Prima esperienza con un uomo: il racconto di un etero
Giravo fra i progetti d’architettura con un certo fastidio.
Lo studio d’architettura per cui lavoravo aveva partecipato a un concorso per realizzare la nuova sede di un’importante azienda locale.
Non avevamo vinto. Ma l’azienda committente aveva in ogni caso organizzato una serata di presentazione, dove mostrava il progetto vincitore e mettevano in mostra gli altri concorrenti.
Avrei preferito evitarmi quest’esposizione dell’umiliazione, ma il mio capo aveva insistito perché presenziassi.
Mentre stavo osservando sconsolato il mio progetto, che detto fra noi era molto meglio di quello del vincitore, sentii chiamare il mio nome.
“Matteo?”
Mi voltai, incrociando il volto familiare di un uomo. Mi sembrava di conoscerlo, ma non riuscivo a metterlo a fuoco.
“Matteo, sei proprio tu. Sono Giuseppe.”
“Giuseppe, ma certo, scusami, non ti riconoscevo con quella barba.”
“Come te la passi? Sono passati quanti anni dall’ultima volta che ci siamo visti?”
“Era appena finito il liceo,” ricordai. Io e Giuseppe eravamo stati compagni di scuola. A quei tempi eravamo grandi amici, ma ci siamo rapidamente persi di vista.
“Già, è davvero un’eternità. E che ci fai qui?”
“Lo studio d’architettura per cui lavoro ha partecipato al concorso. Ho fatto io questo progetto,” dissi, indicando il modellino davanti a noi.
“Sul serio? Non avevo notato il tuo nome. Complimenti, è davvero un progetto bellissimo.”
“Già, ma non abbastanza per vincere.”
“Sì, bisogna ammettere che c’è tanta concorrenza. Ci sono davvero molti progetti di valore.”
“Sei anche tu un architetto? Hai partecipato al concorso?”
“Io? No, no. Lavoro qui. Sono il responsabile della comunicazione.”
“Ah, non sapevo. E forse facevi anche parte del comitato di selezione?” chiesi, quasi con malizia.
“Ahaha, no, io non centro con la scelta. Anzi, a me spiace che quest’edificio sarà abbattuto.”
“È una vecchia scuola, vero?”
“Sì, hai avuto occasione di visitarlo?”
“No, abbiamo solo preso le misure all’esterno.”
“Se vuoi ti faccio fare un giro,” mi propose. “A meno che tu non preferisca restare a guardare gli altri progetti.”
“No, grazie. Ho visto abbastanza. Non sono in vena di spiare la concorrenza oggi.”
Giuseppe mi guidò attraverso le aule. C’erano ancora diversi banchi e sedie. La sua azienda l’aveva acquistata da poco per abbatterla, dopo che la scuola era stata trasferita in un edificio più grande.
“Questo era una delle sale del dormitorio,” spiegò Giuseppe, aprendo una porta. “Abbiamo lasciato ancora tutti i letti.”
“Certo, sarebbe stato divertente se anche al liceo avessimo avuto il dormitorio.” Non potei fare a meno di ridacchiare, mentre lo dicevo.
“Sarebbe stato un casino. Immagina noi ragazzini arrappati tutti in una stanza.”
Tossicchiai leggermente imbarazzato. Tutt’a un tratto mi sentivo a disagio da solo lì con Giuseppe.
“L’immagine di dormire nella stessa stanza adesso ti crea disagio?” mi chiese Giuseppe, dopo un lungo silenzio.
“Cosa? No, no, perché?” esclamai frettolosamente.
“Avevo una cotta per te al liceo, sai?” mi confidò all’improvviso.
“Sì, lo sapevo. Me l’avevo detto Alessia,” ammisi, dopo un attimo, evitando di incrociare il suo sguardo.
Era anche per questo che io e lui ci eravamo persi di vista. Anzi, forse era il motivo principale. Mi creava imbarazzo stare vicino a lui sapendo che cosa provava nei miei confronti.
Sono etero. Lui era un ragazzo.
