Tre troie e un coglione
Capitolo 4 - mai dimenticare il preservativo

Il giorno dopo lo passai interamente in uno stato che definire eccitato sarebbe riduttivo.
La testa cercava di lavorare, ma il corpo aveva altre priorità.
Ogni mail, ogni riga di codice, ogni notifica… tutto mi sembrava inutile se confrontato con quello che avevo vissuto la sera prima.
Reika che si masturbava dicendo il mio nome.
La maschera che cadeva.
La realtà che si piegava su se stessa.
Avevo passato tutta la giornata col durello nascosto sotto la scrivania, a sistemare script e frontend mentre dentro di me ribolliva un solo pensiero:
“Non posso andare da Alice in questo stato.”
Alle 19 in punto, puntuale come sempre, arrivai a casa di Veronica.
Lei, come al solito, mi accolse con il sorriso materno di chi ancora non ha capito che la figlia è un’arma di distruzione ormonale.
“È già in camera, ti aspetta.”
Salii.
E già da fuori la porta socchiusa, capii che Alice aveva superato se stessa.
Indossava una canottiera bianca a costine, cortissima e attillata, senza reggiseno, e un paio di pantaloncini di jeans tagliati, larghi ai fianchi, che sembravano messi lì solo per non lasciarla nuda.
Era sul letto, seduta con le gambe incrociate, la chitarra sulle cosce nude, e il solito sorriso che sembrava innocente ma conteneva più malizia di quanto volesse ammettere.
“Ciao prof… sei rosso in faccia, oggi. Giornata stressante?”
Non avevo nemmeno parlato.
E mi aveva già letto dentro.
“Un po’… diciamo che ero distratto.”
Lei sorrise.
Si sporse verso di me per prendere il plettro da terra, e nel farlo la canottiera si sollevò appena, lasciando intravedere il profilo morbido del seno.
Io distolsi lo sguardo.
O almeno ci provai.
“Beh, allora fammi concentrare io… magari ti insegno qualcosa io oggi, eh?”
Lo disse con quel tono tra lo scherzoso e il proibito, mentre cominciava a pizzicare le corde.
La lezione iniziò con le solite battute.
Alice aveva sempre quel tono lì, tra il gioco e il fuoco, eppure ogni volta riusciva a darmi la sensazione che non fosse davvero consapevole di quanto mi mandava in confusione.
Ero seduto accanto a lei, sul bordo del letto, mentre cercavamo di perfezionare un giro armonico che avevamo provato la settimana prima.
“A volte penso che dovrei fare la rockstar e basta,” disse, sorridendo. “Se non riesco come cantante, almeno conquisto i cuori con la canottiera, no?”
Lo disse ridendo.
Ma intanto si piegava verso lo spartito, e il seno si muoveva sotto quel pezzo di stoffa come un’onda lenta.
Senza reggiseno.
Ancora.
Io deglutii.
Due volte.
“Saresti pericolosa sul palco,” mormorai. “Soprattutto per i chitarristi…”
Lei mi guardò con un’espressione da gatta sorniona.
“Ma io sono una brava ragazza,” disse con tono finto offeso, “ho un fidanzato, non so se te l’ho già detto…”
“Ah sì?” dissi io, sarcastico. “Una quindicina di volte.”
“Ma perché non mi credi?” rise. “Pensi che una con una faccia da bambola e il cervello da ribelle non possa essere fedele?”
Il problema non era quello.
Il problema era che quella faccia da bambola, e quel corpo da sogno, mi stavano scavando dentro.
E io non potevo cedere.
Lei si mise a suonare un riff, sbagliò due note, rise, e si voltò verso di me.
“Mi distrai.”
“Tu distrai me.”
“Eh, ma io sono l’allieva. È il prof che deve essere professionale, no?”
Mi sfidava.
A volte con lo sguardo.
A volte con il tono.
Altre volte… con il corpo.
Ad un certo punto si alzò per prendere un’altra chitarra, e mentre si piegava in avanti, i pantaloncini lasciarono intravedere parte del fondoschiena.
Perfetto.
Alto.
Sodo.
Si voltò, vide che avevo distolto lo sguardo al volo.
Fece un sorrisetto.
“Tutto bene?”
