Al convegno senza perizomaa
Il racconto che segue l’ho scritto tempo fa, dopo aver conosciuto una coppia. Lei mi aveva chiesto un “tributo” facendomi recapitare, da suo marito, un perizoma usato ancora pregno dei suoi umori. Al momento rimasi un po’ basito ma poi capì cosa avrei dovuto fare.
Conobbi Daniela ad un convegno in quanto inviato dall’azienda per la quale lavoro. Sono Pietro, 57 anni, buona presenza (dicono), fisico atletico e giovanile. Lavoro per una grande multinazionale come ingegnere informatico e sono a capo della divisione per ciò che concerne lo sviluppo e l’applicazione delle fibre ottiche in campo aerospaziale.
Ero seduto al posto assegnatomi nella sala conferenze di un grande albergo di Milano. La poltroncina alla mia destra era libera e vi avevo perciò poggiato la borsa e il taccuino. Il relatore della giornata aveva iniziato da poco, quando tutta trafelata si avvicinò verso di me la persona assegnataria del posto vuoto accanto al mio. Sollevai la testa dal mio tablet e mentre mi affaccendavo a spostare la mia roba, rimasi quasi a bocca aperta: una bella donna, bionda, vestita di tutto punto con un tailleur nero, gonna e giacca, molto elegante e raffinato, mi indicava che quello era il suo posto. Indossava occhiali rosso ciliegia dalla montatura raffinata che le davano un’aria sbarazzina ma al contempo estremamente sexy. I nostri occhi si incrociarono mentre si sedeva. Fu quel tanto che bastò a farmi perdere nello sguardo magnetico dei suoi occhi. Mi trafisse. Ero come incantato. Non riuscivo a staccarmi e stancarmi di guardarla.
«Mi scusi, avevo occupato il suo posto» riuscì ad articolare avendo la prontezza di non sembrare quasi un demente. Lei non rispose mentre la sua testa faceva la spola tra me ed il conferenziere. Cercai anche io di riportare l’attenzione su ciò che veniva espresso ma non riuscivo a staccare lo sguardo da lei. Subito mi persi nella curva del suo gluteo mentre si piegava per prendere posto. Notai i suoi magnifici capelli biondi, il modo in cui spostava alcune ciocche e teneva la penna in mano e ogni tanto la appoggiava alle sue labbra perfette, incorniciate da un leggero filo di rossetto di un flebile rosa, il trucco sapiente ma non eccessivo, il modo in cui teneva accavallate le gambe inguainate da delicate calze autoreggenti (si intravedeva una sottile parte della balza nera poco sotto lo spacco della gonna), mettendo in risalto le eleganti caviglie e i bei piedi incorniciati da un paio di décolleté con tacco non tanto eccessivo. Sul piede sinistro un elegante tatuaggio raffigurante una delicata farfalla mentre sul destro un’argentea cavigliera impreziosiva il tutto. Da sotto la sottile e trasparente camicetta di un bianco tenue spuntava il pizzo di un raffinato reggiseno che metteva in risalto la fossetta tra le magnifiche collinette dei suoi seni.
Aveva i modi e l’atteggiamento di una modella in abbigliamento da donna manager molto sicura di sé, credo sui 50/55 anni splendidamente portati, ma che ci faceva lì in mezzo ad una platea formata per la maggior parte da uomini?
D’un tratto lei piantò i suoi occhi sui miei ed in quel preciso istante fui perso. Dei magnifici occhi d’un castano scuro con delle pagliuzze dorate che sprizzavano lampi, i suoi occhi illuminavano la stanza. Ci scambiammo uno sguardo al fulmicotone, che mi lasciò per un momento interdetto, confuso. Ero come una falena attirata dalla luce di una lampada. Era l’incarnazione della sensualità, della lussuria, della libidine, della lubricità, della perversione, del vizio, dell’ardore, dell’eccitazione, della carnalità, del peccato, dei sensi, della licenziosità, dell’oscenità, ma al tempo stesso della pudicizia, dell’eleganza, della classe, era semplicemente magnifica.
E poi quelle labbra, quella bocca, doveva essere morbida, morbida e irresistibile, seducente. Capace di coinvolgermi in una danza lenta e lieve, di annientare il mio buonsenso pensando di leccarla, mordicchiarla, succhiarla poco alla volta, facendo saettare la lingua dentro.
