Vacanze spagnola

Capitolo 2 - La porta

Peccati e Guai
3 days ago

La seconda sera in Spagna aveva quel sapore appiccicoso di caldo e di alcol che ti rimane addosso anche dopo la doccia. L’appartamento sembrava respirare con noi, ogni stanza un ventre tiepido e umido, le pareti bianche che riflettevano la luce arancione dei lampioni fuori. Avevamo cenato tardi: tapas, dita unte di olio e sale, bocche bagnate di birra e gin, e poi quell’andatura un po’ lenta da turisti ubriachi ma lucidi abbastanza da voler rientrare e prolungare la notte.

Eravamo a nostro agio. Era normale stare in intimo con trenta gradi dentro casa e l’aria condizionata che non bastava. Elena girava con un top che le copriva a malapena i capezzoli e shorts sottili, senza reggiseno sotto: i brividi sulla pelle parlavano per lei. Nicola aveva solo boxer, birra in mano e una risata pronta, uno che non immagina nemmeno i pensieri degli altri. E poi c’era Chiara: reggiseno triangolo color ruggine e un tanga sottile che tagliava le anche. I capelli legati alla meglio, poche gocce d’acqua scivolate dalla doccia che le correvano lungo la schiena. Camminava scalza, morbida, sicura. Ogni suo passo era una provocazione finta maldestra: una curva di troppo, un ginocchio che sfiorava, un tessuto che scivolava giù di un millimetro e poi risaliva, come se niente.

Io tenevo stretta una bottiglia, seduto al bracciolo del divano. Guardavo, ma non abbastanza da farmi beccare. O forse sì, abbastanza perché lei lo vedesse. Chiara guardava indietro. Ogni volta.

Si parlava di niente. Delle foto fatte quel pomeriggio, del barista di Valencia con i baffi troppo curati, di una spiaggia trovata per caso. Elena aveva le gambe appoggiate sulle mie, spalle rilassate, sorriso easy. Nicola armeggiava con una ciotola di olive e un coltello smussato, sgranocchiava ridendo. E Chiara, in piedi contro lo stipite del corridoio, si stava piegando per raccogliere una molletta caduta. Una piega lenta, un arco che scendeva piano, il tanga che tirava la tela in una V affamata. Si fermò a metà, come se si fosse impigliata. Mi lanciò uno sguardo da sotto: mi aveva già scelto.

Mi si mosse qualcosa nello stomaco e più in basso. Faceva caldo, eppure sentivo la pelle d’oca salire dalla nuca. Mi era rimasto addosso l’odore di crema solare e sabbia della giornata, lo sentivo mischiarsi al suo profumo: una cosa floreale, dolce, con un fondo di pelle vera. Quella sera, tra noi, l’aria era spessa.

«Questo fermo della porta non tiene…» disse Chiara a un certo punto, simulando una stizza, muovendo la maniglia della loro stanza. «Si apre da sola ogni volta, guarda che fastidio.» La voce era neutra ma le pupille ridevano.

Elena non si scompose. «Chiedi a lui» disse dandomi una pacca sul ginocchio. «Lui fa miracoli.»

Nicola rise. «Io manco so dove guardare, figurati.»

«Allora…» fece Chiara, già girata verso di me, «…mi dai un occhio tu? È un attimo.»

La parola “attimo” aveva un’eco lunga. Mi alzai come niente, la bottiglia in mano, i boxer che non nascondevano la mia reazione. Elena mi lanciò un sorriso distratto e tornò a parlare con Nicola di un locale dove voleva andare l’indomani. Sapevo che in quei due secondi nessuno dei due ci stava guardando.

Il corridoio era in penombra. Le piastrelle fresche sotto i piedi. Chiara aprì la porta della stanza e ci entrò davanti a me. Il letto sfatto, lenzuola leggere, due cuscini con le federe spiegazzate, una lampada bassa sul comodino. Odore di bagnoschiuma e di sera calda. Avanzò di due passi e si piegò subito, come senza pensarci, con il culo verso di me, tanga che spariva in mezzo a due mezze lune perfette. «Vedi? Il fermo è qui, manca la clip…» mormorò, puntando il dito. Ma la mano, invece di indicare, scostò una chiappa, lenta, aprendo la vista su quell’ombra tenera e lucida, l’ano che si contraeva piano, la fessura rosa della figa che brillava umida anche senza luci.

Il mio respiro cambiò senza che potessi nasconderlo. Sentii il sangue battermi alle tempie. Il mio nome non esisteva più. Esisteva solo il suo invito.

