Tre troie e un coglione
Capitolo 5 - lezione al sapore di Marijuana

Mi svegliai lentamente, stiracchiandomi appena.
Il sole entrava dalla finestra della cucina e il mio corpo era ancora mezzo addormentato, ma qualcosa… qualcosa stava già succedendo.
Aprii gli occhi.
E la vidi.
Raffaella era seduta ai piedi del divano, di fronte a me, con le gambe piegate e un sorrisetto malizioso sulle labbra.
Indossava solo una t-shirt larga, e sotto, lo capii subito, nulla.
Ma soprattutto, mi stava toccando. Con i piedi.
I suoi piedi nudi si muovevano lenti sul mio inguine, sfiorandomi, salendo e scendendo, giocando con precisione sul mio membro già indurito.
Lo accarezzava, lo stringeva leggermente tra le dita dei piedi, poi scivolava via, solo per tornarci pochi istanti dopo.
Sapeva perfettamente cosa stava facendo.
“Buongiorno, dormiglione…”
“I miei piedini volevano ringraziarti per ieri sera.”
Mi guardava dritto negli occhi mentre parlava, con quel tono da gatta che si diverte col topo, con la voce roca, mezza sveglia e tutta sesso.
“Ti ho fatto il caffè. Ma prima… posso finire di svegliarti bene?”
Si avvicinò ancora un po’, sputò lentamente sulla mia intimità con un gesto lento e provocante, poi tornò in posizione e riprese a giocare con i piedi, questa volta con movimenti più decisi, lenti e sensuali.
Il piacere saliva in me come un’onda, mentre lei si divertiva a guardarmi perdere il controllo.
Avevo il respiro spezzato, gli occhi socchiusi, le mani strette contro i cuscini.
Quel risveglio era una tortura.
Una deliziosa, dannatissima tortura.
Le sue piante morbide si muovevano con una maestria che mi lasciava senza fiato.
Mi stringeva tra i piedi.
Con il destro mi accarezzava con movimenti lenti, dalla base fino alla punta, mentre con il sinistro mi premeva appena sotto, tenendomi fermo come se non volesse lasciarmi scappare nemmeno per un secondo.
Le dita si chiudevano attorno a me, avvolgendomi, giocando, scivolando su quel piacere già umido del suo sputo.
Il contatto era caldo, vellutato, e ogni passaggio era più deciso, più ritmico.
Faceva pressione nei punti giusti, alternando tocchi delicati a sfregamenti più intensi.
La guardavo da sdraiato, senza riuscire a parlare.
Godevo.
Godevo davvero.
In silenzio, con il fiato spezzato e gli occhi mezzi chiusi.
Lei sorrideva, divertita e concentrata, mentre mi accarezzava con movimenti sicuri e sensuali, aumentando la velocità appena mi vedeva fremere.
“Ti piace, eh?”
sussurrò, mentre con la punta dell’alluce mi sfiorava la parte più sensibile, ruotando leggermente il piede come se mi conoscesse da sempre.
Io annuii senza voce.
Le mani strette contro i cuscini, i fianchi che si sollevavano a ogni passaggio, in balìa del piacere che saliva sempre più forte.
Era un risveglio così intenso che mi sembrava di sognare.
Il mondo era solo il suo piede, il mio respiro e quella tensione che stava per esplodere.
Il ritmo delle sue carezze aumentava.
I suoi piedi si muovevano con decisione, uno che stringeva, l’altro che accarezzava, giocando con me come se sapesse esattamente ogni punto da toccare.
Ero in apnea.
Il respiro corto, i muscoli tesi, i fianchi che si sollevavano da soli, in cerca di sfogo, di sollievo, di quel momento inevitabile.
“Lasciati andare…”
sussurrò lei, maliziosa, le labbra piegate in un sorriso impudente.
“Voglio sentirti.”
Fu questione di secondi.
Il piacere salì all’improvviso, come un’onda calda che mi attraversava tutto.
Scoppiai.
Con un gemito soffocato tra i denti, il corpo che tremava, la passione esplose su di lei.
