Tra dominazione e tradimento
Capitolo 2 - quelle sensuali gambe da dominatrice

Passarono settimane.Settimane in cui cercai di dimenticare quella maledetta sera, di cancellare dal cervello l’immagine di Alberta, il suo sguardo da stronza che se la rideva mentre mi provocava, il contatto caldo della sua pelle, la sua voce impastata di alcol e malizia nel parcheggio, il suo culo contro la mia mano.
Ma niente.Più cercavo di scacciarla, più tornava a galla. Più mi ripetevo che non doveva succedere, che Mattia era il mio migliore amico e che lei era solo un’avida opportunista, più mi ritrovavo a guardarla di sfuggita quando nessuno se ne accorgeva.
Il peggio era vederli insieme.Mattia e Alberta seduti al solito tavolo con gli altri, come se niente fosse. Lui che rideva, le stringeva la mano, e lei che sfoderava i suoi sorrisi migliori, quelli che avevo imparato a odiare… e forse a desiderare.
Fingeva benissimo.Se la guardavi da fuori, era la perfetta fidanzata. Ma poi, ogni tanto, quando incrociavamo lo sguardo, c’era quel mezzo sorriso sfrontato, una battutina buttata lì, un tocco di troppo mentre passava accanto. Piccole fottute provocazioni.
Io facevo finta di niente.Ridevo con gli altri, parlavo di calcio, di università, delle solite cazzate. E intanto dentro mi dicevo che non sarebbe successo di nuovo. Che era stato solo il troppo alcol, la delusione, una sera storta.
Ma il problema delle tentazioni, è che sanno aspettare.E lei, Alberta, sapeva farlo meglio di chiunque altro.
Quella sera non sarei dovuto esserci.Me lo ero ripromesso. Basta bar, basta gruppo, basta Alberta.Avevo deciso di schivare quella gente per un po’, di stare lontano da tutto quello che mi faceva girare la testa.
Ma i buoni propositi, si sa, valgono poco dopo due chiamate di fila e un paio di vocali di insulti da parte degli amici.Così, alla fine, mi feci convincere.“Tanto Mattia è in vacanza con i suoi della palestra” pensai.Un paio di birre e torno a casa, niente rischi.
Appena misi piede al bar, la vidi.Miniabito nero, scollatura che non lasciava niente all’immaginazione, gambe chilometriche accavallate su uno sgabello.Alberta.
Fece finta di niente, all’inizio.Poi, appena i nostri sguardi si incrociarono, sollevò il bicchiere in un brindisi silenzioso e mi rivolse il suo solito sorrisetto sfacciato.
«Pensavo ti fossi nascosto per la vergogna» disse, avvicinandosi al bancone dove avevo ordinato da bere.
Alzai gli occhi al cielo, bevvi una lunga sorsata e ribattei:«Più che altro non volevo vederti, rovini le serate.»
Lei rise, quella risata che era un mezzo invito e mezzo schiaffo.«Che caratterino… e io che pensavo fossi uno di quelli che sa prendersi le responsabilità.»
«Non ho nulla di cui rendere conto» replicai, cercando di sembrare più disinvolto di quanto mi sentissi davvero.
Da lì iniziò il solito gioco.Sguardi, frecciatine, battutine velenose mascherate da scherzi.E ogni volta che passava accanto, una mano che sfiorava troppo casualmente il fianco, un abbraccio dato per scherzo, troppo stretto, troppo lungo.
Il gioco, quella sera, prese subito una piega diversa.Non era più solo qualche frecciatina tra un sorso e l’altro.Era più sporco, più rischioso.
Alberta non perse tempo.Appena mi avvicinai al bancone per ordinare la seconda birra, mi raggiunse, appoggiando il gomito sul legno consumato e sporgendosi verso di me, il suo profumo dolce e pungente che mi si infilava nel naso.
«Hai cambiato tattica, eh? Ora ti fai inseguire» sussurrò, sorridendo.
«Forse è il contrario. Sei tu che non sai startene al tuo posto» ribattei, fissando dritto davanti a me.
Lei rise appena, poi si allontanò con passo lento, ma nel passarmi accanto mi sfiorò l’anca con la punta delle dita, abbastanza da farmi stringere la mascella.
Qualcuno iniziava a notare.Le nostre amiche ridevano tra loro, qualche occhiata di troppo, qualche sopracciglio alzato.
«Che succede tra voi due?» buttò lì Marta, scherzando.
