Tre troie e un coglione

Capitolo 6 - giochetti al parco

Asiadu01
3 days ago

Risposi a quel messaggio su OnlyFans senza pensarci troppo.

Solo una riga:

“Ci sarò. Alle 2. In villa. Dimmi dove.”

Nemmeno cinque minuti dopo mi arrivò la risposta.

Fredda. Essenziale.

Un punto preciso sulla mappa, una panchina nel giardino superiore.

Alle 2:00 in punto.

“Strano…”

pensai.

È sempre il fan a inseguire, mai il contrario.

E ora era lei a cercare me.

Lei, che sputava sul suo seno dicendo il mio nome con la voce più porca e lenta del mondo.

Andai a casa, con il cuore che batteva più forte del normale.

Mi infilai sotto la doccia.

Poi uscii, mi misi comodo.

Guardavo l’orologio ogni cinque minuti.

01:05… 01:10…

No. Erano solo le undici.

Poi arrivò un messaggio.

Raffaella.

23:03

“Ehi tu.

Mi va di un bicchiere di vino. Al bar. Non c’è nessuno. Poi magari torniamo insieme. Ti va?”

Mi fermai.

Respirai.

Cazzo.

Mi piaceva.

Raffaella mi piaceva davvero.

Mi prendeva. Mi stuzzicava. Mi scopava col cervello prima ancora che col corpo.

Ogni volta con lei era un misto tra desiderio e casa.

E avevamo ancora quella tensione irrisolta, quel quasi-sesso interrotto, il risveglio con i  piedi, dei racconti, del divano.

Volevo andare.

Volevo lei.

Ma poi c’era Reika.

Reika, che nella vita reale non era solo una ragazza bellissima.

Era quella ragazza: misteriosa, provocante, intoccabile, che ora mi scriveva come se sapesse tutto.

Mi guardai allo specchio, ancora bagnato, ancora con i capelli arruffati.

Mi fissai.

Quasi a chiedermi da solo:

“E tu, Joe?

Chi cazzo vuoi essere stanotte?”

Mi sedetti sul letto, presi il telefono.

Scrissi a Raffaella:

“Mi tenti come il diavolo, lo sai?

Dimmi che vino hai.”

Il messaggio rimase lì, non inviato.

Ci pensai su ancora un secondo.

Poi lo cancellai.

Mi alzai.

Presi le chiavi.

E iniziai a prepararmi per andare in villa.

Scrissi a Raffaella:

“Mi ero già messo a dormire, oggi sono cotto, recuperiamo domani?”

Era una mezza bugia.

Ero steso, sì.

Ma dormire?

Impossibile.

Non potevo.

Non dopo il messaggio di Reika.

La cosplayer. La pornostar.

La mia ossessione da mesi.

E ora mi voleva incontrare. Dal vivo. In villa.

Cazzo.

Non ci voleva uno scienziato per capire che non potevo presentarmi impreparato.

Alle 1:00 in punto, mi vestii.

Jeans, felpa, giubbotto.

Troppe speranze per una semplice chiacchierata?

Sì.

Ma meglio prevenire.

Il problema?

Nel mio paesino di provincia, il distributore più vicino di preservativi era dall’altro lato rispetto alla villa.

Lato opposto.

Perfetto.

Camminai nel silenzio della notte.

La strada deserta, qualche finestra ancora accesa.

Il cielo coperto, un’umidità leggera che sembrava preannunciare qualcosa.

Arrivai al distributore automatico, il neon blu che lampeggiava come un faro solitario.

Stavo per avvicinarmi, quando lo vidi.

Mario.

Il famigerato Mario.

Il ragazzo di Giada.

Era lì, chino sul distributore, con un’espressione da ladro alle prime armi.

Scelse in fretta, infilò le monete…

E io vidi il pacchetto uscire.

Una taglia piccola.

Mi scappò un mezzo sorriso.

Un pensiero bastardo.

“Giada, dai…

Hai fatto tanto per trovarti uno con l’aria da intellettuale alternativo e poi finisci con uno che compra i ‘XS’?

No dai.

Hai fatto meglio da ragazzina, quando giocavamo con le pistole ad acqua.”