Schizzi caldi e bianchi le colpirono i piedi, sporcandole le dita, la pelle liscia, colando piano sulle caviglie.
Lei rise piano, divertita e compiaciuta, muovendo le dita tra i resti del mio piacere come a giocarci.
“Direi che il buongiorno te l’ho dato… bene.”
Mi lasciai cadere esausto sul cuscino, ancora ansimante, ancora stupito, ancora completamente nelle sue mani, o meglio… ai suoi piedi.
Dopo quell’esplosione di piacere, restammo lì ancora un po’, lei con i piedi appoggiati sulle mie gambe nude, io che la fissavo come se non capissi più nulla del mondo.
“Che sguardo hai?”
disse sorridendo, accarezzandomi la coscia col dorso del piede.
“Non avrai mica già voglia del secondo round…”
Sorrisi.
“Con te? Sempre.”
Rise, poi si allungò e mi baciò. Un bacio dolce, lento, ma pieno di sottotesto.
Quello che diceva: Non è finita. Ma adesso basta.
Ci stuzzicammo ancora un po’, tra carezze, battutine e giochi maliziosi. Poi Raffaella si alzò e si infilò nel bagno, nuda e bellissima.
“Devo andare a lavorare, sennò mi licenziano.”
“E tu?”
“Io torno a casa, a farmi interrogare da mia madre come se fossi sparito da tre giorni.”
Lei rise da dietro la porta, mentre si sistemava alla meglio, uscì in jeans e maglietta, i capelli raccolti velocemente.
Mi baciò la guancia e mi salutò con un’occhiata complice.
⸻
Tornai a casa poco dopo.
Erano quasi le undici e ovviamente, mia madre era seduta al tavolo della cucina, braccia conserte e sguardo che poteva trafiggere una parete.
“Dove sei stato stanotte?”
“Dalla vicina.”
“Quale vicina?”
“Quella che scrive libri e ha i piedi magici.”
Lei mi fissò per un attimo, cercando di capire se stessi scherzando.
Poi iniziò con un’ora intera di domande, battutine, supposizioni, occhi al cielo.
Il solito.
E mentre cercavo di svicolare le sue domande con un sorriso, dentro di me girava un solo pensiero:
“Io non ho idea di che rapporto ci sia tra me e Raffaella.
Ma so solo una cosa:
la voglio ancora.
E stavolta… voglio farla mia. Sul serio.”
⸻
Il fine settimana volò via.
Puff. Sparito.
Un attimo prima ero sul divano di Raffaella, con le sue dita e i suoi piedi, che mi scombussolavano i sensi.
Un attimo dopo, mi ritrovavo di nuovo alla scrivania, il lunedì mattina, con la maglietta stropicciata, il caffè mezzo freddo e una pila di codice da sistemare.
Lavorare da remoto ha tanti vantaggi.
Tipo non dover mettere i pantaloni veri.
O poter fissare il soffitto per dieci minuti, sognando il seno di Raffaella o il sorriso provocante di Reika, e dire a me stesso che “sto pensando a una funzione ricorsiva”.
Ma la verità è che, quel lunedì, non avevo voglia di nulla.
Ero nervoso, confuso, eccitato da tutto e da niente.
E l’unica cosa che mi teneva un minimo vivo, mentre fissavo lo schermo come un vegetale, era il pensiero di quella solita lezione con Alice.
Le diciannove non arrivavano mai.
Ma sapevo che sarebbero arrivate.
E che, come sempre, lei mi avrebbe aperto la porta con quei pantaloncini troppo corti e quello sguardo che non capivo mai se fosse ingenuo o criminale.
Alla fine, le diciannove arrivarono.
Finalmente.
Presi la chitarra, salutai mia madre e uscii.
Il tragitto verso casa di Alice lo conoscevo a memoria ormai, ma ogni volta che suonavo quel citofono, una piccola scintilla di curiosità mi scattava dentro. Chissà cosa si sarebbe messa oggi. Chissà che piega avrebbe preso la lezione.
Mi aprì come sempre.