«Nulla. Stiamo solo scoprendo chi è più irritante» risposi secco, senza voltarmi.
Alberta colse al volo l’occasione.Si sedette sullo sgabello libero accanto al mio, accavallò lentamente quelle gambe perfette, lasciando che il miniabito salisse di qualche centimetro, e prese in mano il bicchiere.
«Io punto tutto su di me» disse, guardandomi di lato con un sorriso che sapeva di guaio.
La tensione era tangibile.Gli altri continuavano a chiacchierare e scherzare, ma tra noi due l’aria si era fatta elettrica, e nessuno di noi sembrava più tanto capace di gestirla.
A un certo punto, passando dietro di lei per recuperare una sigaretta sul bancone, le sfiorai volutamente il fianco con la mano aperta.Lei si voltò di scatto, un lampo di sfida negli occhi.
«Attento, Vale» sussurrò piano, abbastanza da farsi sentire solo da me.«Se continui così, rischi di perdere.»
Stavo giocando a ping pong con Chiara, una partita nata per scherzo mentre aspettavamo che tornassero le pizze, quando Alberta si avvicinò al tavolo con quel suo passo lento e provocante.
«Ale…» chiamò piano, mordendosi l’angolo del labbro mentre il gruppo era distratto.«Facciamo che se vinco io questa partita, ti becchi una penitenza da me. Se invece vinci tu… decidi tu cosa farmi.»
Mi girai appena verso di lei, stringendo la racchetta.«Temo di sapere già dove vuoi andare a parare.»
«E allora gioca bene, campione» mormorò, allontanandosi con un’occhiata che mi si infilò nello stomaco.
La partita con Chiara era finita da qualche minuto. Il gruppo si era un po’ disperso tra il bancone e i tavolini all’aperto.
Cominciai a giocare con Alberta. All’apparenza era solo una partita tra due amici un po’ brilli, ma sotto c’era di più.Ogni scambio era un pretesto: lei che si mordeva il labbro, io che la sfioravo passando accanto al tavolo, battute sussurrate mentre gli altri ridevano e chiacchieravano.
«Pensavo ti fossi nascosto per la vergogna, sai?» sibilò lei a bassa voce dopo il primo punto.«Più che altro non volevo vederti, rovini le serate.» risposi a tono.
Colpo dopo colpo, però, mi accorsi che l’alcol e la tensione stavano giocando contro di me. Lei era brava. Ma soprattutto mi deconcentrava di proposito: si sistemava la scollatura a ogni battuta, accavallava le gambe in modo plateale quando riprendeva fiato, lanciandomi occhiate cariche di tutto quello che nessuno doveva notare.
Finì che perdetti.Male.
«Che pena, Vale» disse Alberta, appoggiando la racchetta sul tavolo e avvicinandosi.Si avvicinò troppo.
«Direi che tocca a me scegliere la penitenza» sussurrò appena, sfiorandomi il petto con la punta delle dita, come se fosse un gesto casuale.
Deglutii.Avrei dovuto scappare via in quel momento.
«Più tardi» aggiunse lei, allontanandosi con un sorrisetto soddisfatto.
E io rimasi lì, a fissarle il fondoschiena mentre tornava dalle altre, con la consapevolezza che stava iniziando tutto da capo.
Il locale era sempre più affollato. La musica un po’ più alta, i bicchieri che tintinnavano e la solita nuvola di fumo appena fuori dalla porta d’ingresso.
Non l’avevo neanche vista arrivare. Stavo parlando con Marco e Chiara, buttando giù una birra e facendo finta che quella sera fosse una come le altre, quando una voce familiare mi sussurrò all’orecchio.
«È il momento.»
Mi voltai di scatto.Alberta.Vestito corto, sorriso da stronza e quello sguardo di chi sa già di averti fregato.
«hai deciso di farti offrire una birra?» bofonchiai, cercando di fare il disinvolto.
«Vieni.»
Non mi diede neanche il tempo di rispondere. Mi prese per il polso e mi trascinò via, oltre il bancone, oltre il chiacchiericcio e la musica. Nessuno sembrava fare caso a noi. Nessuno mai.
Arrivammo davanti al bagno e prima che potessi dire qualcosa, mi ritrovai dentro, la porta chiusa alle spalle e un odore pungente di disinfettante che mi pizzicava il naso.
«Ok, Alberta… che cazzo vuoi fare?»