Mi nascosi dietro al muro, per non farmi vedere.

Lui raccolse il pacchetto e se ne andò di corsa, con un’aria furtiva e soddisfatta che sembrava uscita da un film comico anni ’90.

Appena sparì, uscii allo scoperto, risi da solo come un idiota e mi avvicinai al distributore.

Presi i miei, taglia giusta.

Nessuna fretta.

Io sapevo aspettare.

Guardai l’orologio.

1:20.

Tempo perfetto per raggiungere la villa.

Il cuore mi batteva come un tamburo.

Non sapevo se stavo andando incontro a un sogno o a un disastro.

Ma in fondo, che importa?

Certe occasioni non si possono lasciare scappare.

Arrivai con un po’ d’anticipo.

La villa, di notte, era silenziosa come un vecchio fantasma addormentato.

Il giardino era immerso nell’ombra, le luci dei lampioni disegnavano sagome tremolanti tra i rami.

Il mio respiro si mischiava al fresco dell’aria.

Mi sedetti su quella panchina che lei aveva indicato.

Le mani in tasca.

Il cuore a mille.

Lo sguardo fisso nel vuoto, ma i pensieri…

Erano tutti su di lei.

Poi la vidi.

In lontananza.

Una figura scura che avanzava lentamente.

Tacchi.

Una camminata decisa.

Reika.

Quando si avvicinò, mi bastò un secondo per riconoscerla.

Era vestita in modo provocante ma elegante, con un trench nero lucido che rifletteva la luce dei lampioni e sotto, quel top a corsetto stretto che le esaltava il seno come nei suoi video.

La gonna era corta, aderente, e i collant neri lasciavano trasparire quel tono lattiginoso e perfetto della pelle.

Gli stivali, alti e stretti, facevano il resto.

Il viso?

Trucco scuro, eyeliner affilato, rossetto profondo.

Fredda. Sensuale. Irraggiungibile.

Una visione.

Si sedette accanto a me sulla panchina, senza dire una parola.

L’aria aveva un odore di erba e foglie bagnate.

Io cercai di mascherare l’agitazione, ma la voce mi uscì un po’ più bassa del solito.

«Volevi vedermi, Reika?»

Lei mi fissò con uno sguardo che sembrava trapassarmi.

Incrociò le gambe, lentamente.

Appoggiò un gomito sullo schienale della panchina.

«Sì.

Dovevo chiederti un favore.»

La sua voce era calma, bassa, quasi intonata come una nota jazz.

Ogni parola sembrava un morso.

Mi voltai verso di lei, incuriosito.

Le luci notturne giocavano con le ombre del suo viso.

«Che tipo di favore?»

chiesi.

Anche se dentro di me… sapevo già che quella notte non sarebbe stata normale.

Non ce la facevo.

Me la ritrovavo lì accanto, vestita come una tentazione gotica, e cercavo di rimanere serio, composto, razionale.

Ma la mente viaggiava.

E quando il silenzio si allungò troppo, iniziai a parlare. Troppo.

«Sai, io…

Mi ero immaginato un sacco di cose.

Che magari volevi vedermi perché, che ne so… ti ero piaciuto?

Che magari… tra noi ci poteva essere qualcosa? Tipo, boh, uno di quei film assurdi dove il fan incontra la diva e…»

Lei mi fermò.

Con un gesto secco della mano.

«Joe.

Non farti illusioni.»

Mi guardò negli occhi, seria.

«Non mi scoperai.»

Boom.

Diretta.

Fredda.

Tagliente.

Come una stilettata nello stomaco.

Ci rimasi di sasso.

Poi feci un mezzo sorriso, più ironico che altro.

«Touché.

Non hai tutti i torti, in effetti… mi sa che mi sono segato su ogni centimetro del tuo corpo.»

Lei rise.

Un suono basso, tagliente.

Mi fissò, inclinando la testa.

«Lo so.

È per questo che ho pensato a te.»

Fece una pausa.

Incrociò di nuovo le gambe, lentamente.

Mi guardò con quell’aria a metà tra la sfida e il divertimento.

«Vedi, tu sai il mio segreto.

Sei l’unico.