“Forse a quei tempi mi aveva effettivamente creato un po’ di disagio,” continuai, forse per mettere fine a quel silenzio. “Ero un ragazzino. Sai come siamo a quell’età, no? Dobbiamo ancora dimostrare chi siamo. Le nostre emozioni sono ancora confuse.”
Alzai lo sguardo e incrociai i suoi occhi che mi fissavano con una fastidiosa espressione di chi la sa lunga.
“Eri curioso.”
“Cosa? No, no, assolutamente no.”
“Non era una domanda,” disse, lui avvicinandosi minacciosamente a me.
“Beh, non credo sia molto diverso da farlo con una donna.”
“Vuoi provare? Abbiamo una grande scelta di letti.”
Non sapevo cosa rispondere. Era una domanda così diretta. Giuseppe si portò a pochi centimetri da me e allungò la mano.
Le sue dita mi tastarono i pettorali.
“Sembra che ti tieni in forma.”
Quel complimento mi fece piacere. Forse perché era un altro maschio a farmelo, quindi, sembrava più vero. Non lo so.
La mano di Giuseppe scivolò tra i miei pettorali, giù verso gli addominali. Quindi, mi lambì la vita.
Mi rendevo conto che era una cosa sbagliata. Tuttavia, mi trovai a desiderare che scendesse oltre.
E lui scese. Le sua dita mi accarezzarono la patta. Anche se ostacolati dalla stoffa, non ci volle molto a quei massaggi per farmi gonfiare il cazzo.
“Sembra che ci ho visto giusto. C’è davvero qualcuno di curioso.”
“Forse solo per una volta. In fin dei conti, non vuol dire che sono gay,” mormorai, forse cercando di convincere me.
Giuseppe si staccò dalla mia patta e porta entrambe le mani sulle mi spalle e iniziò a spingermi verso il basso.
“Che cosa fai?” chiesi.
“Non volevi provare una nuova esperienza?”
“Sì, ma pensavo… io sarei stato… hai capito, no?”
“Uhm, err… no.”
“No, è solo che quando eravamo ragazzi tu eri così… gracile, timido.”
“Capisco. Pensavi fossi passivo. Mi spiace deluderti, ma sono attivo. E credevo che tu volessi fare nuove esperienze. Qualche volta può essere bello non essere in controllo,” disse Giuseppe e ancora una volta mi spinse verso il basso.
Stavolta, però, mi ritrovai in ginocchio con la sua patta gonfia di fronte agli occhi.
Quando Giuseppe, però, iniziò a slacciarsi la cintura ebbi un moto di paura e mi tirai in fretta in piedi.
“No, scusami, non posso farlo,” esclamai.
“Tranquillo, non ti preoccupare. Forse devi davvero solo rilassarti e lasciarti guidare da me. Dai, mettiti sul letto.”
La curiosità mi spinse ad adagiarmi sul letto. Giuseppe si sporse su di me. Mi lanciò un’occhiata maliziosa che mi fece arrossire. Distolsi lo sguardo.
“Che cosa fai?” esclamai, vedendo che stava armeggiando con la mia patta.
“Rilassati.” Giuseppe mi abbassò la cerniera e slacciò la cintura.
“Non dovremmo farlo,” mormorai, ma non feci nulla per alzarmi dal materasso. “Non è giusto.”
“Non ti sei mai fatto fare un pompino?”
“Sì, ma tu sei un uomo.”
Giuseppe sorrise e di tutta risposta mi afferrò il cazzo già in erezione. Fui attraversato da un brivido.
“Oh, cazzo,” esclamai a voce strozzata, quando Giuseppe aprii le labbra e la mia cappella svanì nella sua bocca.
La sua lingua ruotò umida attorno al mio glande. Chiusi gli occhi e mi morsi le labbra.
Poi Giuseppe spinse la sua testa verso il basso. Percepii la mia cappella strofinare contro il palato. Sempre più in profondità.
“Oh, merda,” mi sfuggì. Spalancai gli occhi e vidi la mia asta piantata fin nell’elsa nella gola di Giuseppe.
Quindi, prese a far scivolare la mia asta lungo la sua trachea. Sentivo i muscoli della sua gola agitarsi.
“Ah, devo ammettere che quello che si dice è vero,” mormorai. “Gli uomini sono i migliori bocchinari.”