“Tutto… sotto controllo.”
“Ah. Allora devo impegnarmi di più.”
⸻
E in quel momento, non capii se stava parlando della musica… o di qualcos’altro.
Per il resto della lezione, fu bravissima.
Precisa, rapida, sensibile.
Capiva ogni accordo al volo.
Aveva gusto.
Aveva talento.
Eppure io riuscivo solo a pensare a quanto era perfetta in quel suo modo così spontaneo e feroce.
Una ragazzina che sembrava una dea.
Un angelo col sorriso da diavolo.
Alla fine della lezione, mentre sistemavo le cose nella custodia, lei si avvicinò e mi chiese:
“La prossima volta possiamo suonare qualcosa di un po’ più… intenso?”
“Intenso come?”
“Come… emozionante. Che fa venire i brividi.
Sai, quelle cose che… toccano corde che non c’entrano solo con la musica.”
Mi sorrise, poi mi diede un buffetto sul braccio.
“Ciao prof. Alla prossima.”
Chiuse la porta dietro di sé, lasciandomi con un pensiero fisso:
quanto ancora avrei resistito a quel sorriso?
Alle 21, con ancora addosso il suo profumo misto shampoo e desiderio, decisi che non potevo chiudermi in casa.
“Una birra e la partita. Nient’altro. Ho bisogno di staccare.”
Tornai al bar dove ero stato con Giada, senza pensarci troppo.
Un posto tranquillo, familiare, dove la luce è bassa, il brusio copre i pensieri e il mondo sembra un po’ più semplice.
Appena entrai, però, il mondo smise subito di essere semplice.
Dietro il bancone c’era Raffaella.
Sorridente, sensuale, e con una maglietta che sembrava dipinta addosso.
Aveva i capelli raccolti con leggerezza, qualche ciocca scura che le accarezzava le guance.
I jeans stretti le fasciavano i fianchi con una naturalezza sfrontata, e ogni movimento delle sue anche sembrava dettato da una regia invisibile, pensata per far impazzire chiunque avesse occhi.
Mi vide.
E sorrise in quel modo che sapeva troppo.
Troppo del mio corpo.
Troppo delle mie fantasie.
“Ma guarda chi si rivede…
Non ti avevo detto che lavoro qui?”
“No. Ma direi che mi hai fatto la sorpresa perfetta.”
“Birra o… il solito gioco?”
Disse inclinando appena la testa, mentre si chinava dietro al bancone, offrendomi una vista da film vietato.
“Birra. Per ora.
Ma se nel menù c’è anche il gioco…”
“Ci si può sempre arrivare.
Tu siediti, io ti servo.
E magari, se fai il bravo,
ti racconto il mio prossimo racconto.
Quello… col vicino di casa.”
Mi sedetti.
Le luci dello schermo riflettevano sul vetro della birra appena versata.
Ma i miei occhi non erano sul calcio.
Erano tutti per lei.
Per quella donna che sapeva accendere il desiderio con le parole,
e con uno sguardo far saltare ogni difesa.
La partita era accesa.
Ma io no, io ero in stand-by.
Seduto al tavolino, birra fresca in mano, cercavo di concentrarmi sullo schermo, sulle azioni, sugli applausi.
In realtà guardavo il culo di Raffaella mentre si muoveva dietro il bancone.
Quei jeans stretti sembravano cuciti sul suo corpo, e ogni passo era una piccola punizione per il mio autocontrollo.
Rideva con un cliente, si allungava per prendere una bottiglia, si spostava leggera come se non sapesse che ogni suo gesto era carico di un’erotismo istintivo e preciso.
Ma fu proprio mentre stavo per bere il secondo sorso che la vidi.
Seduta a un tavolo laterale, da sola.
Reika.
Indossava un cappuccio chiaro, una felpa larga, jeans larghi.
Quasi un travestimento.
Ma il viso, la frangetta, le labbra piene e quel modo di guardare lo schermo con occhi intensi e lucidi… era lei.
Faceva il tifo in silenzio, con piccoli gesti.
Aveva un bicchiere d’acqua, e le mani raccolte tra le gambe, quasi come se volesse rendersi invisibile.
Non ci riusciva.
Cavolo. Era davvero qui.
