Tentazione a pagamento

Capitolo 4 - Sesso e Sangue

Astronomo
3 days ago

Entrai a scuola con un passo diverso, quella mattina. Più sicuro, più deciso. Avevo ancora addosso l’odore della sera prima. La sua pelle calda sulla mia lingua, le sue mani sul mio petto, il suo respiro afoso contro il mio collo… mi sembrava impossibile che qualcosa tra noi non fosse cambiato.

Dopo quello che avevamo fatto — dopo il modo in cui si era lasciata andare, dopo le cose che mi aveva detto, e il modo in cui si era aggrappata a me — non poteva essere solo uno dei suoi soliti giochi. Doveva significare qualcosa.

Appena entrai in aula, mi guardai subito intorno. Il cuore accelerò nel petto quando la vidi, al solito banco vicino alla finestra. Era piegata in avanti, i capelli castani sciolti sulle spalle, la felpa grigia tirata su abbastanza da lasciar intravedere un pezzo di schiena. Parlava con due compagni, rideva di qualcosa che uno di loro stava mostrando sul telefono. Quel sorriso — quel sorriso che fino a poche ore prima era solo mio — ora era là, in mezzo a tutti.

Le lanciai uno sguardo rapido. Non uno sguardo di quelli che scivolano e basta: era una ricerca. Un richiamo silenzioso.

Lei non si voltò.

Mi bloccai a metà corridoio, restando qualche secondo in piedi senza motivo. Poi mi avviai al mio banco, cercando di non fare rumore, come se fosse colpa mia disturbare quella leggerezza.

Per tutta la prima ora provai a intercettare un minimo segnale. Un’occhiata di sottecchi. Un mezzo sorriso. Una qualsiasi cosa che confermasse quello che mi ero raccontato fino a quella mattina: che ero speciale. Che ero diverso dagli altri. Che il suo corpo e la sua bocca me li aveva dati perché mi voleva.

Ma lei non mi guardò. Non una volta. Continuava a giocare con i capelli, a sfogliare il libro con nonchalance, a ridere ogni tanto con i soliti due deficienti dietro di lei. Uno di loro si avvicinò e le disse qualcosa all’orecchio. Lei piegò la testa all’indietro e rise di gusto.

Aveva le labbra lucide, oggi. Rosse. Ero sicuro che le avesse truccate apposta. Per chi?

Il mio stomaco si chiuse su se stesso. Tutta quella sicurezza con cui ero entrato, evaporata nel giro di dieci minuti. Mi sentivo ridicolo. Mi sentivo uno qualunque.

Eppure non riuscivo a staccare gli occhi da lei.

Ogni dettaglio mi sembrava più forte, più vivido. Il modo in cui si mordeva il labbro distrattamente mentre sottolineava. Il movimento lento del piede sotto al banco, quello con cui faceva dondolare la sneaker bianca. Le dita sottili che giocherellavano con l’elastico dei capelli. Le avevo sentite addosso, quelle dita. Sapevo esattamente com’erano.

E lei? Si ricordava?

Mi mordicchiai un’unghia, cercando di distrarmi, di tornare sul mio quaderno. Ma ogni cosa mi riportava a lei. Alla notte passata, a come l’avevo fatta gemere, a quanto ero stato stupido a pensare che… forse… per una volta… qualcosa fosse vero.

Non sapevo se ero più arrabbiato con lei o con me stesso.

Una volta, durante la seconda ora, mi sembrò che mi guardasse. Solo per un secondo. Un lampo. Ma poi distolse subito lo sguardo, come se niente fosse.

E io mi sentii scomparire.

Il pomeriggio al centro giochi fu lento, trascinato. Sistemavo i tappetoni colorati con lo sguardo basso, cercando di non incrociare il suo. Ma la sua presenza era ovunque. Rideva forte, come sempre, con quei bambini che sembrava addomesticare senza sforzo. Ogni tanto mi lanciava un’occhiata veloce, obliqua, come se stesse controllando quanto fossi ancora incastrato nei suoi giochi.

Ero incastrato, sì. Ma stavolta anche arrabbiato.

Mi sentivo un idiota. E nello stesso tempo, non riuscivo a togliermi dalla testa quella notte. Le sue mani, il suo respiro, il modo in cui mi aveva guardato quando ero sopra di lei. Era stato vero. Doveva essere stato vero. O no?

Mentre riponevo alcune sedie, la sentii arrivare alle mie spalle.