Giuseppe sembrò ridacchiare, soffocato dal mio cazzo. Poi allungò la mano e prese a massaggiarmi le palle.
“Oh, uao, il servizio completo,” mugugnai, lasciando cadere la testa sul cuscino.
Tuttavia, senza avvertimento, all’improvviso, Giuseppe fece scivolare un dito lungo lo scroto, penetrando nella mia fessura delle chiappe.
“Cosa…? Fermo…”
Non ebbi neppure il tempo di muovermi che il suo dito mi sfiorò il buchino. Fui attraversato da un fremito a quel tocco in un punto così inusuale.
Il dito di Giuseppe, umido della sua stessa saliva, mi continuò a stuzzicare il buchino, mentre la sua lingua mi lavorava imperterrita la mia nerchia.
Una parte di me avrebbe voluto togliergli la mano, un’altra era curiosa che osasse di più.
E Giuseppe osò.
Il suo dito prese a spingere contro il mio buchino. Quando, infine, superò la resistenza del mio corpo, sussultai. Nonostante sentissi il fastidio di avere un corpo estraneo all’ingresso del mio culo, percepivo sorprendentemente anche piacere.
Mi sembrò che il mio cazzo divenne ancora più grosso e duro.
Poi tutt’a un tratto, Giuseppe estrasse il suo dito e lasciò che il mio cazzo scivolasse fuori dalle labbra.
“Ti piace?” mi chiese Giuseppe.
Non potei fare a meno di annuire. Volevo che continuasse, che mi facesse venire.
“Ed era solo un dito. Pensa che cosa potresti provare con questo,” disse Giuseppe, mostrandomi il suo cazzo eretto fra le gambe.
Ero completamente in balia dell’eccitazione. Avevo bisogno di rilasciare quella tensione.
“V-va bene…” mormorai.
Giuseppe si infilò le mani nelle tasche.
“Tieni,” disse, lanciandomi qualcosa.
Lo afferrai al volo e quando aprii le dita mi trovai sul palmo un goldone ancora chiuso.
“Che cosa devo farci?”
“Che cosa pensi devi farci? È un preservativo. Devi infilarlo su un cazzo.”
“Ma che senso ha, se sei tu che stai per…”
“Qui non importa chi ha il cazzo, ma chi lo usa. E per la mia minchia.”
“Ma perché devo infilartelo io?”
“Preferisci che ti entro senza? Lo metto per te. Forza, fammi indossare l’armatura.”
Era davvero umiliante. Non avevo mai obbligato una mia ragazza a infilarmi lei il preservativo. Aprii la confezione e tirai fuori il goldone.
Il cazzo di Giuseppe era eretto fra le sue gambe. Mi avvicinai lentamente, stringendo tra le dita quell’anello di latice.
Appoggiai il preservativo sulla sua cappella gonfia, evitando attentamente di non toccargli il cazzo. Mi infastidiva ammetterlo, ma era enorme al confronto della mia.
L’asta dondolava leggermente ogni volta che cercavo di spinger il goldone verso il basso. Ogni volta il preservativo mi scivolava via.
“Se stringi l’asta, forse funziona meglio,” mi suggerì impaziente Giuseppe.
Mi arresi e, infine, le mie dita avvolsero la sua asta. Era dura. E calda. Era una strana sensazione sentire nella propria mano un cazzo che non era il proprio.
L’istinto era di muovere la mano, ma mi trattenni e provai nuovamente a infilare il goldone. Stavolta riuscii ad avvolgere la cappella poi, dopo aver lasciato la prese, lo srotolai fino quasi a due terzi dell’asta.
“Ora preparalo,” mi intimò di nuovo Giuseppe.
“Prepararlo?” ripetei, incerto su cosa intendesse.
“Devi lubrificarlo.”
“Ma non ho niente con me.”
“Usa la saliva.”
“Cosa? No,” esclamai.
“Allora mi sa che te lo devo infilare così, secco e duro.”
Non avevo mai preso un cazzo su per il culo, ma sapevo cosa si provava a cagar fuori uno stronzo particolarmente grosso e duro.