E io… io mi ero palesato.
Le avevo chiesto una videochiamata.
Aveva detto il mio nome mentre si masturbava.
E ora era lì. A tre metri da me.
Avrei voluto alzarmi.
Avvicinarmi.
Dire qualcosa, anche solo “ciao”.
Ma…
Dietro il bancone, Raffaella mi lanciava occhiate.
Occhiate che sembravano leggere i miei pensieri, smontarli e rimontarli.
E la verità era che non sapevo bene cosa fossimo io e lei.
Una scopata? Un gioco? Un racconto che si sta scrivendo da solo?
Eppure, non volevo rischiare.
Non ancora.
Mi limitai a osservare Reika da lontano, come se stessi spiando una parte di me stesso.
La mia ossessione, la mia fantasia, il mio porno preferito.
In carne, ossa, felpa e silenzio.
E intanto, bevevo.
Guardando due donne.
E chiedendomi quale dei due fuochi mi avrebbe bruciato per primo.
La serata andava avanti.
La birra mi stava sciogliendo.
Con Raffaella si scherzava, come sempre.
Una battuta, un ammiccamento, una piega del corpo che diceva tutto e niente.
Lei si avvicinava ogni tanto, mi versava senza chiedere, mi parlava con quegli occhi liquidi e quel sorriso che sapeva esattamente dove colpire.
E io…
guardavo Reika.
Di nascosto.
Come uno stronzo.
Con desiderio.
Con curiosità.
Con fame.
Finché la vidi alzarsi.
Andava in bagno.
Quel bagno unisex in fondo al corridoio.
E non so.
Non so che cazzo mi è passato per la testa.
Forse la birra.
Forse l’erezione costante da tre giorni.
Forse l’idea di incrociarla davvero, senza schermi.
Mi alzai, cercando di non farmi notare.
Non un piano brillante.
Ma l’idea era semplice: incrociarla all’uscita, buttare lì una frase. Una cosa tipo:
“Hey… bella felpa.”
Così, idiota. Ma almeno esistere.
Mi avvicinai al corridoio.
Il cuore martellava.
Stavo sudando.
Ero a due passi da quella ragazza che, fino a ieri, guardavo mentre si toccava dicendo il mio nome.
Il bagno era chiuso.
La luce accesa.
E io lì.
Fermo.
Idiota.
Poi… il clic della serratura.
La maniglia che gira.
Lei uscì.
La felpa larga, il viso abbassato.
Le labbra lucide.
Gli occhi truccati, ma stanchi.
Bellissima, con quella fragilità che ti fa venire voglia di toccarla anche solo per vedere se è vera.
Mi vide.
Mi vide.
Si fermò.
“Stai facendo stalking?”
Disse, seria.
Poi accennò un sorriso appena, come a dire sto scherzando… forse.
“No… cioè…
Volevo solo dirti ciao.”
Lei si avvicinò.
Pochi centimetri.
Ora la vedevo da vicino, i dettagli del viso, la pelle chiarissima, quasi diafana, gli occhi truccati che sembravano leggere tutto.
“Joe, giusto?”
Mi guardò negli occhi.
Non sorpresa.
Solo… presente.
Perfettamente presente.
Annuii.
“Già.
Non pensavo ci saremmo mai… incrociati, così.”
Lei si spostò una ciocca dietro l’orecchio.
“Beh, a quanto pare siamo più vicini di quanto credevamo.
Ma tu… nella videochiamata non ti sei mostrato.”
Fece un mezzo sorriso, un po’ sprezzante.
“Molto misterioso.”
“Mi serviva solo… vedere te.”
Un secondo di silenzio.
Poi fece un passo ancora più vicino.
Lentamente.
“E ti è piaciuto?
Guardarmi?”
Abbassai appena lo sguardo, poi risposi a voce bassa.
“Sì.
Troppo.”
Lei rise.
Un suono leggero, quasi sarcastico.
“Allora adesso lo sai… sono vera.
E ho un cazzo di nome vero.
Ma per te… puoi continuare a chiamarmi Reika.”
Poi mi sfiorò il petto con due dita, come una firma, e sussurrò:
“Non cercarmi, se non sei sicuro di voler giocare sul serio.”