Come se avesse intuito i miei pensieri lei tirò fuori la punta della lingua passandola lentamente sul labbro inferiore. La sua pelle emanava un lieve aroma, non forte come un profumo, ma un sentore di innocenza e passione: vaniglia ed eccitazione femminile. Sono il tipo da pensieri o frasi sdolcinate (mi ritengo infatti, un romantico) ed in quel momento potevo capire coloro che scrivono poesie e canzoni d’amore. Quel collo delicato, i capezzoli diventati turgidi, erano irresistibili. Vidi un’espressione concentrata sul suo viso, come se fosse completamente rapita da quell’esperienza fisica.
Eravamo come sotto una campana di vetro: tutto il resto intorno a noi era scomparso, sbiadito, i contorni annebbiati. Era come se due fili invisibili trasportassero corrente ad alta tensione ed univano, attraverso gli occhi, i nostri corpi e ci davano una scossa ma che avevano causato, però, l’effetto contrario: eravamo immobili! Mi accorsi di avere un’erezione che premeva prepotente (per fortuna avevo appoggiato la mia giacca sulle gambe e potevo così mascherare quello che spingeva sotto).
Un fischio improvviso, però, proveniente dall’amplificazione della sala ci distolse bruscamente da quel contatto. Era come risvegliarsi bruscamente da un sogno.
Come due automi ci volgemmo contemporaneamente verso l’oratore,
Da quel momento non ascoltai più nulla riguardo la conferenza. L’unico rumore che sentivo e si amplificava nelle orecchie era quello del suo respiro che faceva sollevare il suo busto mettendo in risalto il bellissimo seno. Ero in un’altra dimensione. Ero come rapito,
Spesso mi volgevo verso di lei e notavo con piacere che anche lei faceva lo stesso nei miei confronti. L’erezione non mi era certo passata e di sicuro a lei la cosa non era sfuggita tanto che spesso accavallava le gambe, stringeva i muscoli delle cosce. Di sicuro anche lei stava avvertendo un qualcosa. Poi il fruscio del nylon mentre accavallava le gambe mi faceva impazzire, mi inebriava i sensi. Spesso lei spostava lo sguardo verso la mia patta che avevo liberato dalla giacca che in un primo momento vi avevo poggiato sopra. Poi sollevava lo sguardo con quegli occhiali che le davano un’aria ancora più sensuale. Spesso si passava la lingua su quella bocca che avrei morso lì davanti a tutti! Ma ad un tratto mi sorprese: si alzò lasciando sulla poltroncina il tablet ed un sacchetto di carta pieno di dépliant relativi al convegno. La seguì con lo sguardo e la vidi avviarsi verso l’uscita della sala. Pensai che sicuramente si stesse avviando alla toilette per incipriarsi il naso.
Mi volsi immediatamente per ammirare il suo sedere e devo dire che era divino, perfetto, sodo. Distrattamente guardai il suo tablet e poi rivolsi l’attenzione o meglio solo lo sguardo verso il palco dove un manager parlava di tecniche innovative di sensing, monitoraggio strutturale basato sull’impiego di reticoli di Bragg in fibra. Cosa avrei raccontato al mio rientro in sede? Speriamo bene, tanto anche domani ci sarebbero state varie conferenze, bah! Qualcosa mi sarei inventato.
La mia vicina di poltrona, tornò facendosi spazio tra gli astanti e provocando sguardi allupati al suo passaggio. Erano tutti fissi sul suo culo: un’opera d’arte, rotondo, sodo, perfetto.
Arrivò così al suo posto accanto a me, prese il tablet e posò la busta accanto alle sue gambe. Mi diede uno sguardo veloce ma carico di sensualità. Poi si volse verso colui che parlava. Sembrava oramai interessata a ciò che l’oratore esponeva ma ad un tratto si volse verso di me, prese la mia mano, quella più vicina a lei, la aprì con il palmo verso l’alto, mentre io la guardavo in modo sorpreso e alquanto stupefatto.
Mi poggiò qualcosa di morbido e richiuse le mie dita.
Quasi mi bisbigliò: «lo metta in tasca».
Per la prima volta ascoltai la sua voce: un suono lieve, soave, carico di sensualità. Era una musica celestiale per le mie orecchie, tutto in lei era perfetto! Immediatamente infilai ciò che mi aveva dato e mentre lo stringevo per porlo nella tasca della giacca lo toccai: era setoso, morbido e umido.
Lei non si volse più verso di me fino alla fine della conferenza. L’oratore ci ringraziò per l’attenzione (la mia non di sicuro, avevo finito di ascoltare appena lei si era seduta accanto a me!) e ci congedò dandoci appuntamento dopo pranzo.
Mi alzai e mentre cercavo di attaccare bottone con la mia vicina mi sentì chiamare. Mi voltai e vidi due colleghi che provenivano da sedi satelliti della mia azienda.
