondi ritmati e decisi, ondeggiando il bacino anche lateralmente. La donna sotto di lui, letteralmente trivellata dall’enorme cazzo che si immergeva in lei fino alle palle, assecondava i movimenti dell’uomo spostando le cosce all’unisono, spesso distendendo gli arti inferiori fino a formare una sorta di ali di aeroplano in avvitamento.
Aggrappata alla muscolosa schiena del partner, sembrava non averne a sufficienza di tutto il cazzo che si stava prendendo e, tirando a sé con forza il corpo del suo toro, dava l’impressione di volerne sempre di più.
Proseguirono nella medesima posizione per almeno venti minuti. Frida concluse che Olga avrebbe dovuto ringraziarla per la tanta resistenza che le stava offrendo Julius. Una repentina accelerazione dei gemiti richiamò la concentrazione della ragazza, ai cui occhi si offrirono gli ultimi convulsi istanti dell’amplesso, durante i quali i due raggiunsero contemporaneamente l’orgasmo.
Osservò Julius che, senza evidenti segni di affaticamento, baciava appassionatamente la compagna restando dentro di lei. Quando si staccò, dalla vulva della donna uscì un’abbondante colata di liquido lattiginoso che ella non si curò di trattenere o pulire in qualche modo, restando a seguire con lo sguardo i movimenti del domestico che, a lato del letto, si stava rivestendo.
Con la stessa cautela con la quale aveva raggiunto i due amanti, Frida tornò velocemente nelle sue stanze, premurandosi di non far rumore nell’accostare la porta. Chiuse il coperchio del computer portatile e si infilò svelta sotto le coltri del letto.
Il silenzio era tornato a regnare ovunque, ad eccezione dell’insistente ululato dei lupi in lontananza, ma per lei questa era la normalità che le conciliava il sonno, se non fosse che, appena coricata, con ancora negli occhi le immagini della sontuosa scopata a cui aveva appena assistito, non resistette alle vampate di lussuria che l’assalirono nuovamente e dovette soddisfarsi, dando fondo a tutte le tecniche autoerotiche di cui era abilissima e solerte sperimentatrice.
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