Si voltò.
Andò via.
Il suo profumo rimase lì, addosso a me,
come un invito senza biglietto.
Come una promessa a tempo.
E io…
io ero più eccitato e più perso di prima.
Tornai al mio posto.
Cercai di guardare la partita.
Ma la testa era altrove.
Ancora lì, in quel corridoio, con la sua voce che mi rimbalzava nelle orecchie.
“Non cercarmi, se non sei sicuro di voler giocare sul serio.”
E intanto, a pochi metri da me, Reika era tornata al suo tavolo.
Non mi guardava.
Sembrava concentrata sullo schermo.
Sembrava.
Perché sapevo che non era così.
Poi passò Raffaella, con lo straccio in una mano e il vassoio nell’altra, e con quel tono da “non sto dicendo nulla ma sto dicendo tutto”, mi lanciò:
“Dopo la partita finisco,
se ti va torniamo su insieme.”
Il cuore accelerò.
La pelle reagì.
Annuii.
“Certo. Ti aspetto.”
E fu così.
Aspettai.
Finsi di guardare gli ultimi minuti del secondo tempo.
E quando il fischio finale arrivò, non fu il risultato a interessarmi.
Fu Reika, che si alzò, raccolse la borsa, si avviò verso l’uscita.
Ma prima di varcare la porta…
si voltò.
Mi guardò.
E mi sorrise.
Uno di quei sorrisi lenti, enigmatici, che non significano “ciao”, ma “ci rivedremo, quando voglio io.”
Uno sguardo che mi attraversò.
Uno sfioramento senza pelle.
Uno schiaffo di desiderio trattenuto.
Poi se ne andò.
Svanì nella sera.
Poco dopo, Raffaella uscì dallo spogliatoio, zaino in spalla, capelli raccolti in modo disordinato e quell’aria da “ti ho aspettato” che mi piaceva da impazzire.
“Andiamo?”
disse, sorridendo.
“Andiamo,” risposi.
E ci incamminammo insieme verso casa,
verso quel palazzo che ora custodiva segreti,
fantasie,
e un crescente bisogno di capire chi cazzo ero diventato.
Arrivati sotto il palazzo, infilai la chiave nel portone.
La serata era calda, l’aria piena di rumori ovattati e odore di pioggia lontana.
Stavo per salutarla con un mezzo sorriso quando la sentii alle mie spalle.
“Un’ultima birra da me?”
La sua voce era morbida, ma con quel tono da sfida che conoscevo bene.
Mi girai, la guardai con un sorrisetto.
“Una birra?
Sicura che sia quello che vuoi?”
E mentre parlavo le toccai il naso col dito, come si fa quando si prende in giro qualcuno… o quando si è a un passo dal baciarlo.
Lei rise, si scostò appena.
“Oh, guarda che non sei così irresistibile, sai?”
Poi fece un mezzo passo verso di me.
“Però mi piacciono i tipi che parlano troppo.”
Stuzzicarsi era il nostro linguaggio.
Era così che ci dicevamo che ci volevamo.
Accettai.
“Ok.
Ma solo una.
Giuro.”
Salimmo.
Appena dentro casa, lei si tolse le scarpe con un colpo secco e disse che andava a cambiarsi.
Io rimasi sul divano, con una birra già in mano, aspettando, un po’ stanco, un po’ eccitato.
Poi tornò.
E la birra mi si fermò a metà strada.
Canotta bianca, sottile, senza reggiseno.
Mutandine nere.
Piedi nudi.
Capelli raccolti di fretta.
Una bellezza domestica e sfacciata allo stesso tempo.
Appena la vidi, arrossii.
Era istintivo.
Forse stupido.
Ma non me lo aspettavo.
Lei mi guardò con un sorriso storto, sollevò un sopracciglio.
“Dai, Joe…
me l’hai già leccata.
Ti scandalizzi per così poco?”
Boom.
Un pugno dritto allo stomaco.
Di quelli che fanno ridere, eccitare, e perdere il fiato insieme.
La guardai senza parole per un secondo.
Poi sorrisi, scossi la testa.
“No, è che…
mi stavi venendo in mente mentre bevevo.”
Lei rise.
Si sedette accanto a me.