Feci due passi. Le posai una mano sul fianco, poi sul culo. La pelle era calda, liscia, soda. Le dita affondarono un millimetro, come a chiedere permesso. Lei rimase piegata, ferma, ma il bacino venne incontro al palmo. Non disse una parola. La sua schiena si inarcò un filo. Avevo la gola secca. Con l’altra mano le scostai il tanga di lato, un gesto quasi rituale, e la vidi meglio: le piccole labbra gonfie, bagnate; il buco del culo teso, in bella vista; un filo di umido che colava piano verso il limitare.

«Così?» sussurrò, e il sussurro era benzina.

Non potevo fare finta. Le entrai con un dito, piano, il polpastrello umido che scompariva dentro di lei. Era stretta e calda, elastica, viva, mi avvolgeva come se fosse fatta apposta per tenermi. Un gemito le scappò dalle labbra, piccolo ma tagliente, tipo coltello sulla seta. «Sì…» fece, ancora piegata, una mano sullo stipite, l’altra che teneva il tanga scostato, offertissima, sporca, bellissima.

Il mio polso iniziò a muoversi da solo. Dentro-fuori, un ditalino corto, cattivo, il mio pollice che cercava il suo clitoride e lo sfiorava in cerchi stretti. Lei si morse il labbro, le spalle tremarono appena; il respiro le salì in gola in due falcate, quelle che si sente subito che stanno diventando gemiti. «Non fermarti…» sibilò, appena udibile.

Il rumore del televisore dal soggiorno arrivava ovattato. Elena e Nicola a dieci passi, e io con il dito dentro sua sorella, le nocche bagnate, il palmo che raccoglieva il suo caldo. L’oscenità della situazione mi faceva vibrare la spina dorsale.

«Piano, piano…» sussurrò. Più un mantra che un invito a rallentare. Più “fammi durare” che “rallenta”. Io obbedii alla sua cadenza, le dettai un ritmo, guardai la mia mano scomparire tra le sue cosce: aprii con l’indice, scivolai con il medio, la sentii cedere, accogliermi, abbracciarmi dentro. Il mio cazzo era già duro come pietra, premeva contro l’elastico dei boxer, faceva male. Le avvicinai il corpo da dietro, lei spinse il culo indietro, tonda, inarcata, come se volesse sentirmi anche attraverso il tessuto.

«Sei un vizio» dissi a denti stretti, quasi senza voce.

Lei ridacchiò, bassa, porca. «Lo so.»

Nell’aria c’era l’odore inconfondibile della sua eccitazione, una nota metallica e dolce, mescolata al bagnoschiuma. Mi entrò nel naso come un colpo. Sentii un piccolo schizzo contro le dita, una vibrazione che partì da dentro e si spense in superficie: stava colando su di me. Raddoppiai la cura sul clitoride, il pollice giusto sopra il cappuccio, cerchi stretti, decisi. Le ginocchia le cedettero un attimo, afferrò il bordo della porta per non contorcersi di più. «Dio…» disse piano. Un gemito vero, spezzato.

Mi sarei perso lì, l’avrei presa, l’avrei infilata dritta e forte e avrei fatto scorrere quel caldo su di me, dentro di lei, fino a svuotarmi. Ma il pericolo batté alla tempia. Sentii la risata di Elena vibrare nell’aria, una frase non distinta, il tintinnio di una bottiglia. La realtà ruppe la patina. Fui costretto a staccarmi.

La mano uscì dalla sua figa con un suono bagnato. Il tanga risalì contro le labbra con uno snap sottile. Gli occhi di Chiara — quando si voltò — brillavano come quelli di una predatrice divertita. Le gote calde, la bocca semiaperta. «Vai» disse piano, con un sorriso insolente. «Che se no ci beccano.»

Mi guardò le dita. Le guardai anche io. Erano lucide di lei, profumavano di lei. Se le portò alle labbra, sfiorò con la punta della lingua un mio polpastrello come a testare il gusto, ma non le leccò. L’idea mi prese a pugni nello stomaco. Voleva che lo facessi io.

Mi infilai le dita in bocca lento, davanti a lei, senza staccare lo sguardo. Il sapore era salato e dolce, pieno, vivo, come morderle la carne. Le pulii il medio e l’indice, poi il pollice; raccolsi la scia che mi era colata sul palmo. Le labbra mi si inumidirono, la lingua scivolò lungo le nocche. Lei gemette appena, a fior di gola, come se le avessi leccato l’interno coscia. «Bravo» sussurrò. «Ora vai.»