Passai il resto della giornata fino all’ora di pranzo con persone con le quali ebbi modo di scambiare impressioni, consigli, opinioni.
Mi ritrovai in camera per una rinfrescatina prima di pranzo e distrattamente infilai la mano nella tasca della giacca. Tirai fuori un pezzetto di seta viola e morbida, quasi impalpabile. Lo aprì: era un perizoma. Me ne ero completamente scordato! Immediatamente lo portai al naso e lo aspirai come se fosse l’ultima boccata di ossigeno che si può tirare prima di immergersi negli abissi più profondi. Era un afrore particolare, molto gradevole, forte, estremamente vitale, sensuale e delicato al contempo. Annusai ancora e immaginai di farlo direttamente alla fonte che l’aveva originato. Avevo un’erezione prepotente, quasi dolorosa. Mi imposi di rilassarmi e dopo una un passaggio in bagno, toccandomi l’uccello senza pensare a lei (fu uno sforzo sovraumano non farmi una sega con quel perizoma avvolto sul mio cazzo), uscì dalla stanza e mi avviai verso la sala da pranzo.
I posti ai tavoli erano assegnati in base all’importanza che ogni componente ricopriva nella propria azienda. Mi ritrovai con vari colleghi e per fortuna anche lei era al mio tavolo. Pensai immediatamente che fosse un alto dirigente. Sfortunatamente lei non era accanto a me. Ma conoscevo tutti sia di persona sia tramite le varie conference-call che puntualmente si facevano.
«Scusami, Giulio, saresti tanto gentile da spostarti al mio posto in modo che possa discutere di un vecchio progetto con…» dissi rivolgendomi ad un mio collega che conoscevo da anni.
«Daniela, » rispose prontamente lei.
«Sì, Daniela, scusami sono talmente abituato a chiamarti per cognome» dissi facendo finta di conoscerla in modo da spostarmi accanto a lei.
Mi misi quindi al posto di Giulio. Ci scambiammo un’occhiata di fuoco.
«Allora…»
«Pietro» dissi io.
«Certo, Pietro, scusa. Come vanno le cose in azienda?».
Continuammo a parlare del più e del meno senza che i nostri discorsi avessero un vero fondamento. Ci guardavamo intensamente e lei ogni tanto si lisciava le belle gambe. Mi stava facendo impazzire, letteralmente! Lavorava per una grande azienda proprio qui a Milano e quindi non risiedeva in albergo. La sua timidezza e il suo comportamento, i suoi modi di fare sempre posati e l’aria raffinata e sexy mi avevano fatto subito intuire il desiderio che ardeva dentro di lei, la voglia di trasgredire, di provare sensazioni nuove, che scatenano lussuria e libido.
Si intuiva il bel corpo, e dicevo tra me e me: sai cosa le starebbe bene addosso? Me!! Quanto vorrei scoprilo. Il mio corpo aveva un fortissimo desiderio del suo, volevo sentire la sua pelle liscia, calda, morbida e profumata di desiderio. Avrei voluto baciare, leccare, succhiare ogni centimetro della sua pelle. Lasciare su di lei il calore della mia bocca e della mia lingua, leccarla dal buco del culo fino al clitoride e poi in senso contrario e poi ancora e ancora. Volevo che potesse sentire la mia bocca. Magari poter succhiarle un lobo dell’orecchio e sentire il suo clitoride indurirsi e chiedere soltanto di essere succhiato e leccato da me. La sua schiena, il suo seno, la sua bocca mi stavano facendo impazzire!
Volevo baciare i suoi piedi, leccare piano piano le sue gambe, sfiorare il suo ombelico, guardare i suoi occhi e baciare il seno, scendere per sentire il suo respiro affannarsi. Entrare dentro di lei, farmi ammaliare da quello sguardo pieno di voglia, di desiderio!
Volevo sentire il suo corpo sudato scivolare sopra il mio, la sua pelle profumata così buona da leccare. Volevo che fossimo nella mia stanza, ora, nell’intimità di quattro mura che ci avrebbero ripararto da sguardi indiscreti. Parlammo del più e del meno e ci scoprimmo anche con interessi comuni quali la lettura e la musica classica, lei andava matta per Chopin, in particolare “I Notturni”. Non sono ferrato in tale genere musicale, ma so che tali opere erano nate dall’indole sognante e tipicamente romantica del grande compositore. Perciò tale gusto non poteva che scaturire da un animo gentile e delicato qual era quello di Daniela. Ad un certo punto lei distrattamente fece cadere una posata e prontamente mi fiondai a recuperala da sotto al tavolo. Mi abbassai e mentre la raccoglievo rivolsi immediatamente lo sguardo verso le sue gambe che come i petali di un fiore si stavano aprendo per scoprire il favoloso tesoro in mezzo ad esse. Alcun tipo di stoffa celava quel tesoro: una figa depilata, umida, bagnata era lì esposta ed invitante proprio verso di me! Mi inebriai per un attimo di quel profumo paradisiaco e mi sollevai per non sembrare inopportuno ma sarei rimasto per ore sotto a quel tavolo.