Aprii leggermente le labbra. Inspirai profondamente e mi avvicinai alla cappella, quasi troppo grossa per quella gabbia in latice. Almeno non avrei toccato direttamente la sua pelle.
Aprii ancora di più la bocca e lasciai che l’asta mi scivolasse lentamente sulla lingua.
“Alla fine sembra che sono riuscito a farti prendere il mio cazzo in bocca.”
Aveva ragione. Era come se, senza neppure rendermene conto, un passo alla volta mi avesse spinto in un burrone da cui non riuscivo più a uscire.
“L’hai preparato abbastanza. Ora voltati.”
Mi voltai a quattro zampe, tenendo la testa bassa. Mi sentivo come un cane bastonato. E in un certo senso adesso sarei stato bastonato.
Quando alzai gli occhi, mi trovai di fronte solo la parete bianca del muro. Era tutta una nuova prospettiva.
Normalmente avevo una visione completa. Potevo controllare tutta la stanza. Avevo la vista del corpo nudo della mia ragazza sotto di me.
In quel momento tutto il mio mondo si fermava a un muro. Avrei potuto essere in una stanza vuota. Avrei potuto essere da solo.
Invece, non ero solo.
Giuseppe era dietro di me. Non sapevo cosa stesse facendo. Non sapevo che espressione avesse. Ero alla sua mercé. Avrei potuto voltarmi e guardare, ma mi sarei reso conto di essere ancora più in basso, più indifeso.
Ma soprattutto avrei ammesso a Giuseppe, che ero davvero alla sua mercé, in attesa, quasi curiosa, di quello che avrebbe fatto.
Le sue dita si infilarono nei miei pantaloni e me li tirarono giù. Poi mi afferrarono anche i boxer e mi trovai a pecorina con il culo all’aria.
Sapere di avere i suoi occhi puntati sulle mie chiappe, era come se mi fossi trovato all’improvviso nudo in mezzo a una piazza.
Ero completamente disarmato e il mio istinto era di scappare. Ma di fronte a me c’era solo un muro.
“Ma mi stai sputando addosso?” chiesi, sentendolo scatarrare.
“Quella che hai fra le chiappe non è una figa umida.”
Quindi, la sua cappella mi sfiorò il buchino.
“Aspetta. Fermo. Non me la sento più. È veramente… troppo,” esclamai, raddrizzandomi.
“Rilassati. Infilo solo la punta. Se ti fa male, smettiamo. Va bene?” mi chiese, spingendomi la schiena verso il basso con la mano.
Annuii, ma sapevo che non si sarebbe più fermato. Era come la prima volta al liceo con la mia ragazza di allora. Solo che stavolta ero dalla parte opposta.
Percepii la sua cappella sfiorarmi il buchino. Poi Giuseppe spinse. Stavolta fu diverso dal dito.
“Fa male. È troppo grosso. Non entrerà mai,” esclamai, tentando di allontanarmi.
“Sta giù. Devi solo rilassarti. È appena l’inizio.”
Mi sentii un po’ come una verginella nelle mani di uomo esperto. Mi resi conto che non potevo far altro che fidarmi.
Giuseppe spinse ancora.
Dovetti soffocare un gemito di dolore, quando, infine, la cappella si aprì un varco.
Pensavo sarebbe stato come quando espelli un pezzo di merda particolarmente duro e largo, invece, non potevo fare a meno di sentire il mio corpo invaso.
“Adoro i culi vergini: sono così stretti,” mugugnò Giuseppe, facendomi arrossire.
Avrei preferito aver più tempo per adattarmi a quella mazza piantata dentro di me, ma Giuseppe non mi diede respiro. Mi afferrò per i fianchi e prese subito a muovere il bacino.
Percepivo un misto di dolore e piacere come quando vai a cagare. Tuttavia, non avevo nessun controllo su quello che provavo.
Ero stato abituato farmi guidare dal piacere che percepivo dalla mia asta che scivolava nella figa delle mie ragazze. Ero abituato a darmi il mio ritmo.
Adesso, invece, non avevo nessun controllo sul mio corpo. L’unica cosa che poteva fare era attutire le sue botte.
