Vacanze spagnola
Capitolo 1 - La normalità che scotta

La prima sera in Spagna ci accolse con quell’afa che ti si appiccica alle costole e ti fa desiderare di toglierti di dosso tutto, pelle compresa. Appartamento al terzo piano, persiane semiaperte, profumo di detersivo economico e di mare secco. Tre stanze, un soggiorno enorme con cucina a vista e un balcone che dava su una strada rumorosa. Le valigie sul pavimento, il tempo di un «siamo arrivati» e già eravamo in intimo, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Elena fu la prima a spogliarsi senza pensarci: top leggero, niente reggiseno sotto, shorts sottili, piedi nudi e un sorriso sfrontato. «Fa un caldo della madonna» disse, tirandosi su i capelli e legando un nodo alto che le scopriva il collo. Le si vedevano i capezzoli tesi sotto il cotone. Non se ne curava. Era lei: tutta pepe, tutta pelle, e quella leggerezza di chi con me si sente sicura.
Chiara, la gemella di Elena, entrò in salotto con una maglietta corta e un tanga già in vista sopra l’osso dell’anca. Niente reggiseno neanche lei. Capezzoli puntati contro il tessuto, due piccoli coni che sembravano volerlo sfondare. «Metto qualcosa in frigo» disse, aprendo con l’anca: il taglio laterale della maglietta mostrò mezzo seno quando si allungò per spostare le birre. Il suo corpo parlava una lingua senza vocali: curve e tagli, ombre e luci. Aveva un modo di muoversi che era una provocazione educata, come se chiedesse scusa mentre ti metteva la lingua in bocca. Mi guardò negli occhi un secondo di troppo. Fu come una firma.
Nicola era già a torso nudo, boxer scuri, i soliti tatuaggi sulle braccia. «Raga, io non so se uscire o svenire sul divano.» Ridacchiò, aprì una birra, una per ciascuno. Io presi la mia, ma la sete vera mi era salita altrove. E non aveva a che fare col luppolo.
Le prime ore furono un balletto nuovo e naturale. C’è una fiducia che scatta quando condividi un appartamento in vacanza: porte socchiuse, docce veloci, salviette buttate sui letti a caso, chi passa davanti a chi si cambia senza fare una piega. Nessuna malizia in superficie. La malizia stava sotto, come l’acqua sotto la crosta secca.
Io ed Elena ci buttammo sul letto della nostra stanza per cinque minuti di riposo. «Domani spiaggia, poi pub» disse, stesa di lato, un piede sulla mia coscia. Mi accarezzò distratta, come si carezza un gatto. Io annuii, ma la mente mi ronzava altrove: Chiara che rideva in cucina, quel rumore di bottiglia spostata sul ripiano, il frigo che sbuffava aria fredda sulla sua pancia.
Quando riemersi in salotto, la trovai di spalle, a sistemare il phon e una spazzola vicino al microonde perché l’unica presa libera stava lì. La maglietta era salita, il tanga tagliava il culo come una lama sottile. La linea centrale spariva tra due emisferi sodi, pelle tesa che ti viene voglia di morderla per vedere se lascia il segno. Si piegò appena per prendere il cavo. Il tanga scese di un millimetro. Io mi fermai. E lei, senza guardarmi, disse piano: «Puoi passarmi l’adattatore, è lì dietro?»
L’adattatore era a terra, contro lo zoccolo della cucina. Mi piegai anche io, troppo vicino. Sentii il calore del suo corpo a dieci centimetri dal mio viso. Le porgevo la presa, lei me la prese dalle dita strofinando il polpastrello contro il mio, come se stesse assaggiando il gusto. «Grazie» fece, un soffio.
Il phon partì, rumore pieno. I capelli di Chiara si gonfiavano e cadevano, lei li alzava con le dita, e quel gesto le scopriva i seni ai lati, due mezze lune di carne soda, areole scure appena visibili sotto la maglietta che ballava. Elena entrò, prese la spazzola dall’altra parte del banco e in due si misero a ridere di qualcosa, complici, gambe nude, tette libere. Io in mezzo, ospite del paradiso. Nessuno fingeva pudore. Eppure, ogni tanto, quegli occhi chiari di Chiara mi cercavano come un dito cerca il nervo scoperto.
Uscimmo più tardi. Pub appiccicoso, reggaeton che pulsava come un’arteria, luci basse e odore di gin e lime. Elena ballava, una birra in mano, i fianchi sciolti. Nicola provava a starle dietro ridendo. Io, appoggiato al bancone, t-shirt sottile, sudore sulla schiena. Chiara si accostò di lato, gomito contro gomito. «Ti piace il posto?» chiese, ma la domanda era un’altra. «Mi piace la vista» risposi senza guardarla. Sorrise con la bocca chiusa, bastarda in quel modo dolce che ha chi sa cosa sta facendo.
