Runner

Capitolo 1 - Runner

Ironwriter2025
6 days ago

Attraversò il cancello del parco con passo deciso, il metallo cigolò appena alle sue spalle. L’aria del mattino era fresca ma già carica di profumi estivi: terra umida, erba tagliata, qualche fiore sbocciato troppo presto. Ai suoi piedi, le scarpe da running battevano il ritmo perfetto sul vialetto ghiaioso, una sinfonia lieve accompagnata dal respiro profondo e regolare, dal fruscio degli alberi mossi dal vento e dal cinguettio sommesso degli uccelli.

Il parco era quasi vuoto. Qualche pensionato su una panchina, un paio di ciclisti in lontananza, un uomo con un cane che si attardava tra i cespugli. Ma lei correva sola, e soprattutto correva libera. La coda alta le dondolava ritmicamente, mentre i capelli, raccolti alla meglio, lasciavano scoperto il collo e la schiena sottile, leggermente lucida per il sudore.

I leggings fucsia, aderentissimi, sembravano disegnati sulla sua pelle. Avvolgevano ogni curva con decisione, ogni muscolo delle cosce e dei glutei si muoveva sotto la stoffa elastica, che premeva in modo implacabile proprio lì, tra le gambe, dove la tensione si faceva più viva. Senza intimo a frapporsi, il tessuto divideva e accarezzava il sesso con ogni falcata, sfiorando quel punto che non smetteva di rispondere, amplificando la sensazione fino a renderla quasi difficile da ignorare.

La canotta, dello stesso fucsia acceso, aderiva come una carezza bagnata sul petto. Ad ogni respiro il seno si sollevava, disegnando linee sensuali sotto il tessuto sottile. I capezzoli, duri, protesi in avanti come piccoli aculei di piacere, pungevano la stoffa con insistenza. La brezza fresca e l’attrito del corpo in movimento contribuivano a renderli ancora più evidenti, come un dettaglio impudico e involontario, eppure impossibile da nascondere.

La ragazza proseguiva lungo il vialetto con passo costante, respiro profondo, braccia leggere accanto al corpo. Ogni falcata faceva tremare lievemente il seno, contenuto solo dalla sottile canotta aderente che sembrava ormai parte della sua pelle. I capezzoli, sempre più rigidi, spingevano con ostinazione contro il tessuto, disegnandone il profilo con una chiarezza che non ammetteva distrazioni.

Su una panchina, due pensionati stavano scambiando qualche parola, le voci basse e spezzate dalla consuetudine del mattino. Ma al suo avvicinarsi, il discorso si interruppe di colpo, come se le parole si fossero smarrite all’improvviso. Gli occhi di entrambi vennero rapiti dal movimento armonico del suo petto, da quell’oscillare ritmico e ipnotico, ogni sobbalzo una carezza involontaria agli sguardi che non riuscivano a distogliersi.

Solo un attimo dopo lo sguardo cadde più in basso, là dove il tessuto fucsia dei leggings affondava tra le cosce, dividendo con precisione chirurgica le labbra, mettendone a nudo — senza mostrarlo — l’effetto. Era come se l’intero pube si fosse disegnato contro la stoffa, ogni dettaglio amplificato da quella pressione. I due uomini restarono immobili, come due gatti davanti a un passero troppo audace, con lo sguardo teso, inchiodato a quella visione che sfiorava l’osceno ma restava nel regno dell’impossibile.

E poi, mentre Leda li oltrepassava, i loro occhi si incollarono all’ultima immagine: i glutei, scolpiti, alti, stretti dal tessuto lucido e teso come un elastico al limite. Si muovevano alternandosi con eleganza, ogni passo un’onda che attraversava la muscolatura, divisi netti, come due metà di una mela pronta a essere colta.

In lontananza, oltre una curva morbida del viale, Leda scorse una figura che si avvicinava. Anche lui correva, in maglietta e pantaloncini, andatura decisa, il passo di chi si allena con costanza. Ma non appena la notò, qualcosa in lui cambiò. Il ritmo diminuì, le falcate si fecero più corte, quasi esitanti. Gli occhi si posarono su di lei e non la lasciarono più.

Man mano che la distanza si accorciava, lo sguardo si fece più intenso, lucido. La mandibola gli si abbassò leggermente, la bocca appena aperta, come se stesse assistendo a qualcosa di irreale, una visione troppo perfetta per il grigio quotidiano. La canotta aderente, i capezzoli duri, i fianchi fasciati dal fucsia che scolpiva il ventre e le cosce: era tutto lì, davanti a lui, e sembrava impossibile non rallentare.

Quando le fu a pochi metri, la superò con passo rallentato, lo sguardo ancora su di lei, poi si fermò. Leda lo sentì, avvertì l’assenza del rumore dei suoi passi, la pausa improvvisa, il silenzio che si riempiva solo del proprio respiro. Si voltò lentamente, con naturalezza, e lo trovò lì, immobile, la bocca ora spalancata in un’espressione che non nascondeva nulla. La guardava. Tutta. Dai piedi alla coda di cavallo, passando per ogni curva tesa, per ogni dettaglio che il sudore aveva reso ancora più vivido.

Lei sorrise. Un sorriso lento, consapevole. Gli fece l’occhiolino e alzò la mano in un saluto lieve, quasi ironico, come a dire "sì, hai visto bene". Poi si voltò di nuovo, lasciando che l’eco del suo corpo lo travolgesse ancora.