«Hai ancora quella faccia?» sussurrò, con quel tono a metà tra lo scherzo e la lama. «Sai che così sei meno carino?»

Non risposi. Mi limitai a voltarmi piano, senza sorridere.

Lei alzò un sopracciglio. «Cos’è, non ti è bastata la lezione dell’altro giorno?»

La fissai. Dentro di me c’era un groviglio di rabbia e voglia. Le parole mi uscirono prima ancora di pensarle.

«Voglio di più.»

Il sorriso le si congelò per un attimo sul volto. Poi tornò, più lento, più affilato.

«Ah sì? E cosa intendi per “di più”?» Si avvicinò di un passo. I suoi occhi brillavano.

Ingoiai la saliva. Lei era vicina adesso, abbastanza da sentire il suo profumo, quel misto di vaniglia e fumo che mi faceva impazzire. Abbassò la voce, quasi un soffio:

«Vuoi provarmi davvero tutta, Luca?»

Annuii. Sapevo che mi stavo esponendo troppo, ma ormai era tardi per tirarmi indietro. «Sì… voglio te. Tutta.»

Per un istante, solo un istante, la sua espressione sembrò incrinarsi. Una crepa minuscola, quasi impercettibile. Ma poi si ricompose in un battito.

«Peccato.» La sua voce era cambiata. Più fredda, più distante. «Quella parte non è in vendita.»

Mi sentii crollare dentro. Restai lì, in silenzio, mentre lei si allontanava come se niente fosse, con quel passo sicuro che sapeva di vittoria. E io, ancora una volta, ero solo quello che stava dietro a raccogliere i pezzi.

Le parole mi erano rimaste addosso, come una doccia gelata. “Quella parte non è in vendita.” Eppure io l’avevo assaggiata, l’avevo toccata, respirata. Era venuta per me. Solo per me.

Fuori dal centro giochi, mentre buttavamo via i sacchi della plastica, non riuscii più a trattenermi.

«E quindi a me solo i giochini, eh?» sbottai, la voce più alta di quanto volessi. «E agli altri cosa dai? Il pacchetto completo?»

Lei si fermò di colpo, col sacco ancora in mano. Si voltò verso di me lentamente, come se stesse decidendo se ridere o graffiarmi.

«A loro?» disse, glaciale. «Solo una mano. Pagano, si sfogano, vanno via. Nessuno si lamenta.»

Serrò la mascella, poi fece un passo verso di me. «A te… molto di più. Ma tu vuoi di più perché vuoi possedermi.»

«Non è vero…» dissi piano, ma la voce mi tremava.

«Sì che lo è.» Ora mi era davanti, gli occhi lucidi di rabbia trattenuta. «Vuoi scoparmi per sentirti speciale. Per convincerti che vali qualcosa. Ma io non sono un premio da vincere.»

Il sangue mi saliva alle orecchie. «Io non…»

«Non cosa?» ribatté, affondando. «Non sei come gli altri? Non sei un ragazzino insicuro che ha bisogno di farsi una ragazza come me per credere di contare qualcosa?»

«Sto solo cercando di capirti…» sussurrai, ma ormai non ci credevo nemmeno io. Ero troppo nudo davanti a lei.

Lei scosse la testa piano. «No. Tu stai cercando di prenderti qualcosa. Ma io non te lo devo.»

Abbassai lo sguardo. Le parole erano come coltelli, uno dopo l’altro. Mi bruciavano la gola, le mani, gli occhi. Trattenni il fiato. Poi la rabbia lasciò spazio a una vergogna sorda. Sentii le lacrime salire e odiavo me stesso per questo.

Lei mi fissava ancora, ma adesso il fuoco nei suoi occhi sembrava più tenue. Più triste. Forse.

Non dissi niente. Non ce la facevo.

Lei si girò, scrollando le spalle. «Chiamami quando vuoi solo una mano. Quella non manca mai.»

E se ne andò, lasciandomi lì, con la gola stretta, il petto in fiamme e una voglia disperata di toccarla ancora.

A casa il silenzio mi esplose addosso.

Chiusi la porta con troppa forza e mi buttai sul letto vestito, lasciando lo zaino a terra. Il soffitto era immobile, bianco, uguale a tutte le altre sere. Eppure dentro di me c’era un caos che non riuscivo a contenere.

Mi girai di lato, poi dall’altro. Era come se avessi fuoco sotto la pelle.

