una coppia moderna

Capitolo 1 - Quello che le donne non dicono...

metzenbaum
3 days ago

capitolo uno

quello che le donne non dicono...

“sai come ho cominciato a capirlo, io?” mi aveva detto il mio amico Luca una sera mentre ci facevamo un paio di birre al bar dopo il lavoro.

“da come era diventata felice… quello è stato il segnale! era diventata felice, così!” e aveva schioccato le dita.

non l’avevo neanche ascoltato, Luca non era proprio quello che si dice un maestro di vita, e invece…

“era sempre incazzata, nervosa… poi è cambiata” aveva detto ancora, “è tornata quella di prima senza che io avessi fatto niente, da lì l’ho capito che aveva un’altro!”

già, era diventata felice.

anche Gioia era improvvisamente diventata felice, e quello secondo il Luca-pensiero poteva tranquillamente essere classificato come “il segnale” che qualcosa stava andando storto, almeno per me.

Gioia ed io eravamo reduci da un periodo complicato, che era durato da inizio anno fino a un paio di settimane prima quando tutto sembrava essersi “tranquillizzato”, la sera a cena parlavamo normalmente e non a monosillabi, passavamo la serata insieme a guardare la tv, a letto ogni due o tre giorni “consumavamo” come ai vecchi tempi, la colazione del mattino era tornata ad essere gioiosa e anche… complice, quello dipendeva da come era andato il dopocena, insomma, tutto come deve essere in una famiglia.

senza che questo cambiamento fosse imputabile a qualcosa o a qualcuno. 

erano stati mesi complicati quasi solo per colpa mia, il lavoro mi aveva portato a fare orari sballati per coprire pazienti che erano stati prenotati nell’altro studio della città che aveva chiuso senza preavvisi, frizioni con la mia famiglia che non la piantava di rompere i coglioni sull’eredità della nonna ancora da discutere, la causa che avevo avviato ormai due anni prima contro i nostri ex vicini di casa e che sembrava essere sempre arenata in tribunale, e la piscina che continuava a riempirsi di alghe verdastre che non riuscivo a debellare!

anche lei aveva i suoi problemi, come chiunque, il suo lavoro a scuola come assistente part-time, i suoi genitori che anche da centinaia di chilometri di distanza non la smettevano di intromettersi nella sua vita…

e non per ultimo nostra figlia Sara, che aveva deciso di trasferirsi dal suo ragazzo in un’altra città per lavorare insieme a lui nell’azienda di famiglia, lasciando casa a diciannove anni appena compiuti e fresca di diploma.

tutte cose che ci avevano destabilizzato, rompendo gli equilibri.

erano i primi giorni di luglio, faceva caldo.

un venerdì mattina a colazione Gioia mi disse che quella sera sarebbe uscita con le amiche.

il programma era cena fuori e poi da qualche parte a fare baldoria, e visto che comunque tornavo dopo le sette non ci saremmo incrociati, quindi mi salutava e ci saremmo visti la mattina successiva.

mi aveva messo le mani sulle spalle e dopo avermi baciato il collo aveva sussurrato “e guarda che tornerò tardi… non aspettarmi sveglio, ok?”

eravamo molto… intimi quella mattina, perché la sera prima avevamo fatto l’amore in modo sublime.

ma non solo, perché per ricompensarmi dell’impegno profuso a letto quella stessa mattina Gioia mi aveva gratificato con un gran pompino ed io l’avevo fatta venire due volte, la prima con le dita e la seconda con la lingua, lasciandola senza fiato.

“ok…” le avevo risposto, e mi ero preso il suo bacio sulle labbra.

che altro potevo dire? il venerdì era il suo “giorno libero” da sempre, anche quando Sara era piccola.

parlammo normalmente, come tutte le mattine, poi le arrivò una chiamata e andò a rispondere spostandosi in soggiorno, rise e ricordo che disse “ci ho pensato, e vengo anch’io” cominciando a sussurrare qualcosa per non farsi sentire da me e a dire “sì, sono sicura!” diverse volte: non ci feci caso, ma quando la vidi uscire in giardino allora mi insospettii, non avevamo niente da nascondere, perché si era isolata per non farmi sentire?

mi alzai e andai vicino alla porta che dava sul giardino, sentii poco o nulla ma una cosa che capii bene fu “ci vediamo all’Hollywood Palace stasera alle sette” e fin qui niente di che, ma la seconda parte della frase mi lasciò a bocca aperta.

“no, no, scherzi? mi faccio venire a prendere a casa da Liz, poi ci vediamo là” disse a voce bassa, “non voglio correre rischi che lui mi veda”.

fu come ricevere una secchiata d’acqua gelata sulla faccia.

che rischio c’era se la vedevo? con chi si vedeva?

sentii che salutava e che dava l’appuntamento alle sette, e metteva giù.

come un fulmine mi rimisi a tavola e mi feci trovare seduto, la accolsi con un sorriso e finimmo di mangiare insieme, poi ci alzammo e ci preparammo per le nostre cose, e quando fui pronto la salutai con un bacio sulle labbra, un abbraccio, e infine uscii.

inutile dire che quel giorno non riuscii a pensare ad altro, per fortuna non avevo interventi difficili ma solo un paio di impianti e poco altro perché il grosso del lavoro era ormai finito e anche perché la gente in estate va dal dentista solo per le emergenze, il soldi li investe nelle vacanze…

Gioia mi mandò un paio di messaggi su cosa volessi per cena ma le risposi che mi sarei arrangiato con un’insalata o qualche cosa del genere, e poco dopo mi mandò alcune foto di suoi vestiti chiedendomi quale le consigliavo.