Continuò a correre, il passo deciso e sempre più caldo, le gambe ben piantate nella fatica e in quella tensione sottile che non accennava a calare. Incrociò altre persone: una coppia con il cane, una ragazza con le cuffiette, un uomo in giacca e cravatta che tagliava il parco in diagonale. Nessuno la ignorava. Alcuni le lanciavano sguardi ammirati, altri rapidi e pieni di giudizio, qualcuno la scrutava con un misto di sorpresa e desiderio malcelato. Ma nessuno, davvero nessuno, restava indifferente.

Poi la curva. Secca, stretta, tra due file di alberi che sembravano avvicinarsi a soffocare il sentiero. Leda si abbassò leggermente col busto per mantenere l’equilibrio e in quell’istante lo sentì. Un suono secco, metallico, sincopato: clack. Poi di nuovo clack-clack. Inconfondibile. Non un telefono, non un semplice scatto digitale. Era un’otturatore vero, di quelli vecchi, analogici, con l’anima meccanica e l’odore di pellicola. Proveniva prima da davanti, poi da lato, poi da dietro. Qualcuno la stava fotografando. Con metodo. Con desiderio.

Si voltò di scatto, il cuore che accelerava per qualcosa di diverso dalla corsa. I sensi all’erta. E lo vide, o meglio: vide qualcosa. Un riflesso. L’occhio di una lente, nero e tondo, in cristallo trattato, che si ritirava silenziosamente dietro un tronco. Il suo segreto ammiratore non voleva essere visto. Non ancora.

Non rallentò. Uscì dal parco mantenendo il ritmo, il respiro più teso, la mente attraversata da una scossa elettrica sottile e continua. Raggiunse casa senza fermarsi. Aprì la porta, entrò, e subito cominciò a spogliarsi. La canotta umida scivolò via dalla pelle, poi i leggings aderenti si arrotolarono lungo le gambe con un sospiro, lasciando finalmente libere le parti più tormentate dal tessuto.

Mise tutto a stendere rapidamente, senza curarsi dell’ordine. Andò in bagno e si gettò sotto la doccia, lasciando che l’acqua calda le cadesse addosso come una cascata. Il corpo, ancora teso, si muoveva appena sotto il getto. I capezzoli erano duri come non mai, il sesso pulsava, sensibile e intorbidito da un desiderio troppo a lungo trattenuto. Le dita scivolarono lentamente, prima sul ventre, poi più in basso, e lì restarono, accarezzando, cercando, trovando. Era tutto troppo. Aveva bisogno di sciogliere quella tensione, di lasciarsi andare, di ritrovarsi. E così fece.

Il bagno era ancora pieno di vapore, le gocce scivolavano lente sullo specchio appannato mentre lei si tamponava il corpo con calma. Ogni gesto era consapevole, curato. I capelli raccolti in un turbante improvvisato, la pelle arrossata dall'acqua calda, il petto che ora respirava tranquillo. Leda era nuovamente padrona di sé, in pace, placata. Il piacere sotto la doccia aveva spento l’incendio lasciato dal parco e dalle sue fantasie.

Poi un suono secco, discreto ma inequivocabile: pling. L’iPad, poggiato sulla mensola in cucina, si era acceso con una notifica. Uno dei pochi dispositivi ancora autorizzati a disturbare la sua quiete post-corsa.

Sorrise tra sé, sardonica. “Ecco il mio solito rompiscatole. Il passeggero oscuro. Chissà che voglia stavolta. Aspetta pure.” Si voltò verso lo specchio, diede un’ultima passata all’interno coscia con l’asciugamano e uscì nuda dal bagno, lasciandosi dietro una scia sottile di umidità e sapone.

Si vestì con lentezza, scegliendo abiti larghi, morbidi, domestici. Un completo dallo stile comodo, pulito. Si sentiva finalmente rilassata, le tempie distese, il cuore calmo. Quando tornò a prendere l’iPad, lo fece con un mezzo sorriso. “Arrivo, vecchietto.”

Ma il nome sullo schermo non era il suo. Nessun contatto. Nessun mittente.

Solo una cartella. Tre fotografie. Nessun testo, almeno all’inizio.

Aprì il primo scatto e il sorriso le morì sulle labbra.

Lei. Nel parco. In corsa. Perfettamente a fuoco. La figura intera, il passo leggero, il corpo avvolto nel fucsia, il viso concentrato. La seconda: un’inquadratura bassa, laterale, e il profilo netto del seno sotto la canotta, il capezzolo duro come pietra. La terza: un dettaglio. Il più intimo. Il pube schiacciato contro i leggings, le labbra divise in modo osceno, quasi impudente, eppure inconfutabilmente reale.

Poi apparve la scritta, comparsa lenta, come un refolo di veleno:

Ciao carina. Come vedi, so chi sei e come raggiungerti. So anche dove trovarti.

Questa sera alle 22:00. Il parchetto di stamattina. Minigonna e camicetta. Niente intimo.

Oppure queste foto vanno a tutta la tua agenda.

Seguiva l’elenco completo della sua rubrica. Nome per nome. Numeri. Email. Persone vicine. Persone lontane. Amici, familiari, colleghi. Tutti.

Leda non respirava più. Lo schermo le illuminava il volto impietrito, la bocca leggermente aperta, gli occhi spalancati. Un brivido le corse sulla schiena, ghiacciato e brutale. Sentì le ginocchia indebolirsi, il cuore accelerare in una corsa diversa, più profonda, più cupa.

Posò l’iPad sul tavolo come se scottasse. Fece un passo indietro. E ora? Il pensiero rimbalzò nel silenzio, sordo. Nessuna risposta. Solo il ronzio lontano del frigo e il battito martellante nelle tempie.

Fuori, Milano si muoveva come sempre. Dentro, qualcosa si era incrinato