Ogni volta che chiudevo gli occhi, tornava tutto: la sua voce che si abbassava quando voleva stuzzicarmi, le sue dita sulla mia pelle, il suo sguardo mentre faceva finta di non provarci davvero. La sua bocca. Il suo seno. La sua pelle. Quel maledetto sorriso con cui mi teneva in pugno.

La rabbia mi stringeva la gola. Rabbia per lei, per me, per il modo in cui mi lasciava addosso questa fame e poi spariva. Perché non riuscivo a scrollarmela di dosso? Perché sembrava sempre un passo avanti, mentre io restavo a leccarmi le ferite?

Mi toccai senza pensarci, quasi con rabbia, come per scacciare tutto. Ma il piacere arrivò distorto, frustrato. Una scarica violenta e inutile. Mi sentii più vuoto dopo. Peggio.

«Non sei speciale.» Le sue parole mi tornarono in testa come un’eco cattiva.

Eppure… a me sembrava di aver visto un lato di lei che non mostrava a nessuno. Quel modo in cui tremava mentre veniva, come se si lasciasse andare davvero. Quel respiro spezzato che non sembrava solo parte del suo “lavoro”.

Se si concede a tutti, perché a me no?

O… è proprio con me che si è concessa davvero, e adesso ha paura?

Quella domanda mi trafisse. Non avevo risposte. Solo un vuoto in petto che non riuscivo a colmare. Un desiderio che sembrava diventare sempre più vivo ogni volta che lei mi respingeva.

Chiusi gli occhi, cercando di dormire. Ma il pensiero di Tresy era una fiamma che non si spegneva.

Non ce la facevo più a stare chiuso in camera. Avevo bisogno di respirare, di allontanarmi da tutto, da lei, da me. Uscì di casa senza una meta precisa, solo con l’idea vaga di tornare là, in quel posto dove mi aveva portato la prima volta. Un angolo nascosto tra palazzi fatiscenti e asfalto umido, dove l’aria sapeva di fumo, rabbia e desiderio.

Mi fermai al cancello arrugginito, ancora indeciso se entrare. Ma poi la vidi.

Tresy era lì.

Appoggiata a un muretto, con la solita sigaretta tra le dita, indosso solo una felpa oversize e i leggings scuri. Aveva il volto parzialmente illuminato dalla luce gialla di un lampione, i capelli sciolti, lo sguardo altrove. Non era sola.

Un ragazzo le stava accanto, seduto sulla panchina li. Magro, felpa nera con il cappuccio abbassato, uno sguardo cupo, che non mi piaceva per niente. Ridevano. Lei parlava sottovoce, si avvicinava, gli batteva una mano sul ginocchio. Io mi fermai, nell’ombra.

Il sangue mi salì alla testa. Cliente? Un altro? Dopo tutto quello che avevamo passato, dopo quello che c’era stato tra noi… era con un altro?

Il ragazzo si accorse di me.

Mi fissò.

Uno sguardo diretto, aggressivo. Si alzò in piedi.

“Che cazzo vuoi?” disse, ad alta voce.

Feci un mezzo passo indietro. “Io… niente. Passavo di qui.”

“E ti fermi a guardare, così? Ti piace?” La voce gli si fece più dura. “Che sei, uno dei soliti maniaci?”

Tresy si voltò di scatto, notando solo in quel momento la mia presenza. I suoi occhi si allargarono.

“Luca, vattene,” mormorò. Ma era troppo tardi.

Il ragazzo si avvicinò con passi rapidi. Aveva qualcosa di feroce nel viso.

“Ah, quindi tu sei quello nuovo. Quello che la fissa a scuola, quello che si crede meglio degli altri.” Si fermò a un palmo da me. “Fatti un giro, coglione.”

“Chi sei tu?” chiesi, cercando di mantenere il controllo, anche se dentro tremavo.

“Il suo ragazzo” sputò. “E non ho ancora finito con lei. E nemmeno con te.”

E poi… il primo pugno arrivò.

Un colpo secco, senza preavviso, dritto al volto. Barcollai all’indietro, sentii il sapore del sangue in bocca, e subito dopo un altro pugno, poi un calcio. Caddi a terra, le braccia a coprirmi la testa. Lui continuò. Calci, insulti, rabbia.

Tresy urlava, cercava di fermarlo, ma lui la spinse via.

“Sei ancora mia, capito? Mia!”

La voce era impastata d’odio.

“Basta!” gridò lei, più forte. Ma non si muoveva. Era pietrificata. Come se sapesse già come andava a finire.