E quindi… volevo chiederti un favore.»

Rimasi in silenzio, aspettando.

Il cuore già martellava.

Ma le sue parole mi spiazzarono.

«Mi serve qualcuno che mi aiuti con i contenuti.

Voglio variare un po’.

Contenuti notturni, all’aperto… robe più strane.

E mi serve qualcuno che riprenda.

Che tenga la luce. Che dia una mano.»

Mi fissava seria.

«Ovviamente non fraintendere.

Non ti lascerò mai scoparmi.

Mai.»

Un’altra coltellata.

Ma poi aggiunse:

«Però…

Vedresti tutto.

In anteprima.

E ci guadagneremmo entrambi, no?

Io ho un assistente discreto, e tu… ti porti a casa uno spettacolo privato.»

Mi passai una mano tra i capelli.

Era una proposta assurda.

Eppure, così maledettamente eccitante.

Reika si voltò verso di me, il trench ancora chiuso sul corpo da sogno che conoscevo ormai quasi a memoria, ma che vederlo dal vivo, così vicino, era tutta un’altra storia.

Mi guardò con quel suo mezzo sorriso storto, sicuro, e disse:

«Per esempio… oggi.

Vorrei che tu mi riprendessi.

Mi spoglio un po’.

Facciamo un giro nel parco, qualche scatto tra gli alberi, gioco col corpo…

E poi mi masturbo.

Lì.

Nel parco.

E tu stai dietro. Occhio vigile, riprendi tutto.

Ti va?»

La sua voce era bassa, decisa, con quella freddezza che faceva ancora più effetto del contenuto stesso delle sue parole.

Io deglutii.

E per qualche secondo rimasi zitto.

La mia mente girava su due binari: quello del “sei pazzo?” e quello del “è la cosa più eccitante che ti sia mai stata proposta”.

Mi grattai la nuca, quasi a prendere tempo, ma in realtà la decisione era già presa.

Avevo già detto sì dentro, solo che le parole dovevano ancora uscire.

«Beh… è decisamente una proposta allettante.

E, a pensarci bene, non c’è nessun motivo per cui dovrei dire di no.

Quindi…

Sai che c’è?

Proviamo.»

Lei annuì.

Fredda, soddisfatta.

Come se avesse appena confermato una pedina nel suo piano.

«Perfetto.

Allora andiamo.

E tieniti pronto:

vedrai cose che non dimenticherai più.»

Si alzò dalla panchina, sistemò il trench e iniziò a camminare verso il sentiero che attraversava il parco come un serpente buio.

Reika mi porse il telefono con nonchalance, senza nemmeno guardarmi.

«Fotocamera già aperta, riprendi tutto bene…»

Sorrise, accennando un morso al labbro inferiore. «Se sei bravo, magari te lo faccio anche rivedere dopo.»

Poi si voltò e cominciò a camminare lungo il vialetto di ghiaia del parco, diretta verso la zona delle vecchie giostre. Era tutto deserto, silenzioso, come se la notte stessa sapesse di dover tacere davanti a quello che stava per succedere.

Quando arrivammo, indossò una mascherina nera e degli occhiali da sole scuri, in pieno stile Reika. Si sistemò il trench con lentezza teatrale e mi lanciò un’occhiata:

«Pronto, regista?»

Annuii.

E allora iniziò.

Salì sull’altalena con grazia sfrontata, le gambe fasciate dalle calze a rete che brillavano lievemente sotto la luce fioca di un lampione. Oscillò appena, e mentre il dondolio prendeva ritmo, si sbottonò lentamente il trench, lasciandolo cadere dietro di sé.

Sotto, un corsetto aderente in vinile nero e una minigonna cortissima. Le curve le esplodevano addosso, scolpite e provocanti. La osservavo mentre giocava, oscillando piano, poi con un movimento rapido si alzò e corse verso lo scivolo. Sfilò il top corsetto come se fosse parte di una coreografia: spalle scoperte, schiena nuda, seno appena coperto da un reggiseno in pizzo sottile.

Era uno spettacolo. Selvaggia, libera.

E il bello è che lo stava facendo solo per la telecamera. Per me.

