Le cuginette mi fanno femminella

Giovanna Esse
2 months ago
Le cuginette mi fanno femminella

Ecco cosa ha voluto sapere mia moglie Frida ... e che io le ho confidato:

Quando ero solo uno studente, durante il periodo di vacanza, mia madre doveva lavorare ed era impegnata comunemente, tranne che nei pochi giorni del Ferragosto e la Domenica.

Aveva un negozio di tabaccheria e mio padre era sparito da tempo, fuggendo con un'altra, chissà dove nel mondo. Per farmi godere il piacere dell’aria aperta e anche per ricostituire la mia salute di ragazzo di città, mi portava in campagna da sua sorella, che aveva una fattoria grande e funzionale.

Là durante le vacanze davo una mano, ma la fatica non mi pesava, era un piacere occuparmi degli animali e della campagna.

Nei lavori in comune, la campagna, l’aria aperta, favoriscono il piacere del fare: quindi, rendersi utile era più un gioco che un lavoro vero e proprio, una specie di palestra gratuita.

Avevo anche tanto tempo per giocare e spesso facevamo dei Picnic nei luoghi circostanti.

L’unica seccatura era che di ragazzi non ce n’erano, pertanto ero costretto a passare molto tempo con due mie cuginette e con le loro amiche.

Mio zio, un omone simpatico e schietto, che dopo le cinque della sera era già bello e cotto dal vino, che beveva a profusione ma senza ubriacarsi, rideva sotto i baffoni.

Mi chiamava: il beato tra le donne.

La sera, dopo cena, i miei zii crollavano dal sonno e andavano subito a letto; noi ragazzi che non avevamo alcun obbligo di svegliarci prima dell’alba, come loro, potevamo scorrazzare liberamente da una stanza all’altra oppure, nelle sere più calde, nell’aia della fattoria, per andare a guardare le stelle o per inventarci giochi paurosi nel buio notturno.

Una sera che fuori pioveva, mentre per l’ennesima volta, le ragazze giocavano a truccarsi, a confrontarsi, a provarsi le calze della zia o delle sorelle maggiori, mia cugina Valeria si ricordò che esistevo anch’io e prese atto del fatto che mi annoiavo da morire.

Vieni – mi disse, prendendomi la mano e trascinandomi in camera sua, poi continuò:

Facciamo uno scherzo alle ragazze, dai. – disse con complicità e insistette per vestirmi con un suo abito, truccandomi la bocca, grossolanamente con il rossetto. Quindi ritornammo dalle altre e, tirandomi per mano nella camera, lei esordì:

Gentili amiche, solo per voi, direttamente dalla città, la mia nuova, elegantissima amica “Gertrude”! – e poi, rivolgendosi a me: - Vieni, Gertrude, saluta le mie amiche! –

Controvoglia dovetti ammettere che quel gioco stupido mi divertiva.

Tutte ridevano e pure io, mi baciarono le guance, presentandosi una a una: qualcuna mi prendeva in giro per la scarsezza del mio “seno”, qualcuna mi toccò con confidenza giocosa, il sedere, palpandomelo e ammirandone la consistenza.

Mia cugina, per riscattare il suo possesso su di me, mi strizzò i genitali senza vergogna, dicendo tra le risate:

Ma, “Gertrude” mia ... e qui che non ci siamo: devi avere una “farfallina” orrenda! –

E giù a scherzare e sfottere fino all’orario in cui diventò doveroso andare a dormire.

Quel “bel gioco”, però, non durò poco ... al contrario: diventava ogni volta più intrigante.

Aspettavamo sempre più spesso che gli zii si addormentassero, per incontrarci nell’ampia rimessa del trattore.

Il grosso mezzo, d’estate, veniva lasciato all’aperto e lo spazio che restava vuoto, era tutto a nostra disposizione, tranne un angolo, ingombrato dalla vecchia Alfa dello zio, che lui usava raramente. Le ragazze erano curiose riguardo me.

Stando insieme e prendendola a ridere, iniziarono a superare le loro inibizioni nei confronti di un corpo maschile, approfittavano del clima ludico che si era instaurato. Mi svestivano e mi vestivano tutte insieme, con accuratezza sempre maggiore.

In una specie di valigetta, avevano messo da parte tutte le cianfrusaglie poco usate donne più grandi della famiglia. C’era persino una guepière di pizzo bianco, ricordo di nozze e mai più adoperata.

Mi mettevano le calze, agganciandole loro stesse al reggicalze, mi carezzavano i fianchi e le gambe per far aderire bene la seta sulle mie cosce leggermente pelose.

Qualche sera dopo, una delle ragazze, disse che dovevamo organizzare uno spogliarello come quello che aveva visto fare in TV, una notte che aveva spiato suo fratello che guardava una TV privata.

Avevo preso confidenza con quei giochi un po’ spinti e mi eccitavano. Allora, mia cugina Rosa mi vestì di tutto punto, con una gonna nera e una camicetta rossa, attillata.

Mi aveva aiutato a indossare anche l’intimo e nonostante cercasse di far finta di niente, spiava continuamente il mio pene, che abbastanza duro, trasbordava dalle piccolissime mutande bianche di pizzo.

Mia cugina, sempre scherzando, mi disse che stavo talmente bene che l’avevo eccitata e per darmene dimostrazione, si voltò e si abbassò in avanti, alzandosi la gonna e mostrandomi le sue mutandine rosa, vistosamente macchiate di umido all’altezza della sua natura virginale.

A me, ormai, girava la testa e, indossate delle calze nere, mi preparai per lo show.