erano tutti… mini abiti, stretti e aderenti, di quelli che portano le ragazzine, molto ma molto corti e scollati, forse non proprio adattissimi ad una donna di quarantuno anni, bella e tonica per carità, ma…

le consigliai quello blu elettrico, lucido, lo indossò e mi mandò una foto alla quale risposi con il pollice in su e i cuoricini, non sapendo che quella foto e ancora di più quell’abito avrebbero cominciato a popolare i miei incubi da quel giorno in avanti.

guardavo la foto e guardavo a quanto era bella Gioia, con il nuovo taglio di capelli, biondo e corto, sembrava ancora più bella e più pazza.

un bel seno pieno, culo da donna entrata negli “anta”, pancia piatta per merito di un'alimentazione sempre curata e delle ore di palestra che passava nel nostro seminterrato attrezzato, gambe snelle e lisce, cosce tornite e un viso da eterna bambina, con qualche lentiggine sul naso.

continuai a cercare altre sue foto e ne trovai a decine, le guardai una dopo l’altra e mi distrassi.

“dottore?”

quanto era bella, l’anno prima al mare in Sardegna…

“dottore?”

con quei segni dell’abbronzatura che poi la sera…

“dottore!”

trasalii.

“siamo pronti… aspettiamo lei…” mi disse l’assistente già bardata con guanti e mascherina, pronta per bardare anche me.

feci quello che dovevo fare con la massima cura e la massima professionalità, ma la mente era altrove.

quel “non voglio correre rischi che lui mi veda” mi girava in testa, e non riuscivo a scacciarlo: poteva voler dire tutto e in contrario di tutto, ma… c’era qualcosa che non riuscivo a mandare giù.

il lavoro mi travolse, arrivarono due urgenze e dovetti necessariamente concentrarmi su quelle e in un attimo fu sera.

le due assistenti finirono di pulire le sale e le prepararono per la riapertura del lunedì, firmai le cartelle, spedii gli ordini di reintegro materiale, e alle sei e venti eravamo pronti per andarcene quando arrivò Thomas, uno degli associati.

“Mauro, ci sei ancora!” mi disse, trafelato, “ti lascio le chiavi dell’auto, ho qui sotto mia moglie che mi è venuta a prendere così lunedì mattina vengo direttamente qui, ok?”

“ok…” le risposi prendendo le chiavi, evitai di fare domande e lo guardai scappare via come un fulmine, scambiai un’occhiata con Roberta, una delle assistenti di sala di quel giorno che alzò le spalle, poi ce ne andammo.

e tornò quel pensiero insistente.

e quel nome, Hollywood Palace: presi il telefono e mi bastò digitare il nome perché potessi vedere che diavolo era quel posto, “il locale dell’eccesso”, così diceva il sito ufficiale.

si beveva, si ballava, si facevano un sacco di altre cose, ma il venerdì sera era la serata dedicata all’eccesso e alla trasgressione.

sospirai.

conoscevo quel genere di posto, di solito ci si andava per divertirsi e per vedere più che per fare, o così volevo convincermi: Gioia non era quel tipo di donna, non lo era mai stata, quindi di che dovevo preoccuparmi?

e perché allora avevo questo tarlo nel cervello?

avevo in mano le chiavi dell’auto dello studio, quella che Thomas usava per spostarsi in tutta la provincia per le consulenze, un’anonima Renault Capture bianca.

e lì a fianco c’era la mia SL dell’84, rossa con le cromature appena rifatte, riconoscibilissima.

Capture bianca anonima, Mercedes riconoscibile.

ma cosa stai pensando?

vuoi seguire tua moglie?

vuoi seguirla e vedere dove va?”

“non voglio correre rischi che lui mi veda”

tirai un’imprecazione e saltai sulla Capture, impostai come destinazione Hollywood Palace sul navigatore e mi lasciai guidare, lentamente, con il cuore in gola che ad ogni chilometro sembrava andare ancora più veloce.

il posto era fuori città, molto fuori città, e scoprire che era in una località isolata non mi fece stare meglio perché pensai che fosse… perfetto per nascondere… quello che c’era da nascondere.

c’era la coda per arrivare, mi misi lì buono e paziente e venti minuti dopo ero nel parcheggio, con vista privilegiata sull’ingresso.

c’era un sacco di gente, coppie, gruppi, singoli, donne bellissime e anche brutte, gruppetti di ragazzini appena maggiorenni e pieni di testosterone che sognavano l’avventura di una vita, c’erano “quelli con i soldi” e quelli che fanno finta di averli, c’erano quelli già abbondantemente fatti e quelli che forse sarebbero usciti in quelle stesse condizioni, e poi c’erano quelli che guardavano, che guardavano e basta.

nei quaranta minuti che restai a fare il guardone non la vidi, e oltre ad annoiarmi cominciai anche ad innervosirmi: ma perché ero lì? che cavolo mi era saltato in testa?

seguire mia moglie, vedere dove andava, vedere con chi andava…

mi fidavo di lei, il tempo delle nostre rispettive scappatelle era finito da tempo, ci eravamo quasi separati, poi riavvicinati, perdonati e capiti, e quindi?

ero pronto a tornare a casa, mettermi sotto la doccia e dimenticare tutto, ma c’era quella frase che mi girava in testa, “non voglio correre rischi che lui mi veda”: come diavolo facevo a dimenticare una cosa del genere?

guardai l’orologio, erano le venti e dieci, avevo fame ed ero stanco.

non so il perché ma fissai le venti e venti come orario limite, poi sarei tornato a casa.

ancora dieci minuti.

ne passarono sei, e il mio mondo si stavolse.

vidi i fari di un’auto nello specchietto, c’era ancora il sole in quella sera di luglio, i fari mi passarono accanto e vidi che era una BMW berlina, nera e lucidissima, si fermò davanti all’ingresso per far scendere qualcuno e…

apnea.

era Gioia, insieme ad un uomo.

erano a circa venti metri da me, non potevo sbagliarmi, né confondermi: era proprio lei, vestito blu elettrico strettissimo e cortissimo, lo stesso che… le avevo consigliato io, scarpe con il tacco altissimo e pochette Chanel regalo di compleanno di pochi mesi prima, a febbraio.

l’uomo la cinse per la vita stringendola a sé, ridevano, poi si girarono verso l’auto e vidi scendere un’altra donna, bellissima ed elegantissima, che si unì a loro.