Si avvicinò così di colpo che mi mancò un battito. A pochi centimetri. Quel profumo dolce e bastardo, il vestito che sembrava cucito sulla pelle.
«La tua penitenza» disse con quella voce roca che mi si infilò sottopelle. «Cinque minuti qui dentro con me. Se resisti… vinci. Se invece cedi… comando io per il resto della serata.»
Scoppiai a ridere.«Sei fuori.»
Lei alzò un sopracciglio, con quel sorrisetto da stronza patentata.«Hai paura?»
E lì, maledizione, scattò qualcosa.Alzai le mani.«Cinque minuti. Facile.»
Spoiler: non era facile per niente.
Lei si appoggiò alla porta, bloccandomi la via di uscita. Non che avessi davvero intenzione di andarmene. Non subito. La guardavo mentre si muoveva con quell’aria da predatrice. Mi fissava come se sapesse esattamente dove colpire.
Iniziò piano.Uno sguardo che durava troppo.Un dito che mi sfiorava il colletto.Una battuta sussurrata, quella maledetta risata bassa.
Sentivo il battito salire. Era il caldo, era l’alcol, era lei.
«Già nervoso, Vale?»Si passò la lingua sul labbro, lentamente.
Sbuffai.«Serve ben altro.»
Ed era quello che stava aspettando.
Mi fu addosso in un secondo. Le sue mani sul mio petto, poi sulle spalle. Il suo corpo contro il mio. Sentivo ogni maledetto centimetro di pelle attraverso quel vestito. Cercavo di restare impassibile, ma il cuore batteva forte e la testa girava.
Quando mi mise una mano sulla cintura e si avvicinò all’orecchio, avrei giurato di sentire il mio autocontrollo crollare di un millimetro.
«Quanto manca?» sussurrò con un ghigno.
Deglutii.Non ne avevo la minima idea. E il problema è che, a quel punto, non ero più nemmeno sicuro di volerlo sapere.
Si voltò lentamente, e senza nessuna grazia, spinse il culo all’indietro, sfregandolo contro di me, facendo dondolare quei fianchi con una cattiveria indecente.Lo fece due, tre volte.Poi si abbassò leggermente, come se cercasse qualcosa a terra — e il vestito salì.Tanto da lasciar intravedere il pizzo nero sotto.
Mi morsicai il labbro.«Sei malata.»La voce mi tremava.
Si girò con un sorriso sporco, quello da stronza patentata.
«E tu sei una merda di amico.»Si avvicinò, il seno che mi sfiorò il petto.«Chissà cosa direbbe Mattia se vedesse dove stai guardando…»
Poi me lo sussurrò all’orecchio. Una frase così lurida e cattiva che mi si ghiacciò il sangue e nello stesso tempo il corpo mi esplose.
«Ti piace quando te lo sbatto addosso, eh? Lo so che lo vuoi. Non hai idea di quante volte ti ho beccato a guardarmi il culo. Ora ce l’hai qui, Vale… fallo, se hai il coraggio.»
Si mise davanti a me, incrociò le gambe lentamente e poi — giuro su Dio — fece un movimento d’anca osceno, apposta, mordendosi il labbro.
Il mio cervello? Fuori uso.
Le presi i fianchi con una mano secca, la spinse contro il muro.Lo sguardo di lei s’illuminò di una soddisfazione bastarda.
«Basta parlare.»
Le baciai la bocca con rabbia, mani ovunque, sul suo fondoschiena che stringevo senza ritegno.Lei gemette, incitante, e per poco non persi totalmente il controllo.
Poi — con una calma che mi fece imbestialire — mi bloccò con una mano sul petto.Respiro affannoso, occhi accesi.
«Hai perso, cane.»E con un ghigno maledetto aggiunse:«Stasera fai quello che ti dico io.»
Rimasi lì, col fiato corto, mentre si sistemava il vestito e si rimetteva i capelli dietro le orecchie come se nulla fosse.Io?Fottuto. Senza scampo.
«Mi accompagni a casa, Vale?»La sua voce era bassa, quasi innocente, mentre ci ritrovavamo di nuovo fuori dal bagno.Il bar era pieno, gli altri sparsi tra risate e drink, ma lei trovò comunque il modo di avvicinarsi a me in mezzo alla confusione, senza dare troppo nell’occhio.
«Davvero pensi che adesso potresti dire di no?» sussurrò, passando una mano sul mio fianco mentre mi sfiorava per uscire.
