Tra dominazione e tradimento
Capitolo 1 - Il fascino del suo culo

C’erano poche certezze nella mia vita, e una di queste era Mattia.Amico da sempre, confidente, fratello di sangue anche se di sangue non ne condividevamo nemmeno una goccia. Avevamo condiviso tutto, dalle prime sbronze ai primi cuori spezzati, dalle notti passate a ridere come idioti sul divano ai momenti di merda in cui bastava uno sguardo per capirsi. Mi fidavo di lui più di chiunque altro e sapevo che, se mai avessi avuto bisogno, sarebbe stato lì. E io per lui.Almeno… fino a quel dannato errore.
È buffo come tutto possa cambiare in una sera.Come basta una scelta sbagliata, una mano lasciata scivolare dove non dovrebbe, per mandare a puttane anni di amicizia.E tutto questo aveva un nome: Alberta.
Non mi era mai piaciuta. Dal primo momento in cui l’avevo vista, con quel suo sorriso finto e l’aria di chi si sente sempre un gradino sopra agli altri. Opportunista, calcolatrice e tremendamente brava a manipolare le persone più buone. E Mattia era una di quelle persone. Un bonaccione, di quelli che ti offrono l’ultima birra anche se la volevano loro, che ti aiutano a traslocare senza nemmeno protestare, che si farebbero in quattro per vederti stare bene.Alberta lo sapeva e se ne approfittava.
Era il tipo di ragazza che non passava inosservata, questo glielo dovevo concedere.Una carnagione chiara, quasi di porcellana, interrotta solo da qualche brufolo qua e là e da quelle guance perennemente arrossate che finivano per renderla quasi più vera, più imperfetta e per questo più interessante.Il viso affilato, il naso piccolo e aggraziato, labbra corte ma appena piene quanto basta da far venir voglia di morderle, occhi grandi, di un verde chiaro ipnotico, sempre enfatizzati da quel trucco impeccabile che la faceva sembrare appena uscita da una rivista.
I capelli, ricci e lunghi, di un castano chiaro che al sole sembrava dorato.Un fisico snello, ben delineato, di quelli che sembrano fatti per attirare sguardi.Un seno nella media, non troppo grande ma dalla forma perfetta sotto qualsiasi vestito decidesse di indossare, un ventre piatto e gambe lunghe, provocanti, che sapeva muovere come un’arma.Ma il vero capolavoro era il fondoschiena: alto, sodo, e tremendamente invitante. Di quelli che se anche volevi evitare di guardare, finivi per caderci dentro lo stesso.
Il problema era che sapeva di essere così. E ci giocava.Con Mattia, con gli altri ragazzi, con chiunque potesse darle qualcosa in cambio di un sorriso.Con me, però, non aveva mai funzionato.O almeno… così pensavo.
Fino a quella sera.
Avevo vent’anni. Ero stupido.Ma a vent’anni lo siamo tutti, e non ci vergognavamo nemmeno di esserlo.Ci ritrovavamo spesso al solito bar, un grande spazio aperto con tavoli di legno un po’ sgangherati, biliardi dall’aria vissuta e quella puzza di birra secca e fumo stantio che ormai sapeva di casa. Era il nostro rifugio, il posto dove le serate iniziavano senza mai sapere come sarebbero finite.
Quella sera non faceva eccezione.C’era il solito gruppo: Mattia, Alberta, l’Arpia, e gli altri amici di sempre, seduti a un tavolo a ridere, scherzare, a fare battute idiote e a scattare foto che nessuno avrebbe mai voluto rivedere il giorno dopo.Io, però, avevo altro per la testa.
Da un po’ di tempo mi piaceva una ragazza che frequentava quel posto.Niente di serio, per carità — a vent’anni l’amore è un concetto vago e sfocato, ma lei aveva quel qualcosa che mi faceva girare la testa. Occhi scuri, un sorriso sincero e una voce che mi mandava al tappeto più di una bottiglia di rum.Quella sera avevo deciso di provarci davvero, complice qualche birra di troppo e i discorsi pieni di incoraggiamento idiota dei miei amici.