«Mi sa che hai ancora qualcosa di mio…» disse Daniela mentre mi sistemavo sulla sedia con un’erezione spaventosa che, a dir la verità, avevo ormai da quando ci eravamo accomodati al tavolo. «Sì, e, ovvio, ho intenzione di restituirtelo, al più presto, direi» risposi.
«E come faresti? Lo spediresti? Magari potresti lasciarlo alla reception, e ovvio che dovrai restituirmelo come si deve, aguzza l’ingegno. Ti posso dare un indizio: a me piacciono le sorprese diciamo, umide, se mi sono spiegata» mi istigò lei.
«Vedremo, sarà una sorpresa, allora» e mi rivolsi al mio collega che avevo di fronte visto che cercava da un po’ di chiedermi circa un problema che aveva avuto con un progetto.
La cena proseguì tranquillamente ma noi due eravamo in un limbo. Tutto intorno a noi era come sparito. Bevvi un paio di calici di brut e poi sentii il bisogno di andare al bagno.
«Scusate, mi allontano un attimo» dissi rivolgendomi al tavolo e dando uno sguardo di fuoco ad Daniela. Chiesi al personale di servizio della struttura dove fossero i servizi e una gentile hostess mi ci accompagnò spiegandomi che gli stessi erano in uso sia agli uomini che alle donne.
Ascoltai con somma indifferenza la precisazione della pur cortese hostess ed entrai nel bagno per l’impellente necessità di fare la pipì.
La toilette ovviamente era ampia ed io non indugiai oltre approfittando della disponibilità di un wc libero. Entrai, sbottonai i pantaloni e finalmente potei urinare trattenendo a fatica quell’inconscia espressione di sommo piacere che si prova nello scaricare la vescica.
In quel momento sentii un rumore di tacchi, era lei, sicuro, lo sentivo, lo percepivo.
Preciso che non sono abituato a chiudere la porta e stupidamente non lo faccio nemmeno nei servizi pubblici incurante della possibilità che qualcuno possa aprire la porta del wc.
Non lo feci nemmeno in quella circostanza.
Così lei aprì la porta del wc che stavo occupando io.
Mi voltai, continuando a urinare e preparandomi a dire: “E’ occupato”.
La vidi e lei vide me.
Fu un attimo, incrociammo i nostri sguardi e poi lei scusandosi richiuse la porta. Finii di fare la pipì, mi scrollai l’uccello ed uscii dallo stanzino per andarmi a lavare le mani nell’antibagno. Le stavo asciugando in uno di quei marchingegni automatici di ultima generazione nel quale devi infilare le mani per intero dentro quando sentii il rumore dello sciacquone del wc vicino a quello che in precedenza avevo utilizzato io.
Trascorsero alcuni istanti ed eccola venire fuori dal cubicolo.
Lei di fronte a me, intenta a lavarsi le mani.
«Scusami per prima – mi disse – mi spiace averti disturbato. Perdona la mia irruenza ma avevo un gran bisogno del bagno e trovando aperto non ho pensato di bussare».
«Ci mancherebbe – risposi io – anzi scusami tu, la colpa è mia che non chiudo mai quando sono in bagno».
«Davvero? – mi chiese lei quasi stupita – e come mai? Non temi che qualcuno possa entrare come del resto accaduto a me poco fa?».
«Sinceramente no – ribattei io – e poi qual è il problema? Non ho nulla da nascondere e in ogni caso la pipì la faccio spalle alla porta per cui non ci sto a pensare su troppo».
Ridemmo entrambi.
«Sì in effetti per noi femminucce è un po’ differente – riprese – noi ci dobbiamo sedere e poi abbiamo tutta una serie di indumenti da togliere, beh in questo caso uno in meno, almeno io».
«Beh insomma, in fondo si tratta solo di abbassare gonna e mutandine ed il gioco è fatto» la incalzai io.
“Sì, è vero, – replicò lei – ma in questo caso solo la gonna»
Il discorso si stava protraendo più del dovuto e mi pareva che l’argomento fosse volutamente malizioso quindi decisi di proseguire, curioso di vedere fin dove sarebbe arrivato.