Sul bancone arrivarono dei chupitos. Ne bevemmo due a testa. La musica ci prese la vita. Elena ci trascinò in pista un attimo, poi si perse tra la gente. Io e Chiara rimanemmo al margine, vicini, il suo braccio sfiorava il mio quando batteva il tempo. Si piegò verso di me come per dirmi qualcosa e mi parlò all’orecchio: «Hai presente quando sai già cosa succederà e non vedi l’ora che accada?» Il suo fiato era fresco di menta e rum. Mi si alzò tutto. «Sì» dissi. «Lo so benissimo.»
Sotto il tavolino alto del bancone, il suo piede nudo trovò il mio. Appoggiò la pianta contro la mia caviglia, poi lentamente salì lungo il polpaccio. Un gioco innocente, due centimetri di pelle. Ma la linea che tracciava era una mappa per l’inferno. Arrivò dietro il ginocchio. Il mio corpo rispose da solo. Mi si vide in faccia. Si vide nei boxer. Lei abbassò lo sguardo e si morse l’angolo della bocca, piena di malizia. Nessuno intorno sapeva nulla. Nessuno vedeva nulla. Questo era il bello.
«Vado in bagno» dissi al vento, perché stavo per scoppiare. Infilai il corridoio stretto. Una fila di porte, luci al neon. L’acqua che scorreva da qualche parte. Mi fermai un secondo contro il muro fresco, il respiro che andava a colpi. Chiara comparve come un’ombra accanto a me, senza toccarmi. Restò a venti centimetri. «Tutto bene?» L’ironia le faceva brillare gli occhi. «Ti si legge negli occhi.» Io non dissi niente. Lei avvicinò la bocca al mio orecchio, senza sfiorarlo. «Tranquillo» sussurrò. «Io sono come te.» E sparì di nuovo verso il bancone, scivolando come un coltello nel burro.
Quando tornammo a casa eravamo sudati, sbronzi al punto giusto, leggeri. Elena cantava un ritornello idiota di una canzone, infilando le chiavi nella porta sbagliata. Nicola le faceva da coro. Io ridevo, ma il riso era solo la coperta sopra a un fuoco. In salotto si ricominciò a spogliarsi come se fosse la cosa più comoda da fare: solo intimo, pelle, spruzzi di doccia, asciugamani annodati male. Il pavimento fresco era una benedizione sotto i piedi.
«Chi mi spalma un po’ di doposole?» fece Chiara, buttandosi pancia in giù sul tappeto, reggiseno sganciato e poi tolto con naturalezza, tanga che spariva e ricompariva tra due glutei troppo perfetti per essere legali. Elena rise. «Che pigra sei.» Si sedette a lato, ma poi mi guardò e disse: «Dai, fallo tu, che a me mi scappa la pipì.» E sparì dietro la porta del bagno, salvietta sotto il braccio.
Rimasi con la bottiglietta di crema in mano e Chiara nuda sotto le mie dita, a nulla centimetri. «Sei sicura?» chiesi, per scrupolo. Lei appoggiò la guancia al tappeto, mi guardò di traverso e disse: «Sei tu che mi stai chiedendo il permesso?» La bocca le si curvò in un sorriso di lato. Mi sedetti a cavallo delle sue cosce, non toccandola, e versai un filo di crema sulla schiena. Fredda, uno shock. La pelle le si strinse, le punte dei capezzoli premettero contro il tappeto. Le mie mani scivolarono sulle scapole, lungo i lati, sfiorando il bordo del seno senza prenderselo, giù verso i lombi, poi risalendo piano. La crema si scaldava, diventava setosa. Sentivo i suoi brividi sotto i palmi, il respiro che si faceva più lungo. Passai di lato, vicino alle coste, il pollice quasi sull’areola, ma non ancora. Le mie mani erano due promesse.
Nicola ciondolava in cucina cercando bicchieri puliti, canticchiava. «Domani sveglia con calma» disse da lontano. «Mmh» fece Chiara, ma allo stesso tempo spinse il bacino appena contro l’aria, un gesto così piccolo che poteva essere uno stiracchiarsi. Io vidi il muscolo stringersi sul bordo del tanga. Lo sentii, come si sente un suono basso attraverso il pavimento.