Mentre il resto del gruppo si faceva un altro giro di pinte, io ero intento a parlare con lei, tra battutine stupide e tentativi goffi di sembrare interessante.Mattia a un certo punto si era alzato, salutando tutti con quel suo solito sorriso tranquillo. Lui e alcuni dei nostri stavano andando a un compleanno dall’altra parte della città.
«Vale, tu vieni?»Aveva chiesto, alzando il sopracciglio, ma io ero troppo impegnato a guardare quegli occhi scuri per accorgermi di quanto, forse, sarebbe stato meglio andarsene con lui.
«No bro, resto qui… magari mi va bene stasera.»
Lui aveva riso, mi aveva dato una pacca sulla spalla e se n’era andato.Con lui anche altri ragazzi.Alberta, invece, era rimasta.Seduta lì al tavolo insieme alle altre ragazze del nostro gruppo.Rideva, beveva, lanciava sguardi a chiunque le capitasse a tiro, e ogni tanto incrociava il mio di sguardo, come se non aspettasse altro che il momento giusto.
Ma io avevo occhi solo per quella ragazza.O almeno… fino a quando non è andato tutto storto.
Quando tutto andò in malora fu quasi ridicolo.Dopo un flert durato tutta la sera, sguardi, sorrisi e qualche frase buttata lì al momento giusto, quella ragazza che mi piaceva se n’era andata.Così, senza neanche salutare.
Avevo girato la testa un secondo per prendere una birra al bancone, mi ero voltato ed era sparita.Fine.Game over.
Ero rimasto lì qualche minuto, a fissare il vuoto, con quella sensazione di presa per il culo tipica di quando pensi di essere sul punto di concludere e invece ti ritrovi a fare i conti con la tua stessa ingenuità.Fanculo.
Alla fine mi ero avvicinato al nostro tavolo.C’erano le ragazze del gruppo: Giulia, Marta, Chiara e, ovviamente, Alberta.Bevevano, ridevano di qualcosa che non avevo capito e quando mi avevano visto arrivare con quell’aria da cane bastonato, avevano iniziato a prendermi per il culo.
«Valeee… e la tua morosina? Già scappata?»Aveva scherzato Giulia, ridendo insieme a Chiara.
Avevo alzato gli occhi al cielo e preso una birra.«Andata.Bella figura di merda anche stasera.»
Le altre avevano riso, io mi ero seduto e avevo iniziato a bere.Complice l’alcol che cominciava a farmi sentire più leggero, la serata aveva preso una piega migliore.Battute, cazzate, discorsi che a fine serata nessuno avrebbe ricordato davvero.Ridere aiuta, e l’alcol pure.
Alberta, seduta di fronte a me, non aveva perso l’occasione di fare la stronza.Lei sapeva bene che tra noi due non c’era mai stata simpatia.Ci punzecchiavamo di continuo, lei con quell’aria da superiore, io rispondendole a tono, senza mai darle troppa soddisfazione.
Quella sera, però, aveva notato che il mio umore faceva acqua da tutte le parti, e aveva iniziato il suo giochetto.
«Vale… ma guarda che se continui a guardare nel vuoto così, qualcuno potrebbe pensare che ti manca il cervello.»
Aveva buttato lì, con quel suo sorriso da stronzetta, mentre sorseggiava il suo cocktail rosa shocking.
Avevo alzato lo sguardo, troppo brillo per infastidirmi davvero.«Tranquilla Alberta, il cervello ce l’ho. Lo tengo solo lontano da certi tipi di gente.»
Le altre avevano riso e lei aveva scosso la testa, ma il sorriso sulle sue labbra non era sparito.Anzi.Aveva rilanciato.