Poi urlò davvero. Un urlo pieno, disperato.

Due agenti di pattuglia sbucarono dal fondo della strada. Lampi blu. Voci che si sovrapponevano.

“Alt! Polizia!”

Il ragazzo si voltò, vide le divise, e senza pensarci scappò via, correndo tra i palazzi.

Tresy si gettò su di me, ansimante.

“Luca… stai bene? Dimmi che stai bene…”

Avevo il labbro rotto, il naso forse pure. Il viso gonfio, le mani graffiate. Ma annuii, lentamente.

“Ti porto a casa. Subito.”

Mi aiutò ad alzarmi, passandomi un braccio attorno alla vita. Le sue mani tremavano. Anche lei, ora, aveva gli occhi lucidi.

Non parlò per tutto il tragitto.

Ma il modo in cui mi stringeva… era qualcosa che non avevo mai sentito prima. 

Mi fece entrare a casa quasi di peso, chiudendo la porta dietro di sé con un piede. Non parlava, ma il respiro corto e le mani che tremavano dicevano tutto.

«Siediti. Anzi… stenditi.» La sua voce era più bassa, diversa. Seria.

Mi lasciò cadere lentamente sul divano. Il mio corpo doleva in ogni punto, ma cercai di non farlo notare troppo. Lei si chinò davanti a me, tirò fuori una vecchia scatola di pronto soccorso da sotto il mobile.

«Non serviva…» mormorai, con un filo di voce.

«Stai zitto.» Non c’era cattiveria nel tono, solo un nervosismo che la scuoteva tutta.

Si sedette sul bordo del divano, una gamba piegata sotto di sé, e cominciò a pulirmi il viso con una garza imbevuta. Bruciava. Ogni tocco era una fitta, ma restai immobile. I suoi occhi erano concentrati, quasi lucidi.

seguì le mie indicazioni.

Frugò velocemente nel mobile sotto la TV, tirò fuori la scatola rossa di pronto soccorso e si inginocchiò davanti a me. Con delicatezza, cominciò a tamponarmi il sopracciglio con una garza imbevuta. Bruciava, ma non dissi nulla.

«Chi… chi era quello?» chiesi piano.

Tresy si bloccò un istante. La sua mano si fermò a mezz’aria.

«Pensavi fosse il mio ragazzo?» mormorò, senza guardarmi.

Non risposi. Era ovvio. E in quel momento, l’umiliazione mi bruciava più delle botte.

Lei abbassò gli occhi. «È il mio ex. Simone.»

«È stato il mio ragazzo per quasi un anno. Era tutto carino, dolce, geloso… all’inizio pensi sia normale. Che uno ci tenga. Poi però… comincia a urlare. Poi a toccarti. Poi a farti credere che è colpa tua se sbotta.»

Le sue mani tremavano mentre mi disinfettava il sopracciglio.

«Mi ha spaccato il labbro, due costole… una volta sono finita in pronto soccorso dicendo che ero caduta dalle scale. Mia madre ci ha creduto. Io pure.»

Si fermò di nuovo. I suoi occhi si alzarono verso i miei. Per un istante sembrava piccola, fragile.

«Pensavo volesse solo ridarmi una cosa. Una scusa, in realtà. Aveva saputo di te da qualcuno a scuola… una stronza che ci aveva visti insieme fuori dal centro giochi. Ha fatto finta di niente, e poi si è presentato lì.»

Continuava a parlare, ma la voce sembrava sempre più spezzata.

Un nodo mi salì in gola.

«Perché non me l’hai detto prima?»

Lei mi guardò, poi abbassò lo sguardo.

«Perché mi vergognavo. Perché non volevo sembrare debole. E… perché tu non sei il mio ragazzo, Luca. Ma sei quello con cui mi sento più nuda. E non parlo di pelle.»

Rimasi in silenzio. Avevo il viso bruciato dal disinfettante, le mani graffiate, il cuore a pezzi.

Tresy si alzò in piedi, si portò le mani tra i capelli e camminò avanti e indietro.

«Quando l’ho visto partire verso di te… ho avuto paura. Non solo per te. Ma per me. Perché pensavo: ‘Se gli fa troppo male, Luca non tornerà mai più. Sparirà. Come fanno tutti quelli che mi vedono davvero.’»

Mi sedetti piano. Lei si voltò verso di me.