“Hai ragione, ma in tal caso sarebbe una piacevole sorpresa e poi ho ancora il tuo perizoma e dovrei restituirtelo” dissi io palesando un certo interesse.
“Scusa? Che cosa sarebbe piacevole?” mi rispose lei.
“Aprire la porta di un bagno e trovarci dentro una donna affascinante come te che, beh…” dissi, osando, forse anche troppo.
“Ma non dire sciocchezze – replicò lei sorridendo – non credo che sia tanto piacevole entrare in un bagno e scoprirlo occupato”.
Capii immediatamente che il gioco era fatto.
Avrebbe tranquillamente potuto mandarmi a quel paese di fronte alla mia inelegante e malcelata provocazione e invece rimbalzò la palla a me, facendo la finta modesta.
“No, Daniela, ti assicuro che non dico sciocchezze, anzi dico esclusivamente la verità” le spiegai io.
“Fammi capire quindi: ti piacerebbe entrare in un bagno inconsapevolmente e trovarci dentro una donna che fa la pipì?” mi chiese lei.
“Sì, se capitasse non mi dispiacerebbe, poi se mi capitasse di trovarci dentro una donna bella come te, ” la stuzzicai io.
Passarono uno, forse due secondi e poi le nostre bocche si unirono. Ci baciammo con foga e trasporto. Una passione inattesa e prorompente.
“Vediamo se dici la verità, vieni con me” disse e con la mano mi trascinò dentro al bagno in cui poco prima aveva urinato.
Entrammo, chiuse la porta a chiave, si voltò, e guardandomi si tirò giù la gonna: “Mi sa che non l’avevo fatta tutta” e poco dopo sentii lo scroscio della sua pipì scendere nel wc.
Il mio uccello divenne immediatamente duro come il marmo, vederla seduta sul water con le sole autoreggenti, Lei mi guardava fisso negli occhi e pisciava di fronte a me, come una vacca vestita da signora. “E tu? Sei sicuro di averla fatta tutta prima?” mi disse iniziando a guardare sfacciatamente il mio pacco. “Forse no, hai ragione, sento l’impulso di farne ancora un poco” replicai.
“Allora che aspetti dai, liberalo e svuotalo per bene”
Mi stava provocando e io non indugiai oltre.
Aprii la patta dei miei pantaloni ed estrassi il mio cazzo duro come il marmo ad una ventina di centimetri da lei seduta ancora sul wc.
“Mmmmmh ma che bel cazzo hai, aspetta che ora mi alzo e ti aiuto io a fare la pipì” disse mangiandoselo con gli occhi.
E così fece. Si alzò, ricomponendosi e impugnò il mio arnese indirizzando la cappella verso la tazza. Era così duro che non sarei mai riuscito a urinare.
“Mi sa che ora non ce la fa” spiegai.
“Allora forse dobbiamo prima svuotare questi coglioni gonfi e poi liberare la vescica che ne pensi?” e senza attendere risposta si accovacciò sul mio cazzo infilandoselo per intero in bocca. Dalla mia, di bocca, uscii incontrollato un “mmmm” di apprezzamento mentre lei iniziò a muovere la sua testa sul mio uccello fagocitandolo tutto, dalla cappella gonfia fino al base e leccandomi addirittura i testicoli con la lingua mantenendo il mio amichetto tutto dentro alla bocca, infilato nella sua gola. Succhiava come un’idrovora e di quando in quando alzava lo sguardo cercando il mio. Io nel frattempo le misi due mani dietro alla nuca accompagnando ila suo delizioso movimento. Le piaceva succhiarlo, era evidente, e lo faceva con una maestria davvero notevole. Ad un certo punto, probabilmente stanca della posizione, abbassò, la tavoletta del wc e ci si sedette sopra continuando imperterrita a succhiarmi l’anima. Io mi limitavo ad accompagnare le sue infilzate gemendo come un maiale.
Accelerò il ritmo e con il trascorrere dei minuti, iniziai a scoparle la bocca. Le tenevo la testa ferma e con il bacino le infilavo il cazzo per intero in gola, apprezzandolo ed accogliendolo con sommo gaudio nella sua bocca. Sentii arrivare prepotente l’orgasmo e in men che non si dica venni, premendo le mie mani sulla sua nuca, il mio bacino sulla sua bocca con il mio cazzo tutto dentro alla sua bocca.