Gioia disse qualcosa, poi si girò verso l’uomo e lo baciò.

era il mio mondo che crollava.

eccola lì, mia moglie, che mi tradiva.

la guardai baciarlo con passione, con lui che la stringeva e che le palpava il culo.

era lei che baciava lui, non il contrario, la passione la stava dimostrando lei, non lui… era lei che lo cercava, e infatti dopo aver fatto qualche passo la vidi fermarlo, tirarlo per un braccio e incollarsi di nuovo alla sua bocca mentre lui la toccava dappertutto, la vidi piegare la testa e farsi baciare il collo e anche il seno, ma non era ancora finita perché l’uomo le passò dietro, le spinse il pacco sulle chiappe e vidi mia moglie che sculettava, quasi lo volesse attizzare e sentire ancora di più, lui le mise una mano sul seno e glielo sollevò, poi la fece girare e la baciò ancora con passione, il tutto sotto lo sguardo dell’altra donna.

ero… paralizzato dallo shock.

sudavo copiosamente, con le mani che stringevano così forte il volante da farmi male.

si fermarono all’ingresso e dopo qualche istante furono raggiunti da un’altro uomo che abbracciò l’altra donna e finalmente tutti insieme entrarono.

e quando scomparvero cominciai a diventare furioso.

l’istinto era quello di entrare e fare una strage, ma sapevo bene che sarebbe stata solo una perdita di tempo anche presentarsi all’ingresso.

e sapevo anche che non avrei mai fatto niente.

e cominciai a fare i pensieri più disparati, i più folli.

a cominciare dalla gestione di quella cosa, sul come avrei fatto a dirle che l’avevo vista, non volevo che capisse che l’avevo seguita ma… non mi importava, gliel’avrei anche detto per quello che me ne fregava di lei.

mi chiesi chi fossero gli altri tre, se erano amici di vecchia data…

e lo sapevo perché mi facevo quella domanda degli amici di vecchia data, per avere un… un salvagente, per avere qualche appiglio che mi potesse dare la speranza che fosse tutto un equivoco, che quello non era un bacio, era un gesto d’affetto.

sì, come se palpare il culo alla moglie di un altro fosse un gesto d’affetto…

cominciai a sragionare, mi venne l’istinto di tornare a casa e mettere tutte le sue cose in sacchi neri facendoglieli trovare di fuori, sul marciapiede, quella sì che sarebbe stata una bella sorpresa al suo ritorno…

ma erano solo cazzate.

sempre sragionando pensai di chiamarla, e dirle che ero fuori nel parcheggio e che l’avevo vista, ma erano tutte cazzate.

e l’altra domanda che mi feci, forse la più terribile, fu “da quanto tempo?”

come avevo fatto ad essere così cieco? come aveva potuto farmela da sotto il naso? come aveva potuto farmi credere che… le amiche… le ragazze della scuola… quelle della palestra… erano tutte balle? tutte balle per uscire e… tradirmi?

non ero più lucido, mi accasciai sul sedile e cercai di respirare regolarmente, nell’abitacolo faceva un caldo terribile e quando accesi l’auto senza badare che avevo i fari accesi questi illuminarono mezzo parcheggio prima che riuscissi a spegnerli…

bravo idiota, vuoi che ti becchi?

spinsi il climatizzatore a palla per asciugarmi di dosso il sudore, ero madido e non me n’ero nemmeno accorto, il colletto della camicia era imbibito di sudore, e solo quando lo allentai mi resi conto che avevo ancora la cravatta, annodata stretta…

la strappai via quasi mi fossi appena reso conto che era quella la vera e unica causa di tutti i miei problemi, sciolsi il nodo e la guardai nella luce fioca del quadro dell’auto, “E. Marinella Piazza Vittoria Napoli”, seta azzurra, fattura artigianale, un suo regalo.

la gettai sul sedile di destra e restai ad occhi chiusi a cercare di calmare i battiti del mio cuore, ovviamente senza riuscirci, la mente vagò libera verso scenari di guerriglia urbana, vidi piatti che volavano e sedie rovesciate, vidi interi guardaroba svuotati per terra e collezioni di borse e borsette fatte a pezzi con le forbici del giardino, ma vidi anche la donna che amavo che se ne andava lasciandomi solo portando via con sé più di vent’anni di vita.

la nostra bella casa… il nostro bel giardino curato, la piscina, le feste con gli amici di Sara, le grigliate con i soci del tennis, le domeniche mattina a letto fino a tardi, le sere invernali davanti al caminetto con i piedi nudi, le vacanze in Sardegna, le settimane bianche a Cortina e St. Moritz e Zermatt, le cene romantiche solo noi due ma anche i toast presi al chiosco fuori dal cinema, le patatine fritte del McDonald’s così salate che ti facevano male le labbra, il gelato in centro che sbagliavamo sempre i gusti, il bagno insieme nella vasca a idromassaggio con le luci basse, il profumo di lavanda e il suo corpo caldo contro di me.

