La stanza chiusa

Capitolo 3 - Mi tocca anche da lontano

Evitarlo era diventata una missione.

Non era difficile: bastava uscire cinque minuti prima, rientrare dieci dopo, fingere telefonate, spostare la raccolta differenziata al pomeriggio invece che al mattino.

Una settimana intera a calibrare silenzi.

A evitare incontri.

A ignorare gli sguardi immaginari.

A reprimere le immagini del sogno che si riaffacciavano ogni volta che mi toglievo le mutandine o mi passavo una crema sulle gambe.

Non avrei ceduto.

Mi ripetevo che era solo desiderio.

Una distrazione. Un istinto. Nulla che avesse il diritto di esplodere nella mia vita.

Ma quando il corpo brucia, la mente smette di essere lucida.

E poi, una mattina, mentre tornavo dal supermercato con la busta piena e le chiavi già in mano, lo vidi.

Andrea non era solo.

Lei era alta, sottile, abbronzata. Indossava un top bianco senza reggiseno e pantaloncini troppo corti per la stagione, o forse troppo perfetti per le sue gambe da copertina.

Silvia.

Rideva. Una risata leggera, femminile, decisa.

Andrea le teneva la porta aperta. Lei gli sfiorò il braccio passando. Un gesto intimo, istintivo.

Troppo naturale per essere innocente.

Troppo fluido per essere appena nato.

Non so se mi videro. Forse sì.

Io abbassai lo sguardo e feci finta di controllare qualcosa sul cellulare.

Entrai nel mio appartamento con la busta stretta tra le mani, la plastica che mi tagliava le dita.

Chiusi la porta con troppa forza.

Un nodo amaro mi strinse lo stomaco.

Non era invidia.

Era qualcosa di peggio.

Una fitta antica, sporca, inspiegabile.

Gelosia.

Non ne provavo da anni.

Con Enrico era tutto piatto, consumato. Una recita che nessuno guardava più.

Ma ora…

Ora c’era quel nome: Silvia.

La immaginai seduta sul divano di Andrea.

Con un calice in mano, le gambe accavallate, la testa gettata all’indietro mentre lui le sussurra qualcosa all’orecchio.

Mi guardai allo specchio.

I capelli legati, la maglia troppo larga, le occhiaie di chi ha vissuto troppo nella testa e poco nel corpo.

Mi sentii piccola.

Stanca.

Inutile.

Non dormii quasi quella notte.

Mi girai nel letto accanto a Enrico che, come sempre, sembrava vegetare in una forma muta di esistenza.

Avrei voluto piangere, urlare, toccarmi — ma non feci nulla.

Solo aspettai che venisse luce, come se la mattina potesse lavare via ciò che sentivo.

Alle sei e venti, aprendo la porta per andare in palestra, notai qualcosa davanti all’uscio: una bottiglia di vino rosso, elegante, dal vetro scuro. Ancora fredda.

Al collo, un bigliettino scritto a mano, in stampatello netto:

 

“Ti sta aspettando qualcosa di diverso. Passa.

– A.”

 

Un comando, più che un invito.

Mi rimase tra le dita mentre chiudevo piano la porta.

Come se già quel gesto avesse cambiato qualcosa.

La sera tornai a casa stanca, sudata, confusa.

Il vino era sul mobile dell’ingresso.

Lo avevo posato lì e lo avevo fissato più volte, cercando una risposta nel vetro, nel tappo, in quelle poche parole che si erano scolpite dentro di me.

“Passa.”

Non chiedeva.

Diceva.

Mi tolsi i vestiti lentamente.

Lo sport, il lavoro, i pensieri: tutto si era accumulato addosso.

Mi chiusi in bagno e aprii l’acqua della doccia.

Calda. Avvolgente. Quasi troppo.

Lasciai che scivolasse sulla mia pelle.

La fronte contro le piastrelle, il petto che si muoveva ancora come se stessi correndo da qualcosa che era… dentro di me.

Pensai a lui.

Alla sua voce.

Al modo in cui mi guardava senza vergogna.

Al sogno che avevo fatto.

Mi si strinse il ventre.

Mi passai le mani tra i capelli, sul collo, sulle spalle.

Sentivo ogni goccia come un bacio che non ricevevo da anni.

Poi più giù.

Il seno — pieno, gonfio, sensibile.

Sfiorai i capezzoli con i polpastrelli.

Chiusi gli occhi.

Ero di nuovo lì. In ginocchio davanti a lui. O lui davanti a me. Non importava.

Le mani scesero lentamente.

Sfiorai l’ombelico, poi oltre.

La pelle era tesa. Le gambe molli.

Un brivido.

Non servivano parole.

Solo il rumore dell’acqua.

La mia respirazione.

E l’immagine nitida delle sue dita.

Del suo sguardo.

Del suo comando.

Un gemito trattenuto.

L’orgasmo mi prese in silenzio, profondo, liquido, colpevole.

E liberatorio.

Rimasi lì ancora un po’, immobile.

Come se il piacere fosse stato una confessione.

E la doccia, la mia unica assoluzione.

Quando uscii dal bagno, il vino era ancora lì.

In silenzio.

Ma io non lo ero più.