«Io non voglio più essere una ferita. Ma nemmeno un trofeo. E con te… mi sento sempre in bilico.»

Non parlai. Le allungai solo una mano, piano. E lei, dopo un lungo istante, la prese. Poi si accovacciò di nuovo accanto a me, senza dire niente. Il suo fiato era caldo sulla mia pelle ferita, il suo sguardo serio. Per la prima volta, non c’era sfida tra noi. Solo silenzio. E verità

La guardavo mentre passava la garza con movimenti lenti e precisi. Sembrava cercare di non incontrare il mio sguardo, ma ogni tanto i suoi occhi castani sfuggivano verso i miei, veloci come un colpo di vento. Era diversa così, spettinata, tesa, quasi fragile. Ma non mollava il suo personaggio.

«Non devi avere paura di me, Tresy,» dissi piano. La voce mi uscì più dolce di quanto avessi previsto. «Io non voglio farti del male. E non ti vedo come un premio.»

Lei scosse la testa, facendo un piccolo sbuffo sarcastico. «No? E allora perché ogni volta che mi guardi sembri pensare “la voglio tutta per me”?»

«Perché ti voglio,» ammisi, con un nodo in gola. «Ma non come pensi tu. Non per vantarmi. Non per farmi sentire più uomo. Ti voglio perché con te mi sento vivo. E quando non ci sei, mi manca l’aria.»

Si fermò. Restò così per un istante, con il batuffolo insanguinato tra le dita e lo sguardo perso da qualche parte sul mio petto.

Poi sorrise. Un sorriso storto, affilato. «Cavolo. Hai fatto pratica con le frasi da film, eh?»

«Tresy…»

«No, dai. Seriamente. È tenero. Un po’ da maniaco del romanticismo, ma tenero.»

Riprese a disinfettarmi il sopracciglio con più delicatezza, quasi con rispetto. Ma nel tono rimaneva quella lama appuntita, quel modo tutto suo di tenersi distante anche mentre si avvicinava.

«Sai quanti mi hanno detto cose così?» continuò, abbassando lo sguardo. «“Io sono diverso”, “con me sarà tutto diverso”, “non ti farò mai male”. E poi mi guardavano come si guarda una cosa rara. Una troia preziosa. Un bel trofeo da mostrare agli amici.»

«Io non…» provai a dire.

Lei alzò la mano per zittirmi, ma con un gesto quasi tenero. «Lo so. Tu sei più bravo a nasconderlo.»

Fece una pausa, poi alzò gli occhi. «Ma quando ti ho detto che quella parte di me non era in vendita… tu ti sei chiuso. Hai fatto la stessa faccia che fanno tutti. Quella da bambino deluso che non ha ottenuto il regalo che voleva.»

Il mio petto si strinse. Era vero. Ma non era tutto.

«Non era solo delusione. Era gelosia. E paura. E sì, anche frustrazione. Ma non perché voglio usarti, Tresy. Perché voglio capirti. E non so se posso.»

Lei inclinò la testa, un sorriso provocante sulle labbra. «Capirmi? Brutto progetto. C’è gente che ha provato e si è fatta male.»

«Forse voglio farmi male allora.»

Lei rise. Un suono corto, quasi sincero. «Hai decisamente problemi, Luca.»

Poi soffiò piano sulla ferita disinfettata. Il suo respiro caldo mi sfiorò la pelle, e il brivido che mi attraversò fu immediato.

«Adesso ti metto il cerotto,» disse, cercando qualcosa nella scatola. «E se fai il bravo, ti porto pure un ghiacciolo. Sai, per il trauma.»

Sorrisi, nonostante tutto. La tensione si era trasformata in qualcosa di più morbido, più denso. Ma dietro il tono scherzoso, io vedevo la sua paura. Il suo bisogno di non lasciarsi andare. Di non fidarsi davvero.

Eppure era lì. A casa mia. Che mi curava. Che si lasciava vedere.

E in quel momento, capii che non serviva correre. Bastava restare.

Mi accarezzò piano la nuca, poi mi sollevò con dolcezza, facendomi poggiare la testa sul suo grembo. Le sue dita scorrevano tra i miei capelli, lente, quasi affettuose. La guardai da sotto in su, con il respiro ancora irregolare. Lei sorrise, quel sorriso che era insieme tenero e malizioso.

«Ehi…» mormorò, inclinando appena la testa, «hai ancora male?»

Scossi piano la testa. Non più. Non davvero. La sua vicinanza mi calmava, il suo corpo caldo contro il mio era più efficace di qualunque disinfettante.