Sorriso dolce, occhi grandi, capelli raccolti male e ovviamente, una canotta sottile che lasciava intuire tutto il necessario, accompagnata da quei soliti pantaloncini sportivi che sembravano disegnati apposta per farmi impazzire.
“Ciao prof!”
disse ridendo, mentre si allontanava sul parquet a piedi nudi.
La stanza era in ordine, la chitarra già poggiata sulla sedia.
Si sedette sul letto, come sempre, gambe incrociate, pronta.
E iniziò a suonare.
Solo che… stavolta qualcosa era cambiato.
Alice stava facendo progressi. Veri.
Le sue mani si muovevano con sicurezza, i suoi occhi seguivano le corde, le note uscivano limpide, morbide, piene.
E sopra tutto questo, la sua voce.
Perché sì, quella sera cantava anche.
E aveva una voce… cazzo, una voce che ti entrava sotto pelle.
Dolce, graffiata al punto giusto, emotiva. Vera.
“Porca miseria Alice,”
disse ridendo mentre applaudivo piano,
“Stai diventando magica.”
Lei arrossì un po’, si piegò in avanti, la canotta che le cadeva appena da un lato, il seno che si muoveva appena sotto il tessuto. Sorrise.
“Mi piace farlo davanti a te. Mi sento più sicura…”
Proprio in quel momento, la porta si aprì.
Entrò sua madre, Veronica.
Bella, curata, elegante anche nella fretta.
“Scusate ragazzi, non volevo interrompere, stavo uscendo. Alice, c’è la cena in frigo, non fare tardi e non scordarti di dare da mangiare a Luna, ok?”
“Sì mamma, tranquilla!”
Veronica mi lanciò un sorriso gentile e poi svanì nel corridoio, chiudendo la porta dietro di sé.
Silenzio.
Io guardai Alice e sorrisi.
“Sei stata bravissima, davvero.”
Lei mi fissò. Quegli occhi verdi grandi, un po’ furbi, un po’ da cerbiatta.
“Posso… concedermi una ricompensa per stasera?”
Alzai un sopracciglio, ironico.
“Che tipo di ricompensa?”
Alice si allungò sotto il letto, tirò fuori una piccola scatolina di latta e la aprì.
Dentro c’era una bustina trasparente piena di marijuana, ben curata, profumata.
“Solo una cannetta, dai. Ce la meritiamo… no?”
Ecco.
Ancora una volta… quella linea sottile tra innocenza e provocazione.
E io lì, a chiedermi se stavo facendo da insegnante… o da complice.
⸻
“Alice, non so…”
“Oh dai… solo una, per festeggiare i progressi.”
“Sono qui per lavorare…”
“E hai fatto un ottimo lavoro, prof. Concediti un premio.”
Mi guardò con quegli occhioni verdi e il tono dolce che sapeva usare benissimo, quasi da bambina viziata.
E come facevi a dirle di no?
Sospirai.
“Okay. Solo una.”
Lei prese il grinder con naturalezza, spezzettò l’erba, la rollò con una precisione da esperta e, poco dopo, la prima boccata fumava già verso il soffitto.
Mi passò la canna, sdraiandosi sul letto.
Io la imitai, rassegnato. Ma divertito.
Fummo lì per un po’, in silenzio, testa contro testa, occhi al soffitto.
“Secondo te le nuvole… si guardano tra loro?”
“Stai già fusa?”
“No. Sto filosofeggiando.”
Scoppiammo a ridere, quella risata lunga e scema che ti viene solo quando sei fatto e felice.
“Guarda il soffitto,” disse a un certo punto, “sembra la faccia di un cane arrabbiato.”
“Alice. Quello è solo il lampadario.”
“Appunto.”
Poi cominciò a giocare con le mie dita. Le intrecciava, le sfiorava, le sollevava in aria come fossero marionette.
“Tu secondo me suoni la chitarra meglio con la sinistra.”
“Sono destro.”
“Appunto.”
Ridevamo per tutto. Anche solo per il suono della parola “fagiolo”.
Poi si voltò verso di me e mi osservò un attimo in silenzio.
