La stanza chiusa
Capitolo 1 - Il vicino che mi ha acceso dentro

Le 13:08. Il silenzio in casa era diventato una sentenza.
La cucina odorava ancora di aglio e sugo.
La tavola era apparecchiata da sola, come ogni giorno da mesi.
Enrico aveva detto solo: «Non ho fame», senza alzare lo sguardo dal giornale, come se nemmeno valesse la pena fingere un motivo.
Avevo provato a parlargli, anche solo per litigare. Ma la cosa più dolorosa non fu il rifiuto.
Fu l’assenza. La distanza immobile.
Mi lasciava lì, a dialogare con un muro.
Uscìi di casa senza borsa, senza trucco. Volevo solo sentire l’aria sulla pelle, come un urlo silenzioso.
Aprii la porta... e lo trovai lì.
Due valigie ai suoi piedi.
Le mani occupate con le chiavi.
La postura dritta, il collo rilassato. Sicuro di sé, come se quel corridoio gli appartenesse da sempre.
Andrea.
Non sapevo ancora il suo nome, ma sentii immediatamente che quell’uomo non entrava nei luoghi: li abitava.
Si voltò con calma, un sopracciglio leggermente sollevato.
«Buongiorno...» disse, la voce ruvida come pietra bagnata.
«Buon pomeriggio. E rumoroso, a quanto pare.»
«Ah, il rumore...» fece un mezzo sorriso. «Pensavo che il giovedì fosse il giorno libero delle traduttrici.»
Mi bloccai.
«Come sa che...»
«Si sente. Le pause, il ritmo. Chi lavora con le parole, si porta addosso un certo silenzio consapevole.»
Cercai di nascondere l’effetto che aveva su di me. Quella sicurezza sfacciata. Quella lettura spudorata.
«Lei invece chi è?»
«Andrea. 5B.»
Mi porse la mano. Non la presi.
«Imprenditore.»
«Cioè?»
«Nightlife. Atmosfere, locali, eventi. Posti dove la gente smette di fingere.»
«E lei osserva?»
«Solo chi finge troppo bene.»
Lo fissai. Non arretrò.
«Scusi, Signor Ferri, ma oggi non ho tempo per teatrini da pianerottolo.»
«Peccato. Alcuni giochi iniziano proprio lì.»
Feci per rientrare.
Ma prima che la porta si chiudesse, lo sentii ancora.
«Certe donne, quando arrivano al limite, non hanno bisogno di essere comprese. Solo guardate bene.»
La porta si richiuse. E io rimasi lì, dietro il legno, col cuore in gola.
Viva. Troppo viva.
Alle sei del mattino seguente, uscii per la palestra.
Tuta nera, capelli legati, lo sguardo ancora affaticato da una notte inquieta. Non solo per colpa dell’insonnia. Avevo il corpo contratto, il desiderio confuso e nervoso come una vena pulsante troppo vicina alla superficie.
E lui era lì.
Appoggiato contro la sua porta, in giacca scura, la camicia slacciata sul collo.
Tornava solo allora. Dal suo mondo.
E sembrava aspettarmi.
Ci fissammo in silenzio.
«Sempre così attiva, a quest’ora?»
Voce più roca, impastata di buio.
«Palestra.»
«Disciplina o fuga?»
«Istinto. E lei? Torna adesso?»
«Sì. La notte dice la verità. La gente non recita più, dopo l’una.»
Mi guardava senza imbarazzo. Come se fossi un dettaglio da leggere lentamente.
Io sentivo la pelle reagire. Ma lo nascondevo.
«Ha dormito?»
«Non dormo molto. Troppo da fare. Troppo da... osservare.»
Fece un piccolo cenno verso la mia borsa, poi — inevitabile — scese un istante più in basso.
Il mio seno era nascosto sotto la felpa, ma non abbastanza.
E i suoi occhi lo notarono.
Non con malizia. Con intenzione.
Il mio respiro cambiò. Le spalle rigide, il ventre contratto.
«Buon allenamento, Natasha.»
Sentii il mio nome nella sua voce come un’impronta digitale sul collo.
Entrai in ascensore.
Ma lo specchio mi restituì un viso che non conoscevo.
Le labbra più scure, gli occhi più lucidi.
E qualcosa — dentro — che non si era ancora calmato.
Quella notte lo sognai.
Non era un sogno qualsiasi. Era un varco.
Ero nella mia cucina, sempre vestita da palestra. La luce fioca, l’aria densa.
E lui, dietro di me. Andrea.
Lo sentii prima con l’olfatto: cuoio, muschio, qualcosa di caldo.
Poi con la pelle. La sua presenza vicina, troppo. Le dita che mi sfioravano appena il fianco. La voce che non parlava. Che respirava.
Nel sogno, non c’erano preamboli.
Mi girava verso di lui, con fermezza. Mi prendeva il mento, poi la nuca.
Non c’era fretta. Ma ogni tocco era preciso. Deciso. Come se sapesse.
Mi sentivo accendere da dentro.
Lui mi spogliava con naturalezza, senza gesti drammatici.
Il mio top cadeva a terra. Il mio seno nudo, pesante, colmo d’aria e desiderio. I miei capezzoli turgidi incontravano le sue dita decise. Poi la sua bocca.
Nessuna parola. Solo il suono umido della pelle che incontra pelle.
Le sue dita che mi aprivano. Il suo respiro che cresceva.
E io, nuda, viva, piena di lui.
Mi svegliai con un brivido alle cosce.
Umida. Calda. Confusa.
La vergogna arrivò subito.
Il desiderio, invece, non se ne andò.
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