Bevve tutto, senza tirarsi indietro e solo ad orgasmo finito si staccò lentamente continuando a succhiarmelo fino a quando, perso il vigore precedente, lo lasciò uscire dalla sua bocca.
“Mi sei piaciuto, hai un gusto favoloso, sai di buono” disse leccandosi le labbra come la più consumata delle troie.
“E tu hai una bocca che è un altoforno, mi hai succhiato l’anima” risposi io.
Infilai l’arnese nei calzoni prima che potesse tornare sull’attenti di fronte alla viziosità di quella fascinosa ed eccitante donna che, nel mentre fece altrettanto ricomponendosi un poco. Si alzò e mi baciò, mulinando la lingua con la mia e facendomi sentire il sapore del mio sperma, il gusto del mio cazzo che aveva forte e acre sulle labbra, sul volto.
Si appoggiò a me, la strinsi cingendole i glutei che palpai con immutato desiderio e poi le dissi: “E ora?”.
Mi guardò sicura di sé e sorridendomi rispose: “E ora cosa? Non ti è bastato?”.
Come avrei mai potuto essere sazio di lei? Certo questa sconosciuta femmina mi aveva appena regalato un orgasmo forte, prolungato, soddisfacente ma volevo di più, volevo lei, e glielo dissi senza troppi indugi.
“Daniela, mi hai succhiato il cazzo, ma ancora io non ho succhiato te!”
Fingendo un improvviso stupore si rallegrò della mia confessione e rispose: “E quindi vorresti leccarmi la figa, eh? Magari anche dopo che l’hai vista fare la pipì, E dimmi ti piacerebbe leccarmela proprio dopo che ha urinato, non vorresti pulirmela con la tua lingua e saggiarne il sapore forte e pregnante magari dopo una giornata che non la lavo?”.
Il solo udire quelle lussuriose e provocanti parole ebbi l’ennesima incontrollabile erezione.
“Non potrei chiedere di meglio” le risposi.
“Non correre, Pietro, per ora hai avuto già abbastanza, più avanti vedremo il da farsi. Sono una donna molto impegnata ma come diceva mio nonno: «nella vita tutto è difficile ma niente è impossibile». Intanto perché non mi lasci il tuo numero?”.
Presi dal portafogli un biglietto da visita sul quale c’erano i recapiti oltre che la email e glielo diedi. Lo prese e mi disse: “Perfetto, ora che so come trovarti, perché non torniamo alle nostre faccende?”.
Uscimmo dalla toilette, io per primo, lei un attimo più tardi.
Tornai in sala condizionato da ciò che avevo appena vissuto. Un po’ frastornato, ancora eccitato cercai di seguirla nei suoi successivi movimenti. Uscì dai servizi poco dopo e, come se nulla fosse, tornò a chiacchierare con importanti uomini di una certa età, lasciandosi rapire dai loro discorsi pesanti e, apparentemente, stucchevoli che tuttavia fingeva di seguire con falso interesse. Non so se volutamente o meno, non mi guardò più e non riuscii più ad incrociare il suo sguardo, nemmeno quando, ad un certo punto, la vidi allontanarsi con un collega che avrebbe potuto essere il padre, un uomo all’incirca sui settanta/ottant’anni.
Trascorsi alcuni minuti lasciai anche io la sala di quell’evento e raggiunsi il bar dell’hotel sperando dentro di me di vederla ancora, così come mi scoprii allettato dall’idea di scorgerla per strada. Non la vidi più. La durata della conferenza era prevista di tre giorni ma lei non si presentò più. Di quella straordinaria esperienza, ormai, conservavo esclusivamente un vivo ricordo, ancorché estremamente forte. La sera dell’ultimo giorno ero in camera, seduto di fronte al pc a sistemare gli appunti per la relazione finale in azienda e nell’aprire la posta elettronica per controllare le mail, vidi un messaggio il cui oggetto era: “Allora, ci sei?”.
Aprii la email: era lei.
Un messaggio non troppo lungo, conciso e stringato che recitava letteralmente così:
“Se non ricordo male hai ancora qualcosa che mi appartiene, Sono in ufficio da stamani, ho fatto pipì parecchie volte, non me la sono ancora lavata e aspetto te: perché non vieni a farmi un bidet?” con l’indirizzo della sua azienda. Non c’erano numeri di cellulare, solo un indirizzo nella zona periferica, diciamo industriale della città.