Quando Elena tornò, trovò la scena: io che massaggiavo, Chiara buttata giù, Nicola in bilico con due calici. Prese posto sul divano, gambe a V, i pantaloncini così sottili che i peli biondi dell’inguine si intuivano contro la luce. Io feci l’uomo perbene. Mi fermai prima del troppo. «Ok, sei a posto» dissi, dando una piccola pacca innocente a metà schiena. Chiara si girò sul fianco in un movimento lento, il seno pieno che scivolò e si mostrò un secondo intero. Mi guardò con la lingua contro il palato. Capimmo.
Il resto della notte si distese pigro. TV accesa senza audio, chiacchiere, lingua che si scioglie e occhi che si fanno pesanti. Elena si accoccolò contro di me, la testa sul mio braccio, la gamba sopra le mie cosce. Sentivo il suo calore, la sua fiducia, e sotto quella coperta un’altra corrente che mi tirava via. Chiara salì col sedere sul bordo del divano, si sedette a terra ma appoggiata alle mie ginocchia, come fosse il posto più comodo del mondo. Sfiorava il mio polpaccio con la spalla nuda. Io ogni tanto mi sistemavo la posizione, e la mia mano cadendo “per caso” toccava la sua coscia alta, un secondo appena, il tempo di capire quanto fosse liscia. Lei non si scostava. Anzi, si avvicinava di un millimetro, come chi chiede un’altra goccia d’acqua con le labbra già bagnate.
Allungò il braccio verso il tavolino per prendere il telefono, passandolo proprio in mezzo alle mie gambe. Le dita mi sfiorarono i boxer. Fu un niente. Ma quel niente mi sparò lungo la spina dorsale. «Ops» disse senza colpa. Si leccò il labbro superiore. Elena non vide, o non volle vedere. Nicola era già mezzo addormentato sul bracciolo opposto.
Più tardi, quando tutti si trascinarono in camera, il corridoio fu un buio tiepido. Elena si spogliò con naturalezza, buttò l’intimo su una sedia, si infilò sotto il lenzuolo leggero. «Vieni?» mormorò, la voce impastata. «Tra un attimo» dissi, andando verso il bagno con la scusa di lavarmi i denti. La porta era socchiusa. Chiara usciva proprio in quel momento, solo il tanga addosso, i capelli disordinati, la pelle lucida di doccia e di crema. Mi si piantò davanti, a mezzo palmo. «Notte» fece piano. Io annuii. Lei scese con lo sguardo sul mio petto nudo, poi un po’ più giù; i suoi occhi risalirono lenti e maliziosi fino ai miei. «Domani fammi vedere quanto sei bravo con le mani» sussurrò, il fiato che mi lambì la bocca. E sparì nella sua stanza, lasciando la porta che non chiudeva bene. Un segreto lasciato a metà.
Mi chiusi nel bagno. L’acqua del rubinetto faceva un rumore che sembrava più forte di quello che era. Mi guardai allo specchio. Avevo la pelle tirata, gli occhi lucidi, il respiro corto. Mi sedetti sul bordo della vasca, i boxer già tesi in avanti. Tirai giù l’elastico, liberai il cazzo come si libera un animale in gabbia: duro, pulsante, lucido in punta. Avevo addosso l’odore di Chiara, della sua pelle e della sua crema, e del suo fiato sull’orecchio. La mano si mosse da sola. Pensai al suo tanga che scendeva di un millimetro, al suo seno che si piegava sul tappeto, al suo piede sul mio polpaccio, al suo «io sono come te». Ogni immagine era benzina.
Mi segai in silenzio, i muscoli delle cosce duri, i denti stretti per non fare rumore. Bastarono pochi minuti. Quando venni, mi piegai in avanti, un colpo muto, sborra calda che saltò sul lavandino. Mi lasciai prendere fino all’ultimo, tremando come un filo sotto tensione. Poi respirai. Lungo. Mi pulii, mi sciacquai le mani, cancellai le tracce come si cancella un nome scritto sul vetro appannato. Niente doveva sapere di lei. Eppure tutto ne sapeva.
Rientrai in camera. Elena dormiva di lato, un braccio sotto la guancia, la bocca semiaperta. Mi infilai accanto a lei. Mi poggiò una mano sul petto nel sonno, come fa sempre. La baciai sulla fronte. Chiusi gli occhi. Nel buio sentivo la porta di Chiara che non si chiudeva bene battere piano a ogni refolo, tic… tic… tic… come un dito che chiama. Sorrisi, nel buio. Domani.
E sapevo già che la normalità avrebbe preso fuoco.
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