…tutto gettato nel cesso.

mi aveva tradito, ancora una volta.

questa volta non l’avrei perdonata, questa volta era davvero… finita.

ma ero davvero pronto a farlo?

la risposta era no, decisamente no. come avrei fatto senza di lei, senza la sua presenza, senza quella biondina pazza scatenata che era in grado di cambiarmi la giornata con un sorriso?

sì, la stessa biondina che avevo visto baciare un altro pochi minuti prima.

e tenendo gli occhi chiusi cominciai a pensare agli scenari peggiori, avvocati, separazione e poi il divorzio, gli alimenti, la casa che inevitabilmente avremmo venduto, 

e c’era Sara.

così legata alla mamma, come l’avrebbe presa? proprio adesso che stava cominciando a vivere la sua vita da donna, sarebbe stata sconvolta…

e i nostri genitori? e i miei parenti, la mia separazione sarebbe stata un trionfo per loro…

e gli amici?

e il lavoro? le mille domande dei ragazzi, le parole dette dietro la schiena…

già, il lavoro: chi ci sarebbe stato ad accogliermi a casa con un abbraccio e un sorriso quando tornavo stanco dopo una giornata passata in sala operatoria o in ambulatorio?

chi mi avrebbe preparato la cena, viziandomi come un principe, chi mi avrebbe fatto ridere, chi per farmi pulire la cucina mi avrebbe più detto “se ti occupi della tavola stasera, io mi occuperò del letto…”

nessuno.

in quei momenti passati ad angosciarmi mi vidi tornare solo, in una casa fredda e buia e vuota, a mangiare un piatto scaldato nel microonde con la bottiglia di cognac davanti per dimenticarmi di tutto…

misi le mani sulla faccia e dovetti trattenere le lacrime.

aspettai ancora facendomi del male, sapendo che se l’avessi rivista sarebbe stato peggio ma sapendo anche che la volevo vedere, che ero lì per vederla e per sapere con chi andava, chi baciava, chi abbracciava.

le sue labbra, le sue mani e la sua pelle che venivano toccate da un’altro uomo, che la stringevano e la baciavano, e lei che toccava lui, che lo baciava, che…

dovetti fermarmi, non avrei resistito, il dolore ma anche la gelosia assurda che sentivo mi stavano portando alla pazzia.

arrivarono le nove, poi le dieci, le undici, le undici e mezza.

ero immobile dentro l’abitacolo angusto della Renault, con lo stomaco serrato da una morsa e le tempie che pulsavano quando li vidi uscire.

e se quello che avevo visto prima era stata una mazzata colossale, quello che vidi poi fu devastante.

Gioia uscì per prima e teneva per mano un uomo, ma non quello di prima, l’altro!

appena scese le scale lo tirò a sé e mentre… faticavo a credere che quello che vedevo fosse vero la vidi baciare anche questo, saltandogli addosso, la vidi offrirgli il collo e il petto con lui che la baciava e la toccava, la palpava, sollevandole il vestito per strizzarle le chiappe prima che con un balzo Gioia si allontanasse e si ricoprisse.

“no” sussurrai, “oh dio, no… non è vero…”

ma quella che si stava delineando come la serata più terribile della mia vita non era finita così: uscì anche l’altro uomo, solo, poi seguito dall’altra ragazza, lo vidi raggiungere Gioia che era ancora appiccicata all’altro, la fece separare e… la baciò, sempre profondamente, sempre toccandola dappertutto.

e vidi mia moglie baciare prima uno e poi l’altro, alternandosi, li vidi toccarla entrambi e sollevarle il vestito per entrarle sotto con le mani senza che lei li fermasse, li vidi toccarle il seno tutti e due insieme mentre lei baciava prima uno e poi l’altro, e come… ciliegina finale la vidi accarezzare il pacco a uno e poi anche all’altro che gliel’aveva messo davanti come se fosse geloso per poi spingerli via entrambi, mettersi le mani sotto il vestito e levarsi le mutandine facendole roteare in aria mentre i due uomini le volavano ancora addosso ricominciando a toccarla.

quel siparietto andò avanti non so quanto, istanti, minuti: vidi mia moglie baciata e toccata ed esplorata nella sua intimità, la vidi mentre toccava gli altri due uomini tra le gambe per farlo diventare duro ad entrambi, poi finalmente la fortuna volle che arrivarono altre persone e Gioia e i suoi “amici” scomparirono lasciandomi solo con il groppo in gola, ansante come un cane, con gli occhi che bruciavano per tutto il sudore che c’era entrato.

avevo visto quello che mai avrei creduto di vedere, non con Gioia come protagonista.

la BMW nera sfrecciò accanto a me e la vidi sparire nel buio, sicuramente diretta verso qualche letto che li aspettava per concludere quella serata nel migliore dei modi, lasciandomi lì solo con l’anima lacerata e il cuore gonfio di disperazione.

tornai a casa lentamente, perdendo la strada e poi ritrovandola, con il cervello scollegato dal resto del corpo.

ero in uno stato pietoso, fisicamente ma soprattutto psicologicamente perché tutte quelle ore di brainstorming mi avevano consumato.

arrivai sotto casa che era quasi l’una, e solo quando provai ad aprire il cancello elettrico mi resi conto che non ero sull’auto giusta.

fui sul punto di dire “vaffanculo, la lascio qui” ma ci ripensai, rimisi la cintura di sicurezza e con una lentezza esasperante arrivai sotto lo studio, cambiai auto ricordandomi della cravatta e poi ritornai a casa, sempre con la testa che viaggiava per conto suo.