Qualcuna delle ragazze aveva procurato un piccolo registratore a cassette per creare un sottofondo musicale.

Volevo impormi e chiedere alle ragazze di farsi vedere anche loro da me, ma non ce ne fu bisogno, erano già tutte abbastanza discinte, con pantaloncini o gonne corte e le magliette aderenti sui seni liberi e prorompenti.

Il gioco prese rapidamente forma di una”punizione sexy” e così, quando, dopo una serie di movimenti ritmati, mi ero liberato di tutto, tranne che delle microscopiche mutandine, le ragazze cominciarono a palparmi i glutei e a sollecitarmi, con dei piccoli colpi, le palline che fuoriuscivano dall’elastico laterale.

Qualcuna sussurrò (non si poteva gridare):

Nudo, nudo! – e tutte la seguirono in quella richiesta blasfema.

Fu proprio Rosa che con, gesto solenne, si accostò al mio fianco e, dopo avere intimato il silenzio, mi ordinò di voltarmi.

Ragazze del club della fattoria – esclamò – volete voi vedere il pisello del nostro schiavo? –

Naturalmente, tra lazzi e amenità, la risposta fu sì. Allora sempre mostrando le natiche, lasciate nude dal sottile perizoma bianco, Rosa tirò giù le mie mutandine con gesto teatrale.

Poi, come un domatore in un circo, mi apostrofò:

Presto, schiavetto, mostra il pisello alle gentili signore! –

Era troppo! Il gioco non era più tale ed io mi resi conto della situazione vergognosa in cui mi ero ridotto. La cosa più grave era che, impreparato a tanta umiliazione, il mio coso non era duro, al contrario, giaceva inerme e inutile, adagiato sui coglioni.

Abbassati, schiavo! – m’intimò ancora Rosa ed io, come un verme schiacciato, non seppi contrastarla: ero sicuro che avrei subito un’onta incancellabile davanti a tutte ... e il gioco avrebbe lasciato il posto alla vergogna. Rosa mi fece divaricare le gambe e me lo tirava da sotto, come se mi stesse mungendo.

Sei ragazze, di cui due mie cugine, mi avrebbero potuto prendere in giro per tutta la vita, svergognando il mio modo di essere uomo “al femminile” e raccontandosi, negli androni, la mia impotenza.

Infatti, le ragazze erano deluse, ma non mi svergognarono troppo quella sera: era tardi, c’eravamo spinti troppo oltre e non si poteva gridare.

Nella penombra, mia cugina ebbe il tempo di dire, con una risata:

Vergognati, volevamo vedere un pisello più grosso! E’ un oltraggio per il nostro Club, devi pagare pegno! – Mi fece voltare e poi, trascinandomi verso un tavolaccio da lavoro, fatto di vecchie assi di legno, mi fece mettere chino, col culo proteso.

Molte mani sconosciute, allora, si presero cura di me. Mi fecero passare nuovamente lo scroto e il pene pendulo tra le gambe, poi mi strinsero, in modo che loro, da dietro, vedessero in bella mostra i miei genitali subito sotto il buco del culo.

Poi, mettendosi in circolo, come per un carosello finale, mi passarono a turno dietro le natiche profferte e se la spassarono, sui glutei, sui genitali e persino sull’ano che appariva, roseo, tra la leggera peluria del mio sedere.

Mi schiaffeggiavano sonoramente le chiappe, qualcuna, più cattiva, usava qualche vecchia canna flessibile, trovata sul posto.

Mi colpirono anche le palle, e il glande ... qualcuna mi tirò la pelle del prepuzio.

Un paio di volte, senza rispetto, m’infilarono qualcosa di piccolo ma duro nel sedere, forse uno o due dita, facendomi sobbalzare per la profanazione inattesa. La situazione mi riempì di vergogna, ma anche di piacere ... avevo combattuto a lungo contro il mio carattere debole e la mia remissività oltremodo femminea.

Quella notte scoprii che avevo perso e che arrendermi era meraviglioso.

Infatti, e anche le ragazze se ne accorsero, il mio pene gioiva di quei maltrattamenti e si allungava a vista d’occhio, verso le ginocchia, inturgidendosi... All’improvviso un rumore di ferraglia, appena fuori dalla rimessa, ci fece zittire tutti.

Immediatamente partì il rumoroso “concerto” dei soliti, immancabili, cani.

Le ragazze, come svegliandosi da una “trance” erotica, si riebbero e, spente le candele, si prepararono a svignarsela alla chetichella.

Una alla volta scapparono nel buio, ognuna cercando di raggiungere la propria camera senza farsi notare. Lontano, nella notte, la voce di qualcuno richiamava i cani.

Anche Rosa se la svignò, avvertendomi:

Fai passare dieci minuti e poi torna in casa anche tu, ti lascio la porta socchiusa. - Non mi dispiacque restare da solo; ero ancora nudo, inerme ... così ripensando ai maltrattamenti patiti, mi masturbai rapidamente, stando in piedi e sborrando copiosamente sul pavimento coperto di paglia: lunghi schizzi bianchi partirono, sotto la luce della luna piena.

Il giorno dopo, nell’aia, non riuscii a guardare in faccia nessuna delle mie “aguzzine” della notte precedente, mi vergognavo troppo e il rossore m’infiammava le guance.

Quella sera, passando davanti al garage del trattore, vidi che ai battenti era stata applicata una vecchia catena con tanto di catenaccio.

Per quella stagione, il “club delle ragazze della fattoria”, aveva terminato le attività.

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