“Joe, ma tu… pensi che io sia carina?”
Il tono era innocente. Ma quegli occhi cercavano altro.
“Alice, tu sei oggettivamente una ragazza bellissima.”
Lei sorrise.
Un sorriso che non era più da ragazzina.
Era qualcosa di più. Di pericoloso.
Si girò di schiena, i capelli lunghi che le cadevano addosso, e alzò appena la canotta, scoprendo la schiena nuda.
“Mi fa strano pensare che un ‘prof’ mi guardi così…
Cioè, se mi guardi.”
“Ti guardo solo quando stai per sbagliare un accordo,”
dissi, ironico.
“Appunto.”
E di nuovo scoppiammo a ridere, più vicini di prima, più sciolti.
Più… complici.
Alice si rigirava sul letto come se fosse un’enorme coperta viva.
Rideva per qualsiasi cosa.
“Oh mio Dio, Joe, sembri mio zio quando ridi così.”
“Bene, sono passato da ‘prof’ a ‘zio’. Prossimo step: nonno.”
“Ma sei un prof-ziastro. Dai, hai ventitré anni! Neanche cinque di più di me!”
Si sporse, arricciando il naso, e con la canna tra le dita mi soffiò il fumo in faccia.
Io cercai di non tossire.
Fallii miseramente.
“Ammettilo,” disse sghignazzando, “stai iniziando a divertiti.”
“Sto iniziando a perdere ogni tipo di controllo, sì.”
“Perfetto. Obiettivo centrato.”
La stanza odorava di erba, risate e incenso che aveva acceso all’inizio “per fare atmosfera”.
Era tutto soffuso, caldo, morbido.
E lei… lei si muoveva come se la gravità avesse deciso di lasciarla in pace.
“Hai mai fatto qualcosa di pazzo in vita tua?”
chiese improvvisamente, stendendosi di nuovo a pancia in su.
“Ho accettato di insegnarti a suonare la chitarra.”
“Touché. Ma intendo tipo… cose davvero fuori di testa.”
“Una volta ho fatto paracadutismo.”
“E io una volta ho fatto la pipì in una piscina termale.”
“…Non è la stessa cosa, Alice.”
“No, ma è molto più rock.”
Scoppiammo a ridere di nuovo.
Poi si mise in ginocchio sul letto, la canottiera le ricadeva un po’ di lato, scoprendo una spallina nera. Il seno si muoveva appena sotto il tessuto, libero e morbido.
E per un istante… fui tentato.
“Non mi stai più ascoltando, eh?”
disse, piegando la testa da un lato.
“No, stavo solo… studiando la tua postura da musicista.”
Fece una linguaccia, prese un cuscino e me lo tirò in faccia.
“Allora beccati questo, pervertito!”
E fu guerra di cuscini.
Una guerra senza regole.
Senza armi. Solo risa, fumo, pelle e respiri caldi.
Finimmo stesi uno accanto all’altro, di nuovo, lei con la testa sulla mia spalla, le gambe accavallate.
“Sei troppo simpatico, Joe.”
sussurrò, mezzo addormentata.
“Tu sei un casino, Alice.”
“Appunto.”
E lì, nel silenzio ovattato della stanza, mentre il cuore rallentava e il fumo si dissipava, rimasi ad ascoltare il suo respiro.
E a chiedermi, di nuovo, quanto ancora sarei riuscito a restare solo il suo insegnante di chitarra.
Eravamo lì, sdraiati.
Lei con la testa sulla mia spalla, io ancora un po’ fuso, lo sguardo nel vuoto, il corpo rilassato.
E poi…
“Dlin.”
Il suono di una notifica.
Secco, rapido.
OnlyFans.
Solo che… non la vidi io per primo.
Lo schermo si accese, il nome REIKA comparve in bella vista, e Alice, curiosa come una faina fatta, si sporse verso di me e lo notò.
“E questa cos’è…?”
“Niente, lascia stare.”
“Aspetta, aspetta… ‘nuovo contenuto esclusivo di Reika’.
Joe… ma tu sei uno di quelli?”