avevo alternato stati d’animo contrastanti, sensazione di vuoto, paura, odio profondo, rabbia, comprensione e addirittura compassione, disprezzo, furore, desiderio di vendetta ma anche quello più barbaro di farle del male fisico, di farla soffrire come lei stava facendo soffrire me.

vendetta?

tradirla anch’io? ripagarla con la sua stessa moneta?

trovarmi una donna, una qualsiasi, e scoparmela anche al costo di pagarla? riversare su di lei la mia rabbia e la mia frustrazione?

sì, l’avrei fatto!!! l’avrei fatto… domani, anzi no, stasera stessa! non mi mancavano i soldi, non mi mancava niente per andare in un locale e abbordare una di quelle che fanno la gara per trovarsi uno coi soldi, portarla a casa e farle di tutto, magari aspettando che tornasse lei e mi vedesse!

mi esaltai per quel pensiero selvaggio, ma durò un istante.

e poi? quale sarebbe stata la mia vendetta? scoparmi una sconosciuta e poi dirglielo? per farla ridere?

per farmi umiliare ancora? per umiliarmi da solo?

e con questo gran casino in testa arrivai a casa, meccanicamente e automaticamente aprii il cancello, lasciai l’auto e tornai in casa, buia e vuota.

e fu come se qualcuno fosse saltato fuori dall’oscurità per afferrarmi alla gola, e un pensiero terribile mi disse “ecco, ti aspetta questo per il resto della tua vita”

dovetti appoggiarmi alla parete con la schiena per non cadere, poi mi lasciai scivolare fino a mettermi seduto per terra, con la testa tra le mani.

“ma perché, Gioia, ma perché…” sussurrai.

rimasi seduto a terra per parecchio, perdendo la cognizione del tempo: i pensieri più cupi mi affollavano la mente, annebbiandola, ma rimasi comunque lucido per studiare una strategia.

avevo abbandonato l’idea di girarmi dall’altra parte e fare finta di nulla, così come avevo rigettato il proposito di aggredirla e vomitarle addosso tutto il veleno che avevo in corpo.

avrei usato un’altra strategia, più sottile, che mi avrebbe fatto male perché sarebbe durata di più ma che avrebbe pagato infinitamente di più rispetto a qualcosa di buttato in faccia.

mi decisi ad alzarmi e aiutarmi con un sonnifero ma alla fine non lo presi perché volevo restare vigile e lucido, mi lavai, mi misi a letto e steso a pancia in su, mani sulla pancia, a guardare il soffitto.

anche il silenzio era sofferenza, la solitudine era sofferenza, l’attesa era sofferenza.

ma ero così esausto, così svuotato che chiusi gli occhi e mi addormentai.

e dopo tanta attesa Gioia finalmente arrivò, la sentii ridere fuori dalla porta e poi salutare qualcuno, sentii la porta aprirsi e chiudersi e infine i suoi tacchi sul pavimento: la seguii mentalmente nel suo percorso dal corridoio fino allo spogliatoio, si tolse il vestito che sentii frusciare e poi con tonfi sordi e intermittenti dei suoi passi a piedi nudi arrivò in bagno, sentii l’acqua del lavandino e un altro fruscio, quello della spugna, si spostò ancora verso la cucina o verso il soggiorno e poi finalmente arrivò da me, in camera da letto, fece qualcosa, scostò le lenzuola e infine sentii il suo peso sul materasso e poi il suo sospiro quando il corpo si rilassò, dopo tanta fatica.

la feci ambientare per un paio di minuti lasciandole credere che fossi addormentato, la sentii voltarsi sul fianco e allora cominciai lo show.

“tutto bene?” le chiesi nel silenzio.

sentii una specie di “aaah…” di sorpresa, e di nuovo si giù stavolta verso di me.

“sì, certo amore, tutto bene…” rispose, “ma… cosa ci fai sveglio, è tardissimo… domani devi operare?”

accesi la luce e me la trovai davanti, sorridente come sempre, bellissima, radiosa.

“scusa se ti ho svegliato” mi disse, premurosa, “ho fatto più piano possibile…”

non le risposi, solo le sorrisi.

dio quanto era bella…

“amore… che c’é?” mi chiese ma non le risposi di nuovo.

non riuscii a non allungare una mano ed accarezzarle la guancia, piegò la testa per farsi accarezzare anche il collo e le raggiunsi anche quello, si allungò per posarmi un bacio ma la fermai.

“perché non facciamo l’amore?” le chiesi.

il sorriso le rimase “ghiacciato” sul suo bel viso.

“dai…” la incitai, “una cosa veloce, faccio tutto io…”

“amore… dai, sono stanca…” disse, “e… e poi lo sai che preferisco fare con calma…”

non ci cascavo, proprio no.

“ma io ti voglio stasera” insistei, “dai, non dirmi di no…”

“amore… dai, sono stanchissima, facciamo domani sera…” provò a dire, e diventando sensuale aggiunse “domani sera ti faccio impazzire se…” ma la fermai.

“no, adesso, facciamo una cosa veloce e poi ti lascio dormire”, insistetti, e allungando le mani le toccai il seno facendola ritrarre e coprire con le braccia.

allora conclusi quella commedia.

restai a guardarla negli occhi e le dissi quello che avevo studiato.

“non vuoi fare l’amore perché l’hai già fatto stasera?”

mi guardava… allucinata, il sorriso era diventato prima una smorfia e poi un’espressione impanicata.

“ti sono venuti dentro tutti e due?” le chiesi brutale, “stasera l’hai già usata abbastanza? non c’è posto per me?”