Le seguii, senza dire una parola.Sapevamo entrambi dove stava andando a finire quella sera.
Arrivammo al parcheggio senza farci notare, la tensione fra noi ancora viva sotto la pelle.Salì dietro di me sulla moto, le sue braccia intorno al busto e il mento che sfiorava il mio collo.Sentivo il suo respiro, il suo corpo, e il silenzio che ci accompagnava fino a casa sua sembrava ruggire.
Appena scesi, si voltò con il suo solito sorriso di sfida.«Non vorrai mica scappare ora, Vale. Sali. Non hai scelta, ricordi?»
Aveva ragione.Avevo perso.E non c’era parte di me che volesse davvero evitarlo.
L’appartamento era in penombra, silenzioso.Appena chiusa la porta, si tolse le scarpe, lasciando cadere le chiavi in una ciotolina sul mobile.Si stiracchiò lentamente, con quella naturalezza studiata, facendo tirare il vestito ancora una volta su quel corpo da impazzire.
«Sai… non avrei mai detto che tu fossi così facile da spezzare.»Mi lanciò uno sguardo sopra la spalla.«Un bacio e hai perso il controllo.»
«Parli troppo.»
Le afferrai i fianchi con una fame che mi divorava da dentro e la spinsi dolcemente, ma con decisione, sul divano.
Lei non fece resistenza.Anzi, si lasciò andare con un sorrisetto, le gambe ancora piegate, lo sguardo fisso su di me.
Le baciai il collo, la bocca, scivolai sul suo corpo come se fosse casa mia — mani ovunque, il cuore a mille.Lei gemette appena, incitante.
Ma poi successe.
Con un solo movimento, usò le gambe per sollevarmi di scatto, spingendomi via dal suo corpo come se non pesassi nulla.
Rimasi in piedi, davanti a lei, con il respiro corto e il sangue in fiamme.
«Hey… chi ti ha dato il permesso?»Seduta sul divano, le cosce divaricate, una mano tra i capelli, Alberta mi guardava con quello sguardo beffardo e terribilmente eccitante.
«Comando io, ricordi? E i giochi non li finisco mai subito.»
Mi passai una mano sul volto, cercando di non perdere il controllo.Lei era un veleno lento.E io?Già stavo implodendo.
Rimasi lì, in piedi davanti a lei, il petto che si sollevava ancora per il fiato corto.Alberta mi guardava dall’alto in basso, seduta scomposta su quel divano come una regina sul suo trono.Le gambe leggermente divaricate, il vestito accavallato sulle cosce nude e quel sorriso…Dio, quel sorriso.
«Inginocchiati.»
La voce era un sussurro tagliente, un ordine velato da una dolcezza velenosa.Non mi mossi subito.Volevo resisterle.Ma lei sollevò appena una gamba, poggiandomi la punta del piede contro il petto.
«Fallo, Vale. Non farmelo ripetere.»
Mi scivolai lentamente in ginocchio, il pavimento freddo sotto di me che strideva con il calore assurdo che sentivo addosso.
Alberta prese la mia testa tra le mani, con calma, con quel modo suo di farmi sentire piccolo e al tempo stesso il centro del suo maledetto mondo.Avvicinò il piede alle mie labbra.
«Baciali.»
La sua voce aveva dentro tutto: sfida, malizia, potere.E io…Io lo feci.Sfiorai prima la caviglia, poi le dita curate, lentamente, senza staccare mai gli occhi dai suoi.
«Bravo ragazzo.»Sorrise, piegandosi appena in avanti per osservare meglio.
Le sue gambe erano perfette, lisce, profumate, e il battito nel petto diventava sempre più forte man mano che salivo.Le baciai il collo del piede, poi la caviglia, poi risalii piano lungo il polpaccio.
«Ogni centimetro, Vale. Voglio sentirti addosso. Voglio vedere fin dove hai il coraggio di arrivare.»
La sua voce si era fatta roca, sporca, tremendamente sensuale.Mi muovevo piano, labbra contro pelle, un inchino dietro l’altro.Lei aprì leggermente di più le cosce, accarezzandomi i capelli con una mano.
«Ti piace, eh?»Il tono beffardo mi scivolò addosso mentre arrivavo a sfiorarle l’interno del ginocchio.
«Lo sapevo che sotto quella faccia da duro c’era uno che sapeva stare al suo posto.»Mi tirò indietro di poco i capelli, costringendomi a guardarla.