Mi voltai verso di lei, sorpreso.
“Di quelli cosa?”
“Di quelli che si fanno le… coccole serali con le tette delle cosplayer su OnlyFans?”
“Cioè… non è che… cioè…”
“Oh mio Dio, sei un pervertito!”
E scoppiò a ridere, divertita come non mai.
“Ma dai, Joe! Reika? Quella col corsetto e le orecchie da gatta?”
“Tu come fai a sapere chi è?”
“Eh, scusa, sono giovane anch’io. E poi TikTok non perdona.”
Si mise seduta a cavalcioni, di nuovo, la canottiera scivolata ancora un po’.
Gli occhi che brillavano di malizia.
“Quindi dimmi… che tipo di contenuti guardi?”
“Alice…”
“No dai, seriamente. Sei più tipo… piedi, cosplay, o… dominazione?”
“Sei fuori.”
“Fuori come te, Joe. Solo che io non pago venti euro al mese per vedere una ragazza che si veste da coniglietta.”
Mi pizzicò la pancia.
“Ti eccitano le conigliette, eh?”
“Alice…”
“Aspetta, ne ho un’altra.
Cosa ti farebbe più effetto: vedermi vestita da maid giapponese, o da infermiera sexy?”
Mi sentivo il cervello frantumato.
Fuso, confuso, eccitato.
Lei stava giocando. Ma quanto era gioco? E quanto no?
“Sai che potrei aprirmi un profilo anche io?”
disse, passandosi la lingua sulle labbra.
“Così magari mi paghi anche tu. Con la tariffa da studente.”
Scoppiammo di nuovo a ridere, ma il suo sguardo rimase fisso su di me.
Un attimo in più.
Un secondo di troppo.
Quel secondo in cui capii che stava aspettando la mia reazione.
“E comunque, il tuo ragazzo?”
“Il mio…?”
“Sì, il tuo fidanzato. Non sarebbe geloso di questi giochini?”
Il sorriso le si spense.
Pochi secondi.
Solo uno sguardo perso nel vuoto. Poi sbottò.
“Ma che ne so se gli importa!
È sempre più assente, Joe. Sempre a pensare ai cazzi suoi.
Lui è il musicista vero, lui è il ‘genio’, lui è quello che deve fare carriera.
Io? Io sono solo la ragazzina che gli regge il microfono e lo aspetta a fine concerto.”
Fece una pausa.
Respirò a fondo, poi si alzò in ginocchio sul letto, agitata.
“Sai che non si è mai accorto nemmeno di come mi vesto?
Che mi vesto così solo per provocare, per vedere se almeno qualcuno si accorge di me?”
Io restai in silenzio, non sapevo se interromperla.
Ero spiazzato.
Poi lo fece.
Senza pensarci due volte, in un gesto teatrale e impulsivo, si tolse la canottiera.
Così, di scatto.
I suoi seni nudi, sodi e perfetti, rimbalzarono dolcemente quando si mosse.
“A lui nemmeno piace il mio seno,”
disse, guardandomi dritto negli occhi.
“Dice che è troppo… piccolo. Troppo ‘da ragazzina’.
Ma tu che dici, eh, Joe? A te piace?”
Era un misto di rabbia, insicurezza, e qualcosa di più profondo.
Come se volesse solo sentirsi vista, sentire che valeva qualcosa.
Io la guardai.
A lungo.
Il petto nudo, il respiro agitato, il rossore sulle guance, gli occhi lucidi ma fermi.
“Alice, tu sei… tu sei bellissima. E non devi cambiare nulla. Mai.”
Lei abbassò lo sguardo un istante, come se quelle parole le avessero fatto più effetto del previsto.
Poi, con un sorriso appena accennato, si avvicinò di nuovo a me, a torso nudo, il suo profumo misto a fumo e pelle, dolce e confuso.
“Lo so,” sussurrò.
“Ma volevo sentirlo da te.”
Rimase in silenzio, a torso nudo.
La pelle pallida che brillava appena sotto la luce della stanza, il respiro ancora un po’ affannato.