«Mh,» mormorò, con un mezzo sorriso. «Sai… potrei anche fare di più per farti stare meglio.»

Sollevai lo sguardo, curioso. Ma lei rise, abbassandosi appena con il viso vicino al mio.

«Tranquillo, so già cosa fare. Tu devi solo startene buono, piccolino.»

Mi prese bonariamente in giro con quella sua voce suadente e ironica che sapeva benissimo come colpirmi. Poi si spostò un po’, si tolse la felpa e, subito dopo, anche la maglia sotto. Rimase solo con la pelle nuda sotto di me, il seno morbido e abbondante a pochi centimetri dal mio viso.

«Dai, piccolo mio…» sussurrò, con un sorriso divertito e provocante. «Un po’ di lattuccio?»

Lo disse come una battuta, certo. Ma quella battuta mi fece girare la testa.

Il tono era quello di sempre, da attrice consumata, ma i suoi occhi erano più profondi. Forse stava ancora giocando. O forse, per un attimo, si stava lasciando andare.

Io, lì sotto, non avevo più difese.

E forse non ne volevo.

Sentii le guance andare a fuoco, ma non mi tirai indietro. Mi sollevai appena e mi chinai su di lei, le labbra che trovarono il suo seno con timidezza. Lo baciai prima, con attenzione, e poi iniziai a succhiare piano, leccando la pelle con movimenti lenti e incerti.

Lei sospirò, la mano che mi stringeva la nuca con più forza. Sentivo il suo respiro cambiare, il petto sollevarsi piano sotto la mia bocca.

«Mh… così bravo per essere così nuovo a certe cose…» sussurrò, socchiudendo gli occhi.

Continuai a muovermi con la bocca, ogni tanto sollevando lo sguardo verso il suo viso. Volevo che mi dicesse che andava bene. Che le piaceva. Che ero io a farle provare qualcosa di vero.

E quando vidi il modo in cui tratteneva il respiro, il modo in cui le sue dita si chiudevano tra i miei capelli… capii che sì, in quel momento ero io. Solo io.

E avrei voluto restare lì per sempre.

Continuai a baciarla, a succhiare il suo seno con sempre più sicurezza, spingendomi un po’ oltre ogni volta. Lei lasciava fare, con un respiro sempre più caldo, gli occhi socchiusi e la schiena che si incurvava appena sotto le mie labbra. Le sue mani, che prima accarezzavano soltanto la mia nuca, iniziarono a scendere. Una si fermò sulla mia spalla, l’altra esplorò la mia schiena, lenta, mentre io lasciavo che le dita salissero a sfiorarle l’altro seno, più timido che sicuro, ma comunque assetato di sentirla.

La sua pelle era calda, viva. La forma piena del suo petto si muoveva sotto le mie mani, e io mi perdevo nel contrasto tra la sua morbidezza e la tensione che le sentivo sotto le dita, come se anche lei stesse trattenendo qualcosa.

«Così assetato, eh…» sussurrò con un sorriso appena accennato, la voce graffiata dal respiro.

Avvertii la sua mano scivolare più in basso, con una lentezza che faceva salire il cuore in gola. Si fermò sopra i miei pantaloni, la pressione leggera ma decisa, sfiorando attraverso il tessuto il mio desiderio ormai impossibile da ignorare. Mi strappò un gemito involontario, breve, e lei rise piano.

«Mmh… ma guarda com’è vivo, il mio piccolo Luca.»

Arrossii, ma non mi fermai. Le mani le massaggiavano il seno con più decisione ora, alternando carezze e pressioni leggere, mentre la mia bocca continuava a giocare con il capezzolo, leccando, succhiando, respirando sulla sua pelle. La sentivo fremere, vibrare sotto di me.

La sua mano aumentò la pressione, il palmo che si muoveva in piccoli cerchi sopra il tessuto teso dei miei pantaloni. Ogni suo gesto sembrava sapere esattamente cosa mi mandava fuori controllo.

«Così ti piaccio davvero, eh?» sussurrò, inclinando la testa e guardandomi con quello sguardo mezzo tenero e mezzo crudele che mi stregava. «Ma non è solo questo che vuoi… vero?»

Non riuscii a risponderle. Non a parole. Ma la mia bocca, il mio corpo, le mie mani le stavano già dicendo tutto.