«Dì che sono io a comandare stasera.»
La sua bocca era a un passo dalla mia, gli occhi fissi, maledettamente caldi.
«Comandi tu, Alberta.»
Sorrise soddisfatta.«Bravissimo. Ora… continua.»
Mi lasciò andare e io ripresi, labbra che scorrevano sulla pelle delle sue cosce, il respiro sempre più pesante.Sentivo il suo corpo fremere appena, mentre l’aria si faceva sempre più elettrica.
Era una dannata dea, e io…Suo.
Non riuscivo più a ragionare.Le sue gambe attorno al mio viso, il profumo della sua pelle, la voce che continuava a guidarmi come un filo invisibile.Ero perso.E lo sapeva.
«Bravino.»Mi sussurrò in modo sensuale, sfiorandomi il mento con il piede come si fa con un cane.«Lo sapevo che ti saresti inginocchiato per me. È divertente vederti così, Vale… sai?»
Il tono era velenoso e dolcissimo insieme, e io… io non trovavo più la forza di ribattere.Il mio orgoglio urlava, ma il mio corpo la cercava come una condanna.
«Togli la maglietta.»
La guardai, un attimo, come per cercare di capire se scherzasse.Non scherzava.Solleva un sopracciglio, un piede che mi premeva sul petto di nuovo.
«Dai, forza. Ti voglio vedere come si deve mentre obbedisci.»
La maglietta volò via in un attimo.Lei si mordicchiò il labbro, compiaciuta, accarezzandomi il petto con la punta del piede.
«Bello, il mio Vale. Quasi uno di quelli che si vergogna a dire quanto gli piace essere messo sotto.»
Mi strinse per i capelli e mi attirò di nuovo tra le sue gambe.
«Sai che hai perso, vero?»
«Lo so.»
«E quindi, per tutta la sera fai quello che ti dico. Nessun fiato. Nessun lamento. Nessuna scusa.»
Sfiorò la mia bocca con le dita.
«Sei mio.»
Le sue gambe si strinsero leggermente contro le mie spalle.
«Adesso baciami dove voglio io.»
Mi guidò piano, spostando la mia testa con decisione, facendomi passare sulle sue cosce, sull’interno morbido e caldo.La tensione era devastante.Il suo respiro che si faceva più pesante, il mio cuore che martellava ovunque.
«Più piano. Più lento. Voglio che ti ricordi questa sera quando starai con qualcun’altra. Che ti venga voglia di tornare qui a implorarmi di rifarlo.»
Il modo in cui lo diceva… dio, non era più solo un gioco.Era dominio puro.E io ci stavo sotto senza nemmeno accorgermene.
«Ti piace, vero?»
«Sì…»
«Come?»
«Mi piace, Alberta.»
Mi diede un leggero schiaffetto sulla guancia, nulla di violento, ma abbastanza da farmi mordere il labbro.
«Bravo ragazzo.»
Un suono dal suo telefono interruppe quell’atmosfera velenosa e perfetta.Si voltò, sbuffando, prese il cellulare e lesse il nome sul display.
Mattia.
Lo guardò, poi tornò su di me con un ghigno.
«Silenzioso, cucciolo.»
Rispose, la voce morbida, dolce, come se fosse appena uscita da una doccia, mentre io, a torso nudo, in ginocchio davanti a lei, cercavo di non impazzire.
«Certo amore… sì, tutto tranquillo qui…»
Mi guardò, mentre accarezzavo ancora la sua gamba.
Era il suo gioco.Io ormai c’ero dentro fino al collo.
Il telefono squillò e lei non esitò un secondo.Rispose con la solita voce dolce, quella che usava solo con Mattia.Quella che conoscevo bene.
«Ciao amore… sì, tutto bene…»
Mentre parlava, si alzò piano il vestito, senza smettere di fissarmi.Lo sguardo era quello di una predatrice.Con due dita spostò le mutandine di lato, e mi fece cenno con la testa.
Lo stomaco mi si chiuse.Era fuori da ogni logica.Fuori da ogni limite.
Ma avevo perso.E sapevo che non mi avrebbe lasciato via d’uscita.
Il suo piede premette contro la mia spalla, spingendomi dolcemente più vicino.
«Eh sì, sono uscita con le ragazze… no, Vale? No, non c’era…»
Mi bloccai per un istante.Le mani sulle sue cosce calde, lo sguardo che salì sul suo viso.Sorrideva al telefono, ma i suoi occhi mi inchiodavano.