C’era in programma la serata finale della conferenza con cena e poi un party ma ora non avevo assolutamente voglia di nulla se non di lei, provocandomi un forte senso di durezza al basso ventre. Andai in bagno a prepararmi. Feci la doccia con l’uccello in perenne erezione, cercavo addirittura di non toccarlo per evitare di venire. Indossai il mio completo Hugo Boss e cercai il suo perizoma che avevo lasciato nella tasca della giacca. Stavo per uscire quando ripensai alle sue parole: «Dovrai restituirmelo come si deve, aguzza l’ingegno, a me piacciono le sorprese umide». Mi fiondai in bagno, tirai giù la zip del pantalone e incomincia a masturbarmi annusando quel tessuto e poi avvolgendolo intorno alla mia asta dura. Venni quasi subito inzuppandolo della mia crema. Lo avvolsi su sé stesso e tutto umido e così intriso dei miei umori lo misi con delicatezza, quasi fosse una reliquia, nella tasca interna della giacca. Sistemai l’uccello nei boxer ma avevo ancora troppa eccitazione addosso tale da costringermi a sistemarlo in maniera da uscire senza dar troppo nell’occhio. Giù nella hall dell’albergo chiesi al portiere un taxi che arrivò immediatamente. Salito in auto dissi all’autista dove portarmi e un quarto d’ora dopo ero lì. Scesi davanti ad un classico edificio residenziale adibito ad uffici. Lo spiazzo antistante era sgombro d’auto e mi avvicinai alla grande porta a vetri. Suonai ad un citofono ma non ottenni risposta.
Spinsi e la porta si apri. Entrai in una sorta di hall reception molto elegante priva però di personale. Segno evidente che, considerata l’ora, gli impiegati erano ormai andati tutti via.
Una grande scala troneggiava nell’atrio altrimenti sostanzialmente spoglio.
Salii e ad ogni gradino aumentava a dismisura l’eccitazione per quella donna affascinante e autoritaria che mi aveva voluto lì.
Arrivato in cima vidi una serie di porte, verosimilmente uffici. Sembravano tutti deserti. Voltandomi scorsi una luce provenire da una porta in fondo ad un lungo corridoio.
Mi diressi all’indirizzo di quella luce, arrivai alle soglie della porta e bussai.
Silenzio. Bussai ancora senza però ottenere risposta.
Poggiai la mano sulla maniglia e aprendola lentamente la vidi: seduta su di una meravigliosa poltrona di pelle, spalle ad un’ampia finestra, aveva il telefono in mano, probabilmente intenta ad ascoltare uno sconosciuto interlocutore dall’altra parte.
Mi guardò e senza battere ciglio continuò, imperterrita nella sua silenziosa telefonata.
Entrai, chiusi la porta alle mie spalle, abbozzai un cenno di saluto, ma lei fece come se non ci fossi, senza curarsi affatto della mia presenza.
Dopo alcuni minuti, finalmente, replicò al suo ignaro interlocutore: si parlava di commesse, appalti, forniture, aveva un modo di porsi estremamente autoritario.
Io nel mentre mi accomodai in una delle due poltrone di fronte alla sua scrivania. Ad un certo punto di alzò, senza interrompere la telefonata che ormai durava da almeno una decina di minuti dacché ero entrato, e girando intorno alla scrivania arrivò di fronte a me. Rimanendo in piedi, poggiò il culo sulla stessa e continuò la telefonata come se nulla fosse.
Ora potevo ammirarne la mise: gonna grigio topo appena sopra al ginocchio, camicetta in seta bianca con ampia scollatura sul suo splendido seno, mani impeccabili con lunghe e sottili dita e uno smalto rosso da mignotta, gambe affusolate incorniciate da calze appena velate e scarpe lucide con tacco vertiginoso. Parlava e si interrompeva a poco meno di mezzo metro da me.
Aveva iniziato a guardarmi, nonostante la telefonata, come a sfidarmi.
Io la guardavo estasiato senza proferire parola.
Con nonchalance continuava a fare come se non ci fossi ma forte in me era il desiderio di lei che se ne accorse. Avvicinai la poltrona alla scrivania, cercando, ovviamente, di avvicinarmi a lei che, di fatto, non si spostò di un centimetro. Allungai le mani sui suoi fianchi e lei rimase in posizione quasi eretta, con il solo culo poggiato in parte sul bordo della grande scrivania. Le mie dita si fecero audaci e iniziarono a percorrere le dolci e seducenti sinuosità di quel meraviglioso esemplare di femmina.
Ad un certo punto si mosse: sculettò un poco quasi a sistemarsi meglio e continuando a parlare al telefono con una mano abbassò la cerniera posteriore della gonna invitandomi ad approfittare della situazione. Infilai le mani dietro al culo e le palpai con desiderio i sodi glutei sfilandole la gonna che scese immediatamente ai suoi piedi.