Gioia mi guardò dapprima senza capire come potessi sapere certi dettagli e poi ci arrivò, sbarrò gli occhi, socchiuse le labbra e poi le spalancò cacciando un urlo terribile che mi fece male nella testa come se fosse una coltellata, mi mancò l’aria e…

scalciando le lenzuola mi svegliai annaspando per tornare a respirare, ansimante, e guardandomi attorno capii che era stato solo un sogno, una specie di incubo.

mi lasciai andare sul cuscino e provai a rallentare la respirazione, provai a rilassarmi espirando tutta l’aria che avevo nei polmoni e mentre inspiravo dal naso sentii un’auto che si fermava davanti a casa.

dovetti reprimere l’impulso di spiare dalla finestra del corridoio per vedere chi fosse ma ero convinto che quella era la BMW nera e lucida, e allora preferii restare a letto.

sentii la voce di Gioia che salutava e rideva, sentii la voce di un’altra donna e poi la portiera che si chiudeva e l’auto che ripartiva, e pochi istanti dopo la porta si aprì e si richiuse e tutto si svolse come nell’incubo, i suoi passi, i suoi spostamenti in casa, i click degli interruttori delle luci di casa… tutto, fino a quando arrivò in camera da letto, lì cambiò qualcosa.

ero disteso sul fianco, rivolto verso la porta, e anche con gli occhi chiusi (quasi chiusi) vidi che si sporgeva verso di me per guardarmi o per controllare che non dormissi, fece il giro del letto e si sdraiò, restò immobile per qualche minuto e poi si voltò sul fianco.

lì cominciò la sua notte, ma finì la mia.

un senso di repulsione, ecco quello che sentivo: avevo accanto a me una donna che si era fatta… violare da due sconosciuti, si era fatta insudiciare e che ora insudiciava il nostro letto, il mio letto!

avrei dovuto cacciarla via, buttarla fuori senza pietà, ma non lo feci.

avevo una strategia.

stando bene attento a non toccarla restai nel letto e, con un sorriso maligno, pensai che probabilmente quella era l’ultima notte che dormivamo insieme, che lei dormiva in quel letto e soprattutto che dormiva in quella casa.

sì, perché la mattina, dopo l’inevitabile e durissima resa dei conti, l’avrei cacciata via.

la notte passò, non so come ma riuscii ad addormentarmi quando ormai c’era già chiaro e quando riaprii gli occhi di soprassalto il sole era già alto.

ricordai tutto, sperai che fosse un altro incubo ma tornai alla realtà, non era un incubo, era tutto vero.

lasciai passare i minuti che mi separavano dalla resa dei conti e di nuovo la testa mi si riempì di pensieri assurdi, gli stessi della sera prima, ma non c’era più tempo per i pensieri, era ora di passare ai fatti. 

e a quelle quattro chiacchiere che sarebbero state la fine del matrimonio.

deciso e cazzuto scesi dal letto, andai a pisciare e poi la cerca: era in giardino e parlava con Sara, non era il momento di certi discorsi, lasciai che ci parlasse e quando rientrò mi feci trovare sulla porta della cucina.

“buongiorno amore!” mi salutò, allegra e felice.

e ripensai alle parole di Luca, tanto tempo prima.

si era fatta un gran bella scopata, magari multipla (già, lei che si dichiarava tradizionalista, sì, tradizionalista del cazzo!), ed eccola lì, era il ritratto della felicità.

“vuoi il caffè? te lo faccio?” mi chiese, annuii e mi sedetti. 

canticchiava allegra, mi preparò il caffè e me lo porse sul piattino con un sorriso, tornò al lavandino e sistemò quello che doveva sistemare, pulì il ripiano con un pezzo di carta da cucina e lo gettò nel cestino, sempre dandomi le spalle.

e la guardai, bene.

indossava la camicia da notte trasparente che avevamo comprato l’anno prima, a Roma, e sotto un paio di slip molto semplici con un reggiseno sportivo.

e cominciai ad andare in tachicardia pensando che di sicuro non erano le cose che aveva indossato la sera prima…

queste cose… dozzinali le riservava a me, l’intimo di classe per il suo amante, anzi, per i suoi amanti.

non so come feci a non rovesciare tavolo, tazza, zuccheriera, tutto.

rimasi calmo e tranquillo, sorseggiai il mio caffè senza nemmeno metterci lo zucchero e poi… aspettai.

“ero al telefono con Sara” mi disse.

ecco, giocava sporco, ma non poteva immaginare…

mi disse che stava bene, che era felice e che tutti erano gentili e carini con lei, e che era davvero contenta di aver fatto quella scelta.

la lasciai parlare e parlare, e mentre parlava prese la mia tazzina e la lavò nel lavandino, ma a quel punto dovevo farla finita.

“ti sei divertita ieri sera?” le chiesi.

si bloccò solo per un istante, poi ricominciò.

“sì, certo!” rispose tutta allegra, e mi raccontò dell’aperitivo con ‘le socie’, poi della cena al Seconda Classe e poi della serata scatenata in discoteca.

sentivo l’odio montare, ma… non ancora, aspetta.

“quale discoteca?” le chiesi.

“è un club, in realtà” mi rispose, tradendo nervosismo, “si chiama ‘La Ville Lumiere’, lo conosci?”

“m-m” le risposi.

mi dava le spalle, era tesa, vedevo da come teneva rigide le gambe.

“è bello, molto elegante” continuò, “e poi ci sono…”

“più bello dell’altro, quello che ti piace tanto, come si chiama…” la interruppi, e giocando con lei finsi di dimenticarlo per poi ricordarlo improvvisamente, “sì, giusto Hollywood Palace!”

si bloccò, ma non solo per un istante, ma poi riprese a lavare, sempre di schiena.