«Come? Sì, tranquillo, domani passo a prendere le chiavi da tua madre…»
Mi abbassai, il respiro che si faceva più pesante.Sentivo il profumo della sua pelle, il calore tra le sue gambe.
«Certo, amore… tutto perfetto…»
Chiuse un attimo gli occhi mentre la mia lingua sfiorava la sua pelle.Si morse il labbro per non lasciar uscire nulla.
«Eh? No, scusa, c’è un po’ di casino di sotto…»
La sua mano affondò tra i miei capelli, stringendo forte.Iniziò a muovere il bacino, impercettibilmente, seguendo il ritmo della mia bocca.
Il contrasto tra il suo tono tenero al telefono e quello che stava succedendo era devastante.
«Sì, ti penso anch’io… anch’io tanto…»
La mia lingua seguiva ogni suo movimento, e il suo respiro si faceva più corto.Ogni tanto tratteneva un gemito, facendolo passare per un colpo di tosse o un sospiro.
«Va bene… anche tu… ti scrivo più tardi, sì… un bacio.»
Chiuse la chiamata con un sorrisetto soddisfatto, lasciando cadere il telefono accanto a sé.Poi mi guardò dall’alto, le labbra umide, le guance leggermente arrossate.
«Bravo il mio Vale…»Mi prese il viso tra le mani, avvicinandomi ancora.
«Non male… per essere uno che fa tanto il duro.»
Si accovacciò un attimo, il vestito sempre sollevato, e mi baciò sulle labbra senza troppa delicatezza.
«E ora… voglio vedere fin dove sei disposto a spingerti.»
Mi sfiorò il viso con le dita, il sorriso più cattivo e sensuale che avessi mai visto.
Non mi diede il tempo di riprendere fiato.Si alzò appena e con una spinta decisa mi fece sdraiare a terra.Il tappeto ruvido sotto la schiena, il battito impazzito nelle orecchie.
Si tolse le mutandine con un gesto lento e cattivo, lasciandole cadere addosso al mio petto.
«Adesso basta giochi, Vale…»La voce roca, sporca di desiderio e potere.
Si avvicinò a cavalcioni, e prima ancora che potessi dirle qualcosa, si abbassò e si sedette sulla mia faccia.Pesante, decisa, senza delicatezza.
«Adesso mi servi come si deve.»
Non riuscivo nemmeno a parlare, solo respirare il suo profumo e muovere la lingua come lei voleva.Le sue mani si aggrapparono ai miei capelli, guidandomi senza pietà.
«Così… sì, così…»Iniziò a gemere piano, mordendosi le labbra, gli occhi chiusi, il busto che si muoveva sopra di me.
Ogni tanto scendeva ancora di più, trattenendo il respiro, godendo senza preoccuparsi di niente.
«Sei mio adesso, Vale… mio…»
Non c’era più niente da salvare, nessuna dignità, nessuna scusa.Solo lei che mi dominava senza lasciarmi scampo.
I suoi gemiti si fecero più forti, il respiro spezzato, il corpo che tremava leggermente.Si muoveva sopra di me, piegandosi all’indietro, le mani sui suoi seni, la testa che ricadeva.
«Dio… sì…»Il suo corpo che si stringeva, la voce rotta.
Poi si fermò, appoggiandosi su di me, il viso arrossato, i capelli scompigliati, il sorriso più perverso che le avessi mai visto.
Scese lentamente, si chinò su di me, sfiorandomi le labbra col dito bagnato.
«Bravissimo…»Mi baciò piano, mordendomi appena.
«Ma la serata… è ancora lunga.»
Mi guardò con quegli occhi lucidi e soddisfatti.E capii che avevo solo appena cominciato a perdere.
Mi ritrovai ancora lì, in ginocchio, col fiato che mi bruciava in gola e la testa leggera come se avessi bevuto litri di quell’alcol che invece era solo la sua pelle a farmi girare così. Alberta mi fissava dall’alto in basso, sfrontata, spettinata e bellissima in quel modo sporco e sfacciato che solo lei sapeva avere.
«Te la sei guadagnata, Vale…» sussurrò con un sorriso diabolico, sedendosi sul divano e accavallando le gambe lentamente, facendosi scivolare il vestito sulle cosce nude. «Ti meriti un premio.»