«Bravo, continua a bere va’, almeno ti renderai un po’ simpatico.»
E da lì era iniziata quella gara di battutine, piccole provocazioni, frecciatine che all’inizio erano solo il solito gioco.Niente di più.
O almeno… così sembrava.
Le ore passarono tra risate sempre più rumorose e bicchieri sempre più pieni.La musica di sottofondo si faceva appena sentire, coperta dal vociare della gente e dal rumore delle stecche sui biliardi.Al tavolo il gruppo aveva cominciato a sfoltirsi.Prima era andata via Giulia, poi Chiara che aveva detto di avere sonno, e infine Marta che aveva raggiunto il ragazzo.
Alla fine eravamo rimasti in quattro.Due ragazze che conoscevamo di vista e… Alberta.
Lei, ovviamente, non aveva mollato un colpo.
«Oh Vale, ma guarda che alla fine sei quasi simpatico quando sei brillo.»Aveva detto avvicinandosi al mio orecchio per parlare, il tono di voce più basso, quasi divertito.
Il suo profumo dolciastro misto all’alcol era una di quelle cose che avrei evitato volentieri da sobrio.Ma a quel punto… mi aveva fatto solo ridere.
«Guarda che tu invece resti stronza pure da sobria.»Avevo risposto ridendo, mentre buttavo giù l’ennesima birra.
Lei si era fatta più vicina, si era piegata verso di me e con la scusa di prendere qualcosa dal tavolo aveva sfiorato il mio braccio con il petto.Piccolo dettaglio: Alberta quella sera portava un miniabito aderente nero, scollato il giusto da lasciare pochissimo all’immaginazione e con un orlo che, seduta, faceva fatica a coprirle le cosce.Le gambe erano una roba seria.Lunghe, sode, perfette.
«Attento Vale…se continui così mi toccherà trovarti carino pure io.»Aveva buttato lì con un sorrisetto, tornando a sedersi.
Avevo scosso la testa ridendo, già abbastanza brillo da non badare troppo ai filtri.
«Magari dopo la decima birra.»Avevo risposto.
Lei si era alzata di scatto, ridendo, e mi aveva abbracciato da dietro, stringendomi le spalle.Il suo corpo addosso al mio.Caldo.Aderente.
Avevo fatto per spostarla via scherzando, ma senza la solita convinzione.
«Oh, levati Arpia.»Le avevo detto, senza troppo peso.
«Dai, non fare il timido adesso.»E mi aveva pizzicato una guancia come si fa ai bambini, ma con quel tocco in più.
Lo ammetto, all’inizio avevo continuato a schivarla, a farle battutine, a ignorarla.Ma il mix di delusione, alcol e noia aveva iniziato a scivolare via insieme ai freni.
A un certo punto, quando una delle ultime ragazze se n’era andata salutando, lasciandoci praticamente soli a quel tavolo, Alberta si era seduta proprio accanto a me.
«Oh, che tristezza, siamo rimasti io e te.»Aveva detto allungando le gambe sotto il tavolo, facendole sfiorare le mie.
Avevo riso.«Peggio di così…»
Lei mi aveva dato una pacca sul petto.«Dai, non fare il musone. Tanto lo sai che ti sto simpatica.»
«Tu? Mi stai simpatica quanto un’influenza intestinale a ferragosto.»
«Sei scemo.»E mi aveva abbracciato di nuovo, questa volta stringendo forte.
E lì… invece di scansarla, l’avevo afferrata per la vita.Così, ridendo.Un po’ per dispetto, un po’ per sfida.
«Ecco, ora basta però. Stai buona.»Le avevo detto mentre la tenevo stretta un secondo di troppo.
Lei aveva riso contro il mio collo, mordicchiandomi il lobo dell’orecchio.Leggerissimo, ma c’era.
Il mio stomaco aveva fatto quel classico colpo da alcol e tentazione insieme.
Lo sapevo che era una stronzata.Ma chi cazzo se ne fregava, in quel momento.