Mi rialzai il boxer con un gesto che nascondeva più che altro una verità che non volevo far vedere, presi in mano la bottiglia (ancora mezza, non ricordavo più da quando) e feci due passi indietro. Prima di uscire, Chiara si ricompose come se nulla fosse: il tanga esattamente dov’era, un colpo di dita ai capelli, un colpo d’aria alle guance con la bocca a O, e via. In tre secondi era di nuovo la sorella di Elena, la ragazza dal sorriso sveglio, innocente in salotto.

Rientrai io per primo. Il soggiorno mi sembrò subito più freddo, come se fosse un altro mondo. Elena alzò lo sguardo e mi sorrise, tendendomi la sua bottiglia di birra. «Allora, supereroe? L’hai sistemata?»

Mi sedetti e presi un sorso, lentissimo. «Mi manca una clip, domani vedo se ne recupero una dal portiere o da un ferramenta.» La voce mi uscì ferma, nonostante la tempesta. Sentivo ancora la scia di Chiara sulle dita, anche se le avevo pulite con la bocca. Non avevo fretta di cancellarla.

Nicola raccontava di un tizio che gli aveva spillato una birra calda, esagerando come sempre. Elena rideva, si toccava un seno attraverso il top come per sistemarsi, senza malizia. Io assentivo. Mi lambivo le labbra, e ogni volta la sazietà mi si trasformava in fame.

Qualche minuto dopo arrivò Chiara. Camminava come se fosse appena uscita dal bagno: fresca, leggera, impeccabile. Si buttò sul tappeto ai piedi del divano, di traverso, poggiò la schiena al bordo vicino alle mie gambe, in modo che il suo collo quasi si appoggiasse al mio ginocchio. Allungò un braccio per prendere un’oliva, e nel movimento il triangolo del reggiseno si spostò appena, dando un lampo di areola. Fu un secondo, forse meno. Il mio respiro fece una micro pausa. Lei lo sentì. Il suo sorriso crebbe di un millimetro.

Avevo le dita ancora umide ai polpastrelli, la bocca che sapeva di lei. Lei alzò il viso e mi guardò con quegli occhi che avevamo già usato in bagno: porchi, complici, cattivi. Poi si girò verso Nicola con una naturalezza che faceva male e gli chiese di passarle la bottiglia. La notte andava avanti come se niente.

Ma niente era più come prima.

Il salotto diventò la nostra scena. Elena parlava di un posto dove voleva ballare reggaeton il weekend. Nicola faceva il cretino con una pallina da ping pong. Io ogni tanto mi leccavo il pollice fingendo di togliermi una briciola dalle labbra. Chiara mi guardava farlo. E in quello scambio muto c’era tutto: la memoria del suo odore, il rumore bagnato del mio dito che usciva da lei, il suo culo teso sotto la stoffa sottile, il bisogno non soddisfatto che avevamo acceso e lasciato vibrare di proposito.

Ogni gesto da lì fu codice. Lei bevve un sorso e si passò la lingua sul labbro superiore più del necessario. Io le sfiorai il collo con il ginocchio quando si mosse, non scusandomi. Lei premette la schiena contro il bordo del divano, appoggiandosi a me un po’ di più. Elena non notò niente. O non volle. Nicola manco.

A un certo punto Chiara tossicchiò appena e si chinò in avanti, come per massaggiarsi il polpaccio. Il tanga si tirò su, lasciando scoperte le fossette sopra il culo. Io avrei potuto infilarci un dito e riaprire il paradiso. Non lo feci. Il gioco era questo: far salire la temperatura, farla bollire sotto il coperchio, senza farla esplodere. Non ancora.

Più tardi, quando Elena si alzò per andare a cercare un elastico per i capelli e Nicola si mise a cercare un’altra playlist, Chiara si voltò verso di me come se volesse chiedermi una cosa stupida, tipo «Prendiamo il caffè domani mattina?». Ma quello che mi disse, con le labbra appena schiuse, fu: «Stanotte ti penso con il dito dentro. Anzi due.»

Sentii il cuore colpirmi il petto da dentro. Non risposi. Mi limitai a far scivolare il pollice tra le mie labbra un’ultima volta, lentissimo, poi lo tirai fuori lucido. Lei sorrise. Tornò a guardare la TV come se fosse davvero interessata a una sitcom doppiata male.

Quella fu la seconda sera: una porta che non sta chiusa, un fermo che manca, un culo che si apre come una promessa, un ditalino troppo breve per essere chiamato scopata ma troppo intenso per essere un gioco. Una firma nascosta sulla pelle. Da quel momento il nostro segreto aveva un odore e un sapore. E io sapevo esattamente cosa sarebbe successo quando ci avessero lasciato davvero soli.