Non indossava l’intimo: avevo di fronte la sua figa glabra e liscia se non per un filino di peli al di sopra del clitoride. Ora la vedevo così: in camicetta, la fica all’aria, le autoreggenti e i tacchi.
Era ancora poggiata sul bordo della scrivania e telefonava.
Avvicinai il viso al suo monte di Venere e respirai a pieni polmoni.
Un afrore forte, pungente e celestiale mi riempì le nari.
Il suo sesso sapeva di femmina, di donna e leggermente di urina.
A questo punto indietreggiò un po’ e sedendosi meglio sulla scrivania spalancò le cosce mostrandomi la sua passera in tutta la sua magnificenza.
Era un chiaro ed esplicito invito.
Sapevo bene ciò che voleva.
Non mi feci pregare e in un battibaleno affondai il muso nelle sue carni. Ma mi bloccò la testa e con la mano libera e indicò la sua figa e coprendo il microfono del telefono sussurrando mi disse: “Hai qualcosa per me o no?”. Tirai fuori il suo perizoma ancora umido e pregno della mia sborra e glielo infilai tirandolo su dalle gambe. Lo sistemai per bene sulla figa e diedi anche qualche colpetto sul quel tassello umido. Lei sospirò forte tirando in alto la testa e chiudendo gli occhi.
Alchè tra pollice e indice strinsi il tessuto e lo sollevai per farglielo entrare tra le labbra e strofinarlo sul clitoride. Tiravo a destra e a sinistra e il tessuto si infilava sempre di più tra le sue labbra, Lei emise un gridolino sommesso di piacere,
Spostai da un lato il perizoma ormai fradicio anche dei suoi umori e vi affondai la bocca. Pizzicava, il sapore acre della sua fica mi pizzicava la lingua, ma io come un morto di fame annusavo, leccavo, succhiavo, divoravo quel sesso magnifico che avevo sul volto, dentro alle mie fauci. E lei come se nulla fosse continuava ad ascoltare il suo interlocutore che parlava di commesse, forniture etc etc. La situazione mi stava eccitando all’inverosimile.
Guardai a lungo la sua figa: aveva due piccole labbra grandi quanto i petali di un’orchidea che, scure e grinzose si aprivano quasi a concedermi il piacere di gustarne aroma e sapore. In cima ai grandi petali di quella meravigliosa fica si ergeva un grosso bottone eretto anch’esso circondato dai radi peli di un bosco incantato nel quale mi ero perso, quasi stregato.
La leccai a lungo, senza che lei fece nulla se non concedermi il privilegio di approvvigionarmi alla sua fonte. Le succhiai le labbra, una ad una, insieme, le titillai il clitoride, prendendolo tra le mie labbra e succhiandolo come se fosse un piccolo cazzo cui riservare una fellatio. Scesi sul perineo, le leccai con profonde lappate il culo raggrinzito e liscio e leggermente umido di piacere. Spaziavo su tutti i suoi pertugi con insistenza e dedizione: la penetrai con la lingua, con le dita e la mangiai fino a che non mi sborrò in faccia una notevole quantità di cremina calda e saporita. Venne, trattenendo a stento i gemiti dell’orgasmo senza però mai interrompere la telefonata.
Continuai a leccare fino a quando con la mano libera mi prese con forza dalla nuca allontanandomi da sé. Mi baciò con un intreccio di lingue come se avesse bisogno per respirare,
Si staccò da me e mi indicò la porta con un gesto della mano.
La guardai quasi inebetito.
Ma lei con il palmo della mano rivolto all’uscio mi fece chiaramente capire di uscire. Non senza un poco di rabbia, confuso e stranito, presi l’uscita e me ne andai. Prima di uscire dal suo ufficio mi voltai a guardarla un’ultima volta. Era ancora senza gonna, con il suo magnifico culo all’aria e camminando nel suo enorme ufficio ragionava su numeri e provvigioni.
Percorsi all’inverso la strada fatta un’ora prima e me ne andai.
In auto, con il volto zeppo dei suoi umori e la bocca impastata dei suoi sapori, mi domandai a quale gioco stesse giocando quella femmina perversa.
Arrivai in albergo, i testicoli doloranti lamentavano attenzioni non avute.
Mi masturbai a lungo, come un adolescente, pensando e ripensando a quanto appena vissuto, Arrivato in albergo, ancora scosso, ricevetti un messaggio su Whatsapp. Era lei, «Tra due settimane c’è un convegno a Firenze, ho già prenotato una stanza per noi due. Ricorda che mi piacciono le sorprese».
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