Restò in intimo: slip neri a vita alta, reggiseno coordinato, calze fino alla coscia. Mentre camminava verso l’albero più grande, sculettava con malizia, voltandosi appena ogni tanto per assicurarsi che la stessi riprendendo come voleva.

Mi fermai quando si sedette sotto l’albero.

Aprì le gambe quel tanto che bastava per rendere la posa indecente e ipnotica. Tirò indietro la testa, sfiorandosi il collo con le dita, poi le labbra, poi la pancia. Si mordeva l’interno della guancia, muoveva il bacino appena, lasciando che ogni gesto fosse lento, sensuale, studiato. Ma non per finta: Reika eracosì. Naturale come il peccato.

Il cuore mi batteva a mille.

Mi trovavo nel cuore del mio stesso desiderio, ed ero l’unico a cui era concesso assistere.

E ancora non avevo idea di dove tutto questo mi avrebbe portato.

Si sistemò meglio sotto l’albero, su quel prato appena umido d’estate. Il pizzo delle calze abbracciava ancora le sue cosce, ma poco altro era rimasto addosso. Il reggiseno nero, trasparente, le accarezzava appena il seno, teso sotto l’aria frizzante della notte. Gli slip erano una striscia nera sottilissima, che spariva tra le sue gambe ogni volta che si muoveva.

Mi guardò, sfiorandosi l’interno coscia con una lentezza indecente. La bocca le si incurvò in un sorrisetto obliquo, il tipo di sorriso che ti scivola sotto pelle e resta lì. Poi infilò un dito sotto l’elastico dello slip e con un gesto morbido se lo sfilò. Restò lì, completamente esposta alla notte. Alla mia camera. A me.

Si sdraiò leggermente all’indietro, con le gambe piegate e le cosce aperte. Il respiro le si fece più profondo, le mani le scorrevano sul ventre piatto, poi più giù.

Io continuavo a riprendere, ogni inquadratura più ipnotica della precedente.

Le dita affusolate accarezzavano la pelle chiarissima, si insinuavano, si fermavano, riprendevano. La bocca si socchiudeva, e un piccolo gemito si perse tra le foglie degli alberi sopra di noi.

Ogni suo movimento era una danza privata, e io il solo spettatore. Il busto si sollevava a scatti irregolari, i capelli le cadevano sul viso, le mani sempre più impegnate nel rendersi piacere. E mentre si perdeva nel ritmo del suo stesso corpo, si leccò le dita con lentezza, poi si accarezzò il seno con quelle stesse dita umide, lasciando che si insinuassero tra i capezzoli duri, rotondi, provocanti.

Le sue labbra sussurrarono qualcosa. Forse il mio nome. Forse no.

Ma in quel momento, ogni fibra del mio corpo lo sentì.

Registrai tutto.

Ogni fremito. Ogni sguardo. Ogni dannata curva.

E dentro di me qualcosa bruciava. Un misto di desiderio, confusione e fame.

Ma sapevo che non era ancora il momento di toccare. Di chiedere. Di pretendere.

No, non con Reika.

Con lei si osserva. Si aspetta. Si desidera.

E si spera, dannazione, di non perdere mai il suo interesse.

Le dita si strinsero sul bordo del reggiseno in pizzo, e con un gesto rapido e sicuro, lo sfilò. Il seno le rimbalzò leggermente, pieno, perfetto, i capezzoli tesi nell’aria tiepida della notte. Non distolsi lo sguardo nemmeno per un secondo, e la camera nemmeno.

Reika si portò una mano sul petto, sfiorandosi con la punta delle dita il capezzolo sinistro, che sembrava rispondere al tocco come fosse vivo, nervoso, in cerca di attenzione. L’altro lo stuzzicò con più decisione, pizzicandolo, tirandolo leggermente, mentre l’altra mano era ancora impegnata più in basso, tra le sue gambe aperte.

Aveva il respiro spezzato, le labbra socchiuse, le guance lievemente arrossate. Ma soprattutto… lo sguardo.

Fisso su di me.

Non sulla camera.

Non nel vuoto.

Su di me.

E mentre il suo corpo si irrigidiva, la schiena si inarcava e le gambe si tendevano in un movimento involontario e meravigliosamente autentico, si strinse il seno tra le mani, stuzzicando il capezzolo con due dita bagnate.