Sembrava che con ogni colpo volessi farmi volare contro la parete di fronte a me. Sapevo come si sentiva. Quando sei lì dietro, vieni attraversato da onde di onnipotenza.
Quando osservi il corpo di un’altra persona sussultare alla tua esibizione di forza, non puoi fare a meno di sentirti così forte.
Mentre io, lì, in quel istante, mi sentivo inerme.
Giuseppe mi alzava e abbassava il culo. Mi schiacciava la schiena verso il basso. Mi faceva ruotare di lato.
Ero come un bambolotto che veniva posizionato in diverse angolazioni per provare nuove sensazioni e cercare la posizione migliore.
Tuttavia, c’era qualcosa di liberatorio dal non essere al comando.
Giuseppe si muoveva regolare alle mi spalle. La sua asta scivolava dentro e fuori, concedendomi un piacere costante che mi faceva desiderare non finisse mai.
Allo stesso tempo avrei voluto che terminasse il prima possibile. La sua cappella che premeva contro il mio intestino era un’inequivocabile segnale per il mio corpo di doversi liberare.
“Non ce la faccio più,” mormorai.
L’ultima volta che avevo sussurrato quelle parole ero sul punto di godere. Adesso, invece, sentivo solo il mio corpo cedere.
“Devi resistere solo ancora un po’. Ci sono quasi.”
Quelle parole mi fecero sentire un oggetto che serve solo a permettergli di raggiungere uno scopo.
Mi resi conto che, in fin dei conti, anch’io scopavo sempre in quel modo. Scopavo, scopavo, per poter raggiungere il piacere.
Avere il comando significa anche questo: avere un obiettivo da raggiungere. Mi sembrava di essere senza scopo. Il mio piacere era filosoficamente nel tragitto.
O forse il mio scopo era permettergli di raggiungere il suo?
Le sue dita affondarono nella mia carne, mentre percepii la sua asta vibrare dentro di me. Giuseppe gemette sommesso.
Sapevo quello che stava provando. L’avevo provato tante volte anch’io. I suoi gemiti di piacere risvegliavano in me simili sensazioni. Non potevo non provare un tocco di invidia.
Fu solo in quel momento, quando Giuseppe si staccò da me, che mi resi conto che la scopata era davvero terminata.
Avevamo finito di fare sesso, ma ancora io sentivo tutta la tensione in corpo. Il sollievo che provavo dal non avere più un palo piantato nel culo, era un semplice piacere dato dal contrasto con il fastidio di avere qualcosa che premeva contro l’intestino.
“Allora? Ti è piaciuta la tua prima volta?” mi chiese Giuseppe, tirandosi via il preservativo pieno del suo seme bianco e denso.
Non volli rispondere. Con il mio cazzo in tiro non potevo, però, nascondere mi fosse piaciuto. Eppure quel piacere costante mi aveva esaurito senza portarmi alla completa liberazione che invece si era preso Giuseppe.
Mi voltai a guardarlo. Giuseppe mi sorrideva ebete. Il cazzo gli penzolava esausto fra le gambe. Era dritto sulle ginocchia. Il petto si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro ancora pesante.
Sembrava un corridore che aveva appena superato il traguardo. In un certo senso mi irritava quella suo portamento da vincitore.
Ma non potevo fare a meno di togliermi dalla mente che era davvero lui il vincitore. Del resto io era ancora piegato in basso, mentre lui mi fissava soddisfatto dall’alto del suo podio.
“Per fortuna che non è passato nessuno,” commentò Giuseppe, scendendo dal letto e iniziando a infilarsi mutande e pantaloni. “Questi letti scricchiolano da far paura. Rischiavamo di essere beccati. Non che abbia nulla da nascondere io.” Giuseppe mi fece l’occhiolino.
Strinsi i pugni. Aveva ragione. Ero io quello che si era fatto inculare. Ma in quel momento non riuscivo a preoccuparmene.
Ero ancora eccitato. Vergognosamente eccitato. Avevo il cazzo in tiro. Avrei voluto segarmi. Ma ancora non osavo toccarmi.
Che cosa si faceva in questi casi?