“s-sì, forse sì, è più bello” rispose, senza sapere bene che cosa dire.

“beh, bello o non bello dipende dalla compagnia, giusto?” le dissi.

“sì, certo” rispose, tornando a sciacquare la tazzina, ma la stroncai.

lasciai pesare il silenzio per cinque secondi e poi lo dissi.

“ti ho visto”

fu come quando arriva il lampo e poi a seguire c’è il tuono, il lampo furono le mie parole, il tuono la tazzina che le cadeva dalle mani sbattendo forte nel lavandino, e andando in frantumi.

silenzio.

vedevo solo le sue spalle e anche da dietro notai quanto stava respirando velocemente.

poi cominciò a scuotere lentamente la testa, incurvò le spalle e alla fine piegò il capo.

“ero lì quando sei arrivata, anzi, quando siete arrivati” le dissi, scandendo bene le parole.

“n-no…” riuscì solo a dire, ma nient’altro.

e la capivo, era ad un passo dal perdere tutto, cos’altro avrebbe potuto dire?

non avevo voglia di ripercorrere le varie tappe della serata, andai subito al sodo, anche perché rischiavo davvero di compiere qualcosa di avventato e irreparabile.

“ho visto tutto, ho visto quello che hai fatto prima di entrare e dopo, all’uscita” le dissi, secco, freddo.

restò immobile e in silenzio, le mani sul ripiano della cucina e a capo chino, con le spalle incurvate.

“ti ho visto… fare la troia con due uomini” le dissi, ormai partito per la tangente, “gli cacciavi la lingua in bocca e ti facevi toccare tra le gambe e toccavi il cazzo a tutti e due, e…” provai a dire ma le parole mi si strozzarono in gola.

avevo i pugno così stretti che mi facevano male.

non era in grado di parlare così come non lo ero io, ma qualcosa dovevo dire, e fare, così raccolsi le energie e imponendomi la calma (il tavolo della cucina sarebbe volato così bene nella vetrata…) mi alzai, scostai la sedia senza trascinarla come voleva lei per non rovinare il pavimento e poi la rimisi a posto.

“n-non ti voglio più vedere” le dissi, duro.

nessuna risposta.

“io esco” aggiunsi, “torno questa sera e… hai tempo fino a stasera per raccogliere le tue cose e andartene”

le spalle si muovevano su e giù, stava piangendo e singhiozzando.

“quando rientro… non ti voglio trovare” le dissi ancora, sempre più duro, “se ti trovo ti caccio fuori a calci e ti butto sulla strada, sono stato chiaro?”

singhiozzava.

“SONO STATO CHIARO?” gridai.

singhiozzò, ma la vidi annuire con decisione, forse l’avevo spaventata.

ero pronto per andarmene, ma c’era ancora una cosa che dovevo dirle.

“mi fai schifo…” ringhiai, “schifo!”

ricominciò a piangere forte, quasi avesse le convulsioni, piangeva ma restava faccia al muro senza avere il coraggio di guardarmi in faccia.

“prendi… prendi quello che vuoi” le dissi ancora con tono schifato, “oro, soldi… tutto quello che vuoi, prendi tutto e vattene”

piangeva disperata e quasi volesse chiedere il mio perdono o comunque farmi cambiare idea allargò un braccio aprendo la mano, a palmo verso l’alto, quasi fosse un gesto per chiedere pietà.

no, non avevo pietà, non la sentivo dentro la pietà.

davanti a me vedevo la donna che mi aveva tradito non con uno, ma con due uomini contemporaneamente.

senza contare… quello che aveva fatto tutte le volte che non l’avevo beccata, le uscite del venerdì sera con le amiche… altro che uscite, erano incontri di sesso di gruppo… o peggio…

ma davanti a me c’era anche la donna che amavo, la persona più sacra e più importante della mia vita insieme a nostra figlia Sara.

la persona più sacra… la persona… la donna, la… donna che aveva sporcato questa sacralità, tradendo la mia fiducia e il mio amore.

e ancora la vedevo con quei due sconosciuti… a farsi toccare, a farsi… sbattere!

mi stavo solo facendo del male, mi diedi uno schiaffo morale e conclusi, per davvero.

“hai tempo fino a stasera, poi te ne vai” le dissi, “non voglio più vederti… non voglio… non ti voglio più nella mia vita…”

voltai le spalle e me ne andai da quel posto che mi dava un senso di sporco e sudicio, e mentre barcollando stavo entrando in corridoio la sentii piangere disperata, gridare con un crescendo progressivo “NOO! NOOOO! NOOOOOOO!” ma fu l’ultima cosa che sentii perché chiusi la porta alle mie spalle e mi tappai le orecchie per non sentirla più.

restai seduto sul letto dieci minuti o forse più, il concetto di tempo era molto relativo in quella circostanza.

Gioia non la sentivo più né piangere né gridare, mi era sembrato di sentirla parlare immaginando che fosse al telefono ma non ne ero certo: del resto con lo stress a cui ero stato sottoposto nelle ultime ore niente di strano se mi sfuggiva qualcosa… 

mi alzai e provai ad ascoltare nel silenzio, non c’era nessun suono, nulla.

pensai che se ne fosse andata via ma sarebbe stato improbabile, non in mutandine e reggiseno comunque: forse aveva un paio di short e una maglietta da qualche parte ma tutti i suoi indumenti erano o nello spogliatoio o nella camera da letto, l’avrei sentita.

tolsi un paio di jeans e una camicia dall’armadio e li indossai mentre tendevo l’orecchio cercando di capire che cosa succedesse oltre quella porta, aspettai disteso sul letto (rigorosamente dalla mia parte per non… insozzarmi) ancora forse un’altra decina di minuti poi mi decisi, mi alzai e mossi un passo ma in quell’istante sentii bussare quasi impercettibilmente sulla porta.