Fu un attimo.

Un’onda.

Un fremito.

La bocca si schiuse in un piccolo gemito che mi trafisse. Il corpo tremò in un piacere trattenuto e sensuale, come se ogni singolo muscolo vibrasse in perfetta armonia con il suo tocco.

Poi… il silenzio.

Solo il suo respiro che tornava calmo.

Solo i suoi occhi che mi fissavano, stanchi, felici, sazi.

Solo io, con il cuore che martellava nel petto e la consapevolezza che non avrei dimenticato quella notte per il resto della mia vita.

Mi porse la mano. «Hai ripreso tutto?»

Annuii, incapace di dire una parola.

tolse la mascherina e gli occhiali che indossava ancora.

Le diedi la mano e la aiutai ad alzarsi da terra. Era ancora completamente nuda, la pelle chiarissima leggermente arrossata dall’erba, i capezzoli tesi per l’eccitazione appena vissuta, le gambe tremanti.

Si scosse la terra di dosso con le mani e si sistemò i capelli con nonchalance, poi mi guardò e sorrise con quel suo solito tono tra lo sfacciato e il complice:

«Scommetto che ora muori dalla voglia di segarti.»

Mi fece l’occhiolino.

«Resisti, Joe. Aspetta che pubblichi il video, così almeno mi fai guadagnare qualcosa.»

Risi, un po’ imbarazzato, un po’ ancora su di giri per tutto quello a cui avevo appena assistito.

«Sì, certo… tutto per supportare i piccoli business locali.»

Lei scoppiò a ridere.

La seguii mentre, ancora a piedi nudi, camminava lungo il sentiero di terra battuta per tornare verso le giostre. Ogni tanto si fermava a recuperare un capo d’abbigliamento: prima il reggiseno, poi le calze, poi il top di vinile.

Si rivestiva lentamente, quasi con gusto. Come se lo spogliarsi fosse un atto teatrale, ma il rivestirsi fosse la vera firma finale dello spettacolo.

Alla fine, davanti all’altalena, infilò le scarpe con un piccolo sospiro e tirò fuori dalla borsa il telefono. Me lo porse con disinvoltura:

«Hai fatto un ottimo lavoro. Ti meriti di farne altri, se ti va. Salva il mio numero, così ci organizziamo.»

Lo presi e digitai il mio.

Lei, prima di separarsi, mi guardò dritto negli occhi:

«Ma ricordati… nessuna illusione.»

Poi si voltò e se ne andò, lasciando solo il rumore ritmico dei suoi passi sul vialetto di ghiaia e l’odore della notte mescolato al profumo della sua pelle.

Io rimasi lì, col cuore che batteva ancora forte e il cervello in tilt.

Tornai a casa immerso nei pensieri, il cervello ancora affollato da Reika, dai suoi sussurri, dalla pelle chiara e tesa sotto le mie dita mentre la aiutavo ad alzarsi. Avevo ancora il profumo della notte addosso, e un’erezione latente che mi bruciava sotto la pelle. Ma ero esausto. Ero pieno, svuotato e carico allo stesso tempo. Mi buttai sul letto, senza neanche togliermi i jeans, e in pochi minuti caddi in un sonno profondo, il corpo ancora in tensione ma la mente che si lasciava trascinare via.

La mattina dopo suonò la sveglia alle 8:15. Solita routine: caffè amaro, doccia veloce, t-shirt e felpa gettate addosso, e poi davanti alla scrivania.

Le otto ore di lavoro da remoto filarono lisce ma lente, scandite dai soliti ticket, dallo Slack sempre acceso e da un pensiero fisso che tornava: la sera sarei andato in palestra con Giada.

Giada.

La mia ex migliore amica, l’unica che conosceva il Joe di quando avevo ancora i brufoli e mi facevo i viaggi mentali su qualsiasi ragazza mi parlasse per più di tre minuti.

Erano anni che non la vedevo, eppure, dopo quell’uscita insieme, sembrava tutto come prima. Solo che adesso… adesso era una donna. E dannatamente sexy.