Se mi fossi toccato, avrebbe potuto essere interpretato come un’ammissione che mi era piaciuto. Certo, mi era piaciuto, ma adesso non volevo ammetterlo. A me o a Giuseppe.
“Che fai? Non vuoi occuparti di quella roba? Non vorrai mica andare in giro con il cazzo in tiro,” esclamò Giuseppe, indicando le mie parti basse.
“Non so se… segarmi… così davanti a qualcun altro…”
“Non potrà essere peggio di sentire qualcuno godere nel tuo culo,” ridacchiò Giuseppe.
Avrei voluto replicare, ma ero troppo arrapato. Mi afferrai l’asta e presi a muovere la mano su e giù. Su e giù.
Gemetti, mentre la mia asta scattò, lanciando getti di liquido bianco e denso fin sulla mia pancia.
Mi accasciai contro il cuscino all’improvviso esausto. Mi sembrava una confessione che quello che avevo fatto io prima non era sesso. Giuseppe avevo scopato, era venuto, mentre io?
Essere venuto segandomi sembrava confermare che un uomo per godere veramente può solo usare il suo cazzo. Quindi, quello che avevo fatto prima era solo un favore a Giuseppe? Era sbagliato?
“Tieni. Datti una pulita,” esclamò Giuseppe, gettandomi dei fazzoletti.
Che macello, pensai, osservando tutta la mia sborra sparsa sulla mia pancia. Lanciai al preservativo carico di sborra di Giuseppe con una certa invidia. Adesso lui era già tutto ordinato e pulito.
Raccolsi con i fazzoletti la sborra dalla mia pancia e mi rivestii.
Giuseppe uscì dalla sala con sicurezza, mentre io sbirciai fuori a disagio, quasi temendo che ci fosse qualcuno appostato che era rimasto ad origliare tutto il tempo e adesso volevo dare un volto alle voci.
“Ehi, Giuseppe, ma dov’eri finito?” esclamò una donna, quando ci avvicinammo al banco del buffet.
“Già, infatti, pensavamo che te la fossi già svignata,” aggiunse un uomo lì a fianco.
“Ho voluto mostrare a un vecchio amico l’edificio,” replicò Giuseppe, indicandomi. “Giuseppe ti presento Lucia, responsabile dell’ufficio finanze, e Luigi, un mio collega della produzione. Lui è Matteo, un mio ex compagno di liceo, nonché uno dei progettisti che hanno concorso.”
“Ah, davvero? Qual è?” mi chiese Lucia.
“Venite ve lo faccio vedere,” rispose Giuseppe, invitando con un cenno della mano i suoi colleghi a seguirlo.
Avevo come la sensazione che Giuseppe mi stesse trattando come la sua timida ragazza. O forse ero semplicemente io che di fianco a lui mi sentivo castrato.
Prima aveva sembra avuto lui le redini. Adesso mi sembrava di non essere più in grado di prendere il controllo. Lasciavo che guidasse lui la conversazione.
Quando poi Luigi mi lanciò un paio di occhiate sbilenche. Mi venne un sospetto.
Solo in quel momento realizzai che sicuramente i suoi colleghi sapevo della sua omosessualità. Tutt’a un tratto mi sembrò che ce l’avessi scritto in fronte che mi ero appena fatto inculare. Fui come preso dal panico.
“Scusatemi, mi sono appena ricordato che avevo un appuntamento,” esclamai all’improvviso.
“Dai, non puoi lasciarci adesso. La festa è appena iniziata,” commentò Lucia.
“Devo davvero andare. Scusatemi.”
“Tranquilla, in fin dei conti non hai vinto,” disse Giuseppe, facendomi l’occhiolino.
Non potei fare a meno di chiedermi a cosa si riferiva veramente. Ci salutammo velocemente e mi dileguai.
Io e Giuseppe non ci vedemmo più. Non sono più stato con un uomo.
Tuttavia, adesso ho una nuova ragazza. Per scherzo le ho regalato un dildo. Lei non lo usa mai. Qualche volta, però, io lo prendo di nascosto. Quando dorme profondamente, lo lubrifico bene e immagino Giuseppe.
Non è la stessa cosa. Ma per quel che mi riguarda, mi basta.
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