Sentivo la sua mano che si muoveva con lentezza provocante, ma i suoi occhi dicevano tutt’altro. Mi stava leggendo, scrutando ogni mio respiro, ogni mia esitazione. Non avevo più difese.

Il mio respiro diventò affannoso quando la sua mano scivolò sotto la cintura. Il calore del suo tocco, improvviso e diretto, mi fece sobbalzare. Lei non distolse lo sguardo. Lo fece con naturalezza, come se fosse la cosa più semplice del mondo. Ma per me fu un’esplosione.

Sospirai, trattenendo un gemito. Le sue dita si muovevano con sicurezza, lente ma sempre più decise, sfiorandomi con quel misto di grazia e malizia che la rendeva inarrivabile. Ogni suo movimento sembrava studiato per spingermi al limite.

«Respira, piccolo mio…» mormorò, con un sorriso tenero e crudele insieme. «Non vorrai svenire sul seno che ti piace tanto, eh?»

Mi strappò una risata strozzata, soffocata dal piacere che saliva e mi prendeva tutto. Mi strinsi a lei, nascondendo il viso nel suo collo, cercando di non perdere il controllo. Ma lei non rallentava. Anzi.

Con una mano lo guidava, con l’altra ancora mi stringeva. Ogni respiro era una corsa, un’onda che non si fermava. Il suo corpo sotto il mio, il calore del suo seno contro la mia pelle, e quella mano, viva, presente, decisa, che non dava tregua.

Era troppo. Troppo bello. Troppo intenso.

E in mezzo a quella foga, sentivo anche il suo cuore. Accelerato. Vivo. Coinvolto, forse più di quanto volesse ammettere.

Il respiro mi si era fatto corto. Ogni tocco di Tresy era un richiamo, una sfida. Le sue dita erano scese con naturalezza sotto il bordo dei miei pantaloni, guidate da una sicurezza che mi faceva tremare.

Non ci fu spazio per il controllo. Sentii il corpo tendersi, il respiro mozzarsi. Le sue dita si muovevano lente ma decise, e ogni volta che la sua mano sfiorava quel punto di me ormai completamente vulnerabile, sentivo che stavo per perdere il fiato.

Lei mi guardava con un mezzo sorriso, il capo inclinato appena, i capelli sciolti che le cadevano sulle spalle nude. Il seno era ancora lì, generoso e morbido, e io non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso.

Poi accadde.

Un’ondata di calore mi travolse, come se il corpo si liberasse da tutta la tensione accumulata. Un sospiro profondo mi sfuggì dalle labbra, le dita affondate nei cuscini, e il piacere si riversò sulla sua mano. Lei non si scostò. Anzi, sembrò quasi aspettarlo.

Mi guardò mentre si staccava piano, le dita sporche. Poi, con uno sguardo malizioso e sereno insieme, le portò alle labbra, assaporandole con lentezza.

“Mh… non male,” sussurrò, con un mezzo sorriso. “Sapevo che avevi qualcosa di buono da offrire.”

Io ero ancora lì, il petto che si sollevava a scatti, lo sguardo appannato. E lei, come se nulla fosse, si piegò su di me, sfiorandomi il viso con la punta del naso.

Dopo tutto, Tresy non disse più nulla. Mi prese per mano con una dolcezza che non mi aspettavo e mi accompagnò in camera. Camminava davanti a me, i fianchi ancora nudi, morbidi e decisi. Sembrava una visione tra il sacro e il profano.

Mi sistemò tra le lenzuola senza chiedere permesso, come se fosse casa sua. Poi si sedette accanto a me, mi sfiorò il volto e mi chiese piano: «Torna qualcuno stanotte?»

Scossi la testa. «No. Sono solo.»

Lei fece un piccolo sorriso, quasi intenerito. «Bravo… allora adesso chiudi gli occhi. Dormi. Domattina mi trovi qui.»

«Promesso?» mormorai, già mezzo addormentato.

«Promesso.»

Sentii le lenzuola scivolare quando si sdraiò al mio fianco. Il suo corpo caldo si allungò contro il mio. Un bacio sul collo. Un braccio che mi avvolgeva piano. E poi il silenzio.

Mi addormentai col cuore che batteva ancora forte, ma con una pace addosso che non provavo da tempo.

Non so quanto dormii.

Ma a un certo punto mi svegliò una sensazione precisa, calda e inconfondibile.

Aprii gli occhi a fatica, ancora stordito dal sonno. La stanza era immersa nella penombra dell’alba, e il primo pensiero che mi attraversò la mente fu che stessi sognando.