Snella, tonica, col fondoschiena che sembrava scolpito apposta per mandarti in sbattimento e quel modo ironico di parlarti che ti faceva sentire scoperto anche quando avevi ancora la maglietta addosso.

Alle 18:30 mi mandò un messaggio:

“Tra mezz’ora sotto casa tua, vestiti da guerra 💪”

Sorrisi. Risposi con un pollice in su e corsi a mettermi i pantaloni da palestra, anche se lo sapevo: quel pomeriggio non sarei riuscito a concentrarmi solo sugli addominali.

Scesi giù e la vidi subito, seduta sul cofano della sua macchina con una bottiglietta d’acqua in mano e l’aria da “non me ne frega niente eppure sono una bomba”.

Aveva addosso una felpa grigia larga, di quelle che sembrano rubate all’ex o a un fratello maggiore, e sotto… dei leggings neri, aderentissimi.

Trasandata, come solo certe ragazze sanno essere: senza trucco, capelli legati di corsa, ma con quel fondoschiena che sembrava disegnato da un artista in cerca di ispirazione. Un’opera d’arte in movimento, incorniciata nel tessuto che si tendeva perfettamente.

«Oh, ma sei pronto a fare la figura del morto in sala pesi?» mi disse con un sorriso, tirando giù gli occhiali da sole per guardarmi meglio.

«Io sì. Tu sembri più pronta per una sfilata che per la panca piana.»

«Taci scemo, ho dormito tre ore, mi reggo in piedi solo grazie al caffè e all’ansia.»

Ridiamo. E saliamo in macchina.

Durante il tragitto parliamo del solito: serie TV, ex stronzi, sogni lasciati a metà, progetti da rincorrere.

La voce di Giada era quella di sempre: familiare, ironica, a tratti pungente, ma con quell’empatia leggera che mi era mancata tanto. Non era cambiata, solo diventata più donna. Più forte. E, cazzo, più sexy. Anche se cercavo di non pensarci troppo.

«E tu invece, mister sviluppatore? Niente storie serie, cuori spezzati o stalker romantiche?» mi chiese a un certo punto, mentre fermava l’auto davanti alla palestra.

«No, solo tanto lavoro e… qualche situazione strana.»

«Strana tipo?»

«Tipo… complicata da spiegare. Ma prometto che prima o poi te la racconto.»

Mi guardò con un mezzo sorriso curioso.

«Non vedo l’ora.»

Scendemmo dall’auto.

Entrammo in palestra fianco a fianco. E per un attimo, pensai che forse quel giorno mi sarei allenato con più voglia del previsto.

Entrammo in palestra con quell’aria pigra da fine giornata. Io andai a cambiarmi nello spogliatoio, lasciandomi alle spalle il solito brusio di attrezzi, sbuffi e musica troppo alta. Dieci minuti dopo ero già in sala pesi, con l’asciugamano sulla spalla e poca voglia di faticare.

E poi eccola.

Giada.

In piedi vicino agli specchi, intenta ad allacciare le scarpe con l’elasticità di chi si è sempre presa cura del suo corpo.

Portava un top nero corto, che lasciava scoperti i fianchi snelli e una striscia sottile del suo ventre tonico. Ma fu quando si girò che dovetti deglutire due volte.

Quei pantaloncini aderenti… Cristo. Seguivano ogni centimetro del suo fondoschiena sodo come se fossero stati creati per esaltarlo. E quel fondoschiena… Dio, era come scolpito da qualcuno che conosce troppo bene le fantasie di un uomo.

Le gambe snelle e forti, la pelle leggermente ambrata e luminosa sotto le luci bianche della sala, la coda alta e spettinata che ondeggiava mentre camminava… era tutto un insieme che ti faceva dimenticare come si respira.

Lei mi vide, mi fece un cenno con il mento e un mezzo sorriso.

«Dai, non vorrai lasciarmi sola proprio oggi?»

La raggiunsi senza fiatare.

E per tutto il resto dell’allenamento non riuscii a distogliere lo sguardo da lei.

Non era solo una bella ragazza.

Era una dea.

E per quanto cercassi di restare lucido, il mio corpo aveva già deciso da che parte stare.