Non capii subito cosa intendesse, finché non si alzò leggermente e poggiò il piede contro il mio petto, spingendomi all’indietro. Mi ritrovai seduto sul pavimento, guardandola mentre si mordicchiava il labbro inferiore e si toglieva piano i tacchi, rimanendo scalza.
«Sdraiati e togli tutto.»
La voce calda, autoritaria. Obbedii. Lei era sul divano sopra di me, il piede caldo che scivolò lentamente giù, passando sul mio petto, sulla pancia, fino a fermarsi esattamente dove sapeva di farmi impazzire.
Un sussulto mi attraversò. Lei rise piano.
«Così… te lo sei meritato, Vale. Ma c’è una regola.»
Abbassò lo sguardo su di me, quegli occhi verdi carichi di malizia e potere.
«Non vieni finché non te lo dico io. Chiaro?»
«Alberta…» provai a protestare, ma lei spinse leggermente con il piede e gemetti.
«Chiaro?» ripeté più decisa, e io annuii, il cuore ormai a martellarmi in gola.
«Bravissimo…»
Iniziò a muoversi, lenta, sensuale. All’inizio il piacere era sopportabile, una tortura dolce che mi faceva trattenere il respiro e stringere i pugni. Lei si divertiva un mondo, sussurrava cose sporche e cattive, il piede che alternava carezze e pressioni più intense.
«Ti piace, eh? Guarda che faccia…»
Più il tempo passava, più diventava impossibile resistere. La pelle mi bruciava, i muscoli contratti, la testa che mi implorava di lasciarmi andare.
«Ancora no, Vale… ancora un po’.»
Si piegò verso di me, il piede che non smise di muoversi.
«Devi imparare chi comanda.»
Ero pronto a esplodere.
«Alberta, ti prego…»
Lei si morse il labbro e, solo allora, con un sussurro contro il mio orecchio, disse:
«Adesso.»
E fu come perdere il controllo di tutto.
Ero lì, steso sul pavimento, il respiro corto e le mani che stringevano il tessuto del tappeto sotto di me come se fosse l’unica cosa che mi tenesse ancorato alla realtà. Alberta sopra di me, seduta comoda sul divano, le gambe allungate, il piede caldo e morbido che continuava quella tortura lenta e velenosa.
Il suo tallone sfiorava appena, poi saliva, le dita accarezzavano, poi stringevano leggermente, facendo pressione nei punti più sensibili. Ogni movimento era studiato, dosato, calibrato per portarmi sempre più vicino a quel limite che lei voleva controllare.
«Guarda come ti riduco…» sussurrò, godendosi lo spettacolo.Il piede scivolò, accarezzandomi piano, poi tornò a premere più deciso.Era una miscela di piacere e frustrazione, il corpo che urlava, la testa annebbiata.Lei sorrideva, ogni tanto si passava la lingua sulle labbra, stuzzicante e crudele.
«Non ancora…» sussurrava. «Ancora no.»
Ma il tempo passava e il confine tra resistenza e follia si assottigliava.
E poi…Un movimento più deciso, il piede che premette esattamente dove non avrei dovuto cedere, le dita che si muovevano lente e precise, e io non ce la feci più.
Fu un’esplosione, un brivido che mi attraversò tutto il corpo, e senza nemmeno riuscire a controllarlo, venni, caldo, abbondante, bagnandole i piedi, le caviglie, il pavimento.
Il mio respiro spezzato, la pelle umida di sudore, il cuore impazzito.Rimasi immobile, esausto, mentre lei si rese conto di quello che era appena successo.
Il suo sguardo cambiò.Da malizioso a severo.Una scintilla di velenosa soddisfazione e rabbia insieme.
«Vale…» disse a voce bassa, scostando piano il piede bagnato e fissandolo.
Si alzò lentamente, il piede ancora sporco, poi lo sfregò contro la mia guancia, sporcomi di quella colpa.
«Ti avevo detto di aspettare il mio permesso.»
Si chinò su di me, gli occhi puntati nei miei.
«Ora… dovrai pagare. E questa volta… farò di te il mio giocattolo per tutta la notte.»
Il modo in cui lo disse mi fece gelare e accendermi insieme.Perché sapevo che non scherzava.
«Guarda come sei ridotto…» sussurrò, accovacciandosi di fronte a me, il volto a pochi centimetri dal mio, gli occhi che brillavano di malizia. «Tutto nudo… tutto mio. E pensa che non ti ho nemmeno toccato davvero.»