«E allora, lo fai o no il galantuomo stasera?»Aveva detto, piegandosi in avanti e sfiorandomi il braccio con il seno.
«In che senso?»Avevo risposto, fingendo di non capire mentre cercavo di non fissarle le cosce che il vestitino lasciava completamente scoperte.Pelle liscia, abbronzata, perfetta.
«Mi accompagni a casa o devo tornare a piedi?»Aveva buttato lì, il tono innocente come una coltellata ben piazzata.
Il mio cervello aveva tentennato.Avrei dovuto dirle di no.Avrei dovuto pensare a Mattia.Avrei dovuto ricordarmi quanto cazzo mi stava sulle palle quella ragazza.
Ma ero brillo.Troppo.E quella tensione… quella maledetta, sporca, irresistibile tensione mi stava giocando contro.
«Dai Vale… mica vorrai lasciarmi sola a quest’ora…»Aveva sussurrato avvicinandosi di nuovo, il fiato caldo all’orecchio.
Avevo scosso la testa ridendo.«Sei un’Arpia, lo sai?»
«Sì… e a te piacciono le stronze, ammettilo.»Aveva sorriso.
Avevo finto di schivarla, ma le mani intanto mi erano scivolate sulle sue gambe mentre scherzavamo, quasi senza rendermene conto.Lei non si era mossa.Anzi.
«Vedi che sei peggio di me.»Aveva sussurrato, mentre il mio palmo rimaneva lì, appoggiato sulla sua coscia.
La tenevo per la vita più del dovuto, sentivo il calore della sua pelle sotto le dita, il profumo della pelle e dell’alcol che mi annebbiava la testa.Era sbagliato.Era fuori luogo.Era inevitabile.
«Dai, prendi le chiavi e andiamo.»Aveva detto, mordicchiandosi il labbro inferiore.
Avevo guardato l’orologio, poi il locale mezzo vuoto.Tanto valeva.Almeno avrei evitato che si mettesse nei casini da sola.
«Ok, andiamo.»Avevo risposto.
Sapevo già che sarebbe finita male.Lo sapevo cazzo.
Ma avevo preso le chiavi comunque.
Il parcheggio dietro il locale era più deserto di quanto ricordassi. Due lampioni fiacchi, qualche auto sparsa e il rumore lontano della statale.Ci eravamo incamminati lì in silenzio, Alberta con la sigaretta accesa e il passo lento, io con il cervello ancora intorpidito dalla birra e da quella rabbia appiccicosa che mi era rimasta addosso.
«Bella serata, vero?»Aveva buttato lì lei, soffiando il fumo in aria.
«Stai zitta, va.»Avevo risposto senza neanche guardarla.
«Ah già… ti è andata male con la tua ultima preda.»Aveva sogghignato, avvicinandosi di un mezzo passo.
Avevo serrato la mascella, ma senza dire nulla.Lei, per tutta risposta, si era avvicinata ancora, passandomi davanti. Il vestito corto le scopriva metà coscia e con quel passo lento sembrava sfilare di proposito.
«Cos'è, adesso ti rode che ci sono solo io?»Aveva detto chinando leggermente la testa, il sorriso storto e gli occhi di ghiaccio puntati nei miei.
Avevo scosso il capo, soffocando una risata amara.«Fossi rimasto a casa era meglio.»
«Sì, certo. Tanto alla fine qui ci rimani sempre, Vale. Sempre a fare il brillante con tutte… e poi finisci a leccarti le ferite.»Aveva detto, appoggiandosi con la schiena alla mia moto.
Quella frase mi aveva punto.E il modo in cui si sistemava il vestito, tirandolo appena giù sulle cosce, ancora di più.
Avevo fatto un passo avanti, brillato e stanco di sentirla parlare.«Senti, Alberta…»
«Cosa? Mi vuoi mettere le mani addosso adesso?»Aveva sorriso, sfiorandomi il petto con due dita mentre parlava.