Poi la sentii. Le sue labbra.

Il suo respiro caldo, il suo movimento lento e deciso mentre mi prendeva in bocca, con una naturalezza disarmante, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Un gemito mi sfuggì dalle labbra, involontario. Mi sollevai appena, il cuore in gola, mentre la guardavo da sopra le lenzuola.

Tresy era accovacciata tra le pieghe del letto, i capelli sciolti che le cadevano davanti al viso, le mani appoggiate ai miei fianchi mentre la sua bocca si muoveva su di me, lenta, profonda, esperta.

«Ah, guarda un po’ chi si è svegliato…» sussurrò con un sorriso malizioso, senza smettere.

Il calore, la lingua, la pressione perfetta… tutto mi travolse in un attimo. Era dolce, ma anche sfrontata. Un buongiorno sussurrato a fior di pelle.

Mi passai una mano sul volto, ancora incredulo. Lei alzò appena gli occhi, mordendosi il labbro inferiore.

«Te l’avevo detto che stamattina ero qui. E a quanto pare, anche molto sveglia.»

Poi tornò giù su di me, più decisa. E io mi lasciai andare, il corpo teso, la mente in un turbine tra estasi e resa.

Sentii un brivido salirmi lungo la schiena, il respiro accelerarsi. Lei se ne accorse, ovviamente. Ridacchiò, divertita, e mi guardò di nuovo da sotto in su.

«Ti piace essere svegliato così, eh?» disse piano, continuando a giocare, dosando ogni gesto con sapienza.

Le sue labbra si muovevano ancora, calde e morbide, creando un contrasto perfetto tra la dolcezza e l’intensità del gesto. La saliva disegnava piccoli riflessi lucidi tra i movimenti, amplificando ogni sensazione. Era lenta, decisa, e il suo sguardo non mi lasciava scampo.

Chiusi gli occhi un attimo, lasciandomi andare a quella tensione crescente che mi bruciava dentro. Non era solo fisico. C’era qualcosa di più, qualcosa che mi faceva tremare il petto.

Quando sentì che mi stavo avvicinando al limite, aumentò appena il ritmo. Non c’erano parole in quel momento, solo respiri affannosi, piccoli suoni umidi, e la consapevolezza che con lei ogni gesto poteva diventare un ricordo indelebile.

Poi, tutto accadde.

la mia passione calda che gocciolava sul viso di tresy e questo sembrava eccitarla ancora di più. sì pulii sorridendo con la mano che poi leccò.

 I suoi occhi brillavano nel chiaroscuro della stanza, ancora leggermente velati dal sonno. Tresy mi fissava da sopra, le labbra lucide, ancora dischiuse da quello “scherzetto” che mi aveva lasciato senza fiato.

«Non potevo resistere…» sussurrò, con un tono a metà tra il divertito e il tenero. «Sembravi così calmo, così… innocente. E invece guarda com’eri, appena ho iniziato…» Mi accarezzò il fianco con le dita, leggere come piume, e sentii i brividi scorrere lungo la schiena.

Io cercavo ancora di riprendere fiato, il cuore che batteva forte. Le sue guance erano leggermente arrossate, ma il sorriso era ancora lì, provocante e affettuoso allo stesso tempo.

Poi fece un gesto lento, studiato. Si tolse con calma i pantaloni del pigiama, rimanendo completamente nuda, e salì a cavalcioni su di me. La sua pelle era calda, morbida. Le nostre intimità si sfiorarono appena, un tocco umido e delicato che bastò a risvegliare ogni mia fibra.

Si chinò su di me, i capelli che mi sfioravano il viso, e mi prese la mano, guidandola tra le sue cosce con dolcezza e una leggera pressione.

«Lo senti?» sussurrò contro la mia bocca. «Lo vedi cosa mi fai?»

Le nostre fronti si sfiorarono. Il respiro si mescolava, pesante. Sentivo tutto di lei, il suo calore, il suo odore, il modo in cui il suo corpo cercava il mio senza più nasconderlo.

Poi, mentre guidava la mia mano, lo fece anche con la mia intimità: lo afferrò con sicurezza, aiutandomi a metterlo dento e bsussurrando piano:

«Alla fine… hai vinto tu. Forse—»

Ma non finì la frase.

Un suono metallico riempì la stanza. Il cellulare di Tresy vibrò sul comodino.

lei si alzò di scatto per andare e vedere.