Mi morse il labbro, poi risalì con la lingua lungo la mia guancia, fino all’orecchio. «Sai cosa voglio fare adesso?»
Non ebbi neanche il tempo di rispondere che mi spinse indietro con decisione, salendo sopra di me, le gambe che si aprirono lentamente stringendomi i fianchi. Non indossava più nulla sotto, e il calore della sua pelle contro la mia era un supplizio. Si sistemò a cavalcioni, senza lasciarmi davvero entrare, sfiorandomi solo con lentezza, con crudeltà.
«Lo senti quanto ti voglio…» sibilò, facendosi scivolare contro di me, provocando una scossa che mi attraversò la schiena. Ma poi si fermò di colpo.
«No, no, Vale. Non stasera.»
Mi diede uno schiaffo secco sul viso, poi un altro subito dopo. Mi sentii esplodere dentro, il piacere misto al bruciore di quelle mani che pretendevano di comandarmi.
«Ti piacerebbe scoparmi adesso, vero?» continuò, iniziando a muoversi più veloce, facendomi impazzire. «Ti piacerebbe sentirmi stringerti, sentire il mio sapore mentre ti divori…»
Scosse i fianchi con più violenza, senza mai lasciarmi entrare, solo strofinandosi su di me, il calore della sua pelle umida che mi faceva perdere il controllo. Poi mi prese il viso fra le mani, mordendomi il labbro con forza.
«Ma no, Vale… non è ancora il momento.»
Mi diede un altro schiaffo, più forte, poi mi spinse indietro contro il divano e, mentre ero lì a fissarla, senza fiato, sollevò leggermente il bacino e cominciò a strofinare il suo sesso bagnato contro il mio, lentamente, torturandomi.
«Se vieni senza il mio permesso di nuovo…» soffiò, stringendomi la gola con una mano, «ti faccio passare l’inferno, chiaro?»
Poi sorrise maligna e iniziò a muovere il bacino, prima lenta, poi più veloce, provocandomi come una dannata. Il suo corpo sopra di me, il calore, il profumo, il sapore della sua pelle, tutto era troppo. Sentivo di perdere il controllo, lei lo sapeva.
«Dai, vieni…» sussurrò all’improvviso. «Fallo. Dai, fallo adesso, cane.»
Ed esplosi, senza riuscire a trattenermi, calda passione che la inondò mentre lei si fermava di colpo. Mi guardò con quello sguardo crudele e soddisfatto, poi scese lentamente da sopra di me.
«Sei una delusione.» Sorrise, si chinò e con una carezza sul viso aggiunse: «Adesso ti punirò come meriti.»
Ero distrutto. Ansimante, nudo, umiliato e maledettamente eccitato. Alberta era lì, seduta di nuovo sul bordo del divano, le gambe accavallate, il vestitino ormai inutile su quel corpo sudato e perfetto. Mi fissava con quello sguardo da diavola, compiaciuta, mentre io lottavo con me stesso.
Avevo perso, ero suo. Ero arrivato a un punto in cui non mi importava più di niente
di Mattia, degli amici, del rispetto di me stesso. C’era solo lei, e quel maledetto bisogno di sentirla addosso.
«Alberta…» sussurrai, la voce roca, il respiro spezzato.
Lei inclinò la testa, un sorriso lento e malizioso a incresparle le labbra.
«Dimmi, Vale…» mi provocò, passandosi la lingua sulle labbra.
Mi inginocchiai ai suoi piedi, nudo, ancora sporco di passione. Non avevo più orgoglio.
«Ti prego… scopami.»
Lo dissi davvero. Quelle parole uscirono dalla mia bocca senza controllo, spinte da un desiderio così disperato da farmi tremare. Lei rise piano, si alzò dal divano e si chinò verso di me.
Mi sfiorò il mento con due dita e sussurrò, guardandomi negli occhi: «Il divertimento è finito, Vale. Ora vai.»
Mi rimase quel sorriso crudele e quel profumo sulla pelle. Lei si voltò, lasciandomi lì, nudo e distrutto. Raccolsi in fretta i vestiti, con il cuore in gola e la testa nel caos.
Uscì di casa senza voltarmi, con il sapore di lei ancora sulle labbra e un vuoto nello stomaco che nessun’altra avrebbe potuto riempire.
E mentre camminavo verso la moto, una sola, maledetta certezza mi bruciava addosso: avrei avuto la mia vendetta.
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