“M-Mauro…” sussurrò, “ti prego… voglio… parlarti…”

non risposi e andai alla finestra, dalla parte opposta della stanza rispetto alla porta, per essere più lontano.

“ti prego… ti scongiuro, fammi… lasciami parlare…” continuò, piangendo.

Gioia l’avevo vista piangere in quel modo una sola volta da quando la conoscevo, quando era morta la sua amatissima nonna ormai diciotto anni prima.

ed anche se mi aveva tradito, ferito e umiliato… non volevo sentirla così, e non volevo essere io la causa del suo pianto.

“ti prego, dimmi… dimmi che mi ascolti” mi disse, “ti prego, ti prego…”

“ti sto ascoltando” le risposi.

“...ma fa in fretta, devo andare” aggiunsi subito.

tirò su col naso, forte.

“io… voglio… spiegarti tutto” cominciò, “voglio che tu… sappia…”

chiusi gli occhi.

ero certo che stesse ricominciando a mentire, ma per uno strano masochismo mi dissi che era giusto starla a sentire, per capire qual’era la portata dello schifo che aveva addosso.

“ieri sera… io… io non ho… non ho fatto niente… davvero” cominciò a dire, ma tanto mi bastò.

poteva anche parlare per un anno, non le potevo più credere.

“era solo… un… gioco, una prova” continuò, “solo… per vedere… cosa potevo… cosa ero disposta a fare… per… entrare in un… giro…”

“non ho fatto… sesso con loro” continuò, “non ho fatto niente, te lo giuro” 

“e cosa hai fatto? non era sesso quello?” le chiesi, rabbioso, “non ti hanno messo le mani addosso?”

“era… un gioco!” continuò, “non c’era… sesso, no! te lo giuro!!!”

“ma che bel gioco, e che gioco era?” continuai quasi isterico.

non mi aspettavo una risposta, la mia era qualcosa di simile ad una domanda retorica, ma…

la sentii tirare su col naso, poi lo disse, incredibilmente seria.

“s-scambio di partner…”

rimasi in silenzio, senza parole.

“s-scambio di partner?”

“sì, scambio… di partner, scambio di coppia…” continuò.

ero attonito.

“v-volevo… farlo… insieme a te” continuò ancora, “e… per entrare in quel giro bisogna… fare una prova, quella… di ieri sera era la prova…”

no, non me la dava a bere, stava solo cercando di salvarsi in corner coinvolgendo me.

non volevo ascoltarla, non più, stava mentendo, stava solo cercando di… raggirarmi con quelle lacrime e con quei pianti falsi e con quelle storie assurde, non la volevo stare a sentire un istante di più anche perché mi conoscevo, e sapevo che per… per amore, o quello che una volta era amore, le avrei lasciato un appiglio per spiegarsi ancora e per prendermi ancora in giro.

diedi un gran pugno alla parete e poi andai verso la porta, la aprii e la trovai lì davanti, in ginocchio, occhi gonfi e pallida, pallidissima, con profonde occhiaie scure.

la guardai ancora sprezzante, evitai il suo sguardo e le passai oltre, mi fermai, inspirai profondamente e le dissi “vattene da questa casa, hai tempo fino a stasera, poi…”

“no, ti prego!” esclamò, “ti prego non mandarmi via… non lasciarmi!”

“farò quello che mi chiedi!” disse ancora, sempre più disperata, “farò quello che vuoi, tutto, tutto!”

stavo per dirle qualcosa ma no, non lo feci, presi le chiavi di casa e dell’auto e puntai verso la porta, ma un istante dopo Gioia mi arrivò dietro e mi prese il braccio per trattenermi.

mi liberai e alzando le mani le feci paura tanto che alzò anche le sue per proteggersi e arretrò di un passo.

“no… mi… toccare!” ringhiai, “non mi toccare con quelle mani… schifose!!!” le gridai in faccia, facendole ancora paura.

uscii da casa come una furia, sbattei la porta e volai fuori, saltai in auto e ancora prima che mettessi in moto la vidi arrivare verso di me, cercò di fermarmi mettendo le mani sul parabrezza ma la “dribblai” evitandola, uscii in strada e mentre mi allontanavo la vidi che mi rincorreva fino a cadere in ginocchio con le mani tese verso di me che mi stavo allontanando.

e quello, sicuramente, fu il punto della mia vita in cui scesi più basso.

girai per la città senza una meta, girai in tondo ripercorrendo le stesse strade e le stesse vie per una mezz'ora, poi mi resi conto che non avevo portato con me nulla, né telefono né portafoglio.

e fui costretto a tornare a casa.

entrai furibondo, se avesse provato a mettersi in mezzo l’avrei travolta e gettata a terra ma non c’era, non mi importava dove fosse, recuperai portafoglio e telefono e poi uscii di fuori, e lì successe qualcosa che non mi spiegherò mai.

non era una delle cose automatiche che uno fa meccanicamente, con la forza dell’abitudine, perché non l’avevo mai fatta prima: tornai verso la piscina per controllare se il cancello che portava in garage fosse chiuso, così, senza una spiegazione.

così lanciai un’occhiata alla piscina e sulla superficie, che galleggiava, c’era qualcosa di scuro: mi avvicinai e vidi che era una ciabatta.

fu come se una mano ghiacciata mi fosse entrata nel ventre per strapparmi le budella.

sul fondo, a pancia in giù, c’era Gioia, immobile.

annegata.

fine capitolo uno