Avevo sentito il sangue farsi più caldo.La distanza troppo poca, l’alcol ancora che mi spingeva e quella voce di lei, bassa, insinuante.
Le avevo preso la mano, ridendo.«Se ti toccassi davvero te la sogneresti per mesi.»
«Parla, parla… pessimo amico.»Aveva sussurrato, facendosi ancora più vicina.
Avevo stretto la mascella.«Non sono il tipo che ci prova con la tipa del migliore amico.»
«Davvero?»Aveva sorriso, e in quel momento si era voltata appena, dandosi una sistemata alla scarpa col tacco.E lì, d’istinto, le avevo poggiato una mano sul fondoschiena.
Caldo. Sodo.Il vestito leggero che lasciava percepire ogni dettaglio sotto le dita.
Mi aspettavo una scenata.Un colpo, un insulto, qualcosa.Ma lei aveva riso piano, senza voltarsi, piegando solo la testa verso di me.
«Ehi… il bravo ragazzo sta uscendo dal personaggio?»Aveva sussurrato.
Avevo stretto piano, tirandola appena verso di me.Il profumo della sua pelle, il fumo di sigaretta, quella fottuta tensione che era esplosa tutta in un secondo.
«Non fare la furba, Alberta.»
«Furba io? Sei tu che hai messo quella mano lì.»Aveva risposto, piegandosi appena all’indietro contro il mio petto, il fondoschiena che sfiorava la mia mano in modo ancora più audace.
Mi era partito un mezzo sorriso.«Se vuoi che la tolga, basta dirlo.»
«Se volevo che la togliessi, l’avrei già fatto.»Aveva detto, voltandosi a guardarmi. Gli occhi verdi che ridevano.
La mano rimase lì, il battito accelerava.La lucidità stava tornando, ma non la voglia di fermarmi.Anzi.
Lei aveva fatto un mezzo giro, poggiandosi con la schiena alla moto, il corpo vicino al mio, una distanza che non lasciava più spazio al gioco.
«Sei proprio un pessimo amico, Ale.»
«E tu una stronza opportunista.»Avevo risposto, ma senza smettere di fissarle le labbra.
E lì… si poteva solo andare avanti.
Rimanemmo così.Vicini. Troppo.Il respiro che si confondeva, il calore della pelle che passava attraverso i vestiti leggeri e il profumo di lei che sapeva di vaniglia e fumo, e di quella maledetta notte d’estate.
Le dita continuavano a restare dove non avrebbero dovuto, il mio palmo sul suo fondoschiena, il suo fianco che si premeva contro di me, e quelle battute velenose che erano diventate più basse, più lente, più cariche.
«Se solo Mattia sapesse…»Aveva sussurrato lei, il mento appena sollevato e gli occhi puntati dentro i miei.
Avevo stretto i denti, ma non mi ero mosso.«Se solo tu fossi meno stronza.»
Le nostre labbra a un soffio.Il mondo sembrava muto, lo stomaco stretto, il cervello annebbiato e quella maledetta voglia che mi strappava via il fiato.
Ma poi.Ci fermammo.
Fu uno di quegli attimi dove entrambi sapevamo perfettamente che se fossimo andati avanti, sarebbe stato impossibile tornare indietro.Le dita si sciolsero, lo sguardo rimase, ancora un secondo di troppo.
Lei lasciò andare un sorrisetto storto, si girò e salì sulla moto.
Io rimasi immobile a fissarla, con quella voglia addosso che faceva quasi male.
Accesi il motore, l’adrenalina ancora in corpo.Lei si voltò appena, con quel maledetto sorriso.
«Lo sapevo che alla fine avresti ceduto.»
E partimmo.Senza aggiungere altro.Ma in quell'istante, sapevo che non sarebbe finita lì.
E che avevo appena commesso il primo, grande errore.
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