Io non sapevo se sfiorarla o guardarla da lontano.
Poi, come per spezzare il momento, si sporse verso il comodino, prese la bustina e iniziò a rollare un’altra canna.
“Alice… stai esagerando.”
“No, sto solo rilassandomi.”
“Hai già fumato prima. E non sei abituata così tanto.”
“Ma chi se ne frega, dai. Siamo in buona compagnia… e io non ho voglia di pensare.”
C’era qualcosa nel suo sguardo che mi spaventava più del resto.
Una voglia di evadere, di dimenticare, di distrarsi… da cosa, non lo sapevo ancora.
Accese la canna con un gesto rapido, prese una boccata lunga, profonda.
Troppo.
Tossì subito, si piegò in avanti, gli occhi che lacrimavano, la pelle che andava scolorendosi.
“Alice?
Alice stai bene?”
Non rispose.
Lasciò cadere la canna sul tappeto e si alzò di scatto, barcollando.
“Mi… mi gira tutto…”
mormorò, una mano sulla fronte, l’altra sulla pancia.
Corse via, scalza, con il seno che si muoveva ancora mentre si teneva lo stomaco, e si infilò in bagno.
Un secondo dopo, sentii il suono inequivocabile: stava vomitando.
Mi alzai subito, corsi dietro di lei e la trovai lì, inginocchiata davanti al water, i capelli sudati che le cadevano sul viso, il respiro spezzato.
Mi inginocchiai accanto a lei, le tenni i capelli.
Non dissi niente per un po’.
Le accarezzai piano la schiena, cercando di calmarla.
“Scusa…”
mormorò con voce rotta.
“Che figura di merda.”
“Alice, non devi scusarti.
Va tutto bene.
Ci sono io.”
Lei si appoggiò al muro, il viso stanco, gli occhi ancora lucidi.
Mi guardò per un attimo, vulnerabile, sincera.
“Non volevo essere così…
È solo che… a volte mi sento troppo piena. Di tutto.
E non so come svuotarmi.”
Io non risposi.
Le passai un asciugamano bagnato sul viso.
E in quel momento, la sensualità lasciò spazio a qualcosa di diverso.
Qualcosa che non aveva ancora un nome, ma che stava crescendo sotto pelle.
La misi a letto con delicatezza.
Si lasciò andare sul cuscino con un piccolo sospiro, stanca, stordita e con gli occhi mezzi chiusi.
Le rimboccai la coperta e le sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Lei, con un filo di voce, mi guardò.
“Ti sei divertito con me, Joe?”
Mi bloccai un secondo.
Poi sorrisi, sincero.
“Sì.
A volte… è bello sentirsi di nuovo dei ragazzini irresponsabili.”
Lei chiuse gli occhi, sorridendo appena.
Silenzio.
Un attimo di quiete.
Poi me ne andai.
Fuori dall’appartamento, chiusi la porta piano, mi stiracchiai e mi avviai verso casa.
La mente ancora intorpidita, i pensieri sparsi tra il vomito, il seno nudo di Alice e quel senso di strana protezione che non capivo bene da dove venisse.
Poi il telefono vibra.
Notifica di OnlyFans.
“Ah già…”
pensai, “Reika.”
Ma non era solo un contenuto.
C’era anche un messaggio.
Una nuova chat privata.
Apro, e leggo.
“Vediamoci in villa.
Stanotte.
Ti devo parlare.”
Mi fermai a metà del vialetto.
Il cuore che fece un piccolo salto.
Mi guardai intorno come un idiota, come se qualcuno potesse aver letto quel messaggio al posto mio.
“Che cazzo sta succedendo?”
Era Reika.
La Reika.
Quella che sputava sul seno dicendo il mio nome.
Quella che avevo visto tra la folla di gente, vestita da coniglietta.
Quella che adesso voleva vedermi.
Dal vivo.
Di notte.
In villa.
Sentii un brivido lungo la schiena.
Era eccitazione?
Paura?
O solo… desiderio puro?
Non lo sapevo.
Ma una cosa era certa:
non avrei dormito, quella notte.
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