Le sue cosce nude sfiorarono le mie.
“Allora bevi in fretta, magari ti vengo in mente meglio dopo.”
E in quel momento, tra il suono del tappo, le sue gambe, e quel sorriso da peccato annunciato,
capì che con Raffaella le notti normali non esistevano.
Bevemmo in silenzio per qualche minuto.
Lei sedeva con le gambe raccolte sul divano, la canotta scivolata un po’ più giù su una spalla.
Il suo profumo sapeva di bagnoschiuma e notte calda.
Mi stava risucchiando. Piano.
Così, per spezzare l’atmosfera, o forse per spingerla oltre, le chiesi:
“Allora, Raffa, cosa mi fai leggere stasera?
Un altro dei tuoi racconti da censura?”
Lei sorrise senza guardarmi, alzò gli occhi verso la libreria piena di quadernini malconci, alcuni col dorso strappato, altri tenuti insieme da elastici colorati.
Ne prese uno a caso.
“Questo è vecchio.
Ma uno dei miei preferiti.”
Me lo porse.
Lo aprii.
Sfogliai fino a una pagina piegata.
Lessi.
Era un racconto breve, intenso.
Parlava di un ragazzo che si inginocchiava ai piedi della protagonista, li prendeva tra le mani, e iniziava a leccare lentamente la pianta del piede, tra i sorrisi increduli e l’eccitazione crescente della ragazza.
Poi saliva piano.
Caviglia.
Polpaccio.
Coscia.
Fino a… beh.
Sollevai lo sguardo.
Lei si mordeva l’unghia del pollice.
“Wow,” dissi con un mezzo sorriso, “questo è…
molto specifico.
Fantasia tua?”
Lei arrossì.
Si strinse nelle spalle.
“Beh…
forse.”
La guardai fisso.
Posai la birra sul tavolino.
Poi, con lentezza, le presi la bottiglia dalle mani.
“Allora forse dovremmo metterlo alla prova, no?”
Lei rise piano, nervosa ma eccitata.
“Sei scemo.”
“Sì.
Ma sono curioso.”
Con delicatezza le presi le caviglie, la feci sdraiare sul divano.
La sua pelle era calda sotto le dita.
Il suo sguardo, acceso.
Mi inginocchiai davanti a lei.
Sollevai il piede sinistro.
Le dita piccole, curate, la pianta liscia e morbida.
La guardai un’ultima volta.
Non disse niente.
Solo annuì.
E allora la lingua si posò sulla pelle.
Umida, lenta, precisa.
Una carezza che non era una carezza.
Un invito.
La leccai con calma, tra le dita, sulla pianta.
Sentii le sue dita piegarsi, la sua coscia contrarsi.
Un gemito.
Quasi impercettibile.
Ma c’era.
Le leccai tutto il piede, lentamente, con attenzione, come se ogni centimetro della sua pelle fosse una riga da leggere ad alta voce.
Sentivo il suo respiro farsi più irregolare, le dita stringersi sul cuscino, il petto salire e scendere.
Poi, senza dire nulla, iniziai a salire.
Baci lenti lungo la caviglia.
Poi il polpaccio.
Poi il ginocchio.
Le sue gambe si aprivano senza che glielo chiedessi.
Mi stavano invitando.
Arrivai alla coscia, la pelle liscia e calda, che tremava appena sotto la mia bocca.
Mi fermai all’interno.
Sfiorai con le labbra, con il fiato, con la lingua.
Lei si irrigidì.
Poi si abbandonò.
Alzai lo sguardo.
I suoi occhi erano socchiusi, la testa appoggiata al cuscino, le labbra leggermente dischiuse in un sospiro trattenuto.
Con una mano le sollevai appena l’elastico delle mutandine.
Uno sguardo.
Nessuna resistenza.
Mi infilai lentamente tra le sue cosce, il viso incastrato nel suo calore, nel suo odore, nel suo desiderio.
E sussurrai:
“Devo finire quello che ho iniziato.”
Lei sorrise.
Poi si arrese del tutto.
Le allargai le cosce con le mani, lentamente, lasciandole il tempo di tremare.
Era calda. Umida. Gonfia.
E completamente aperta a me.
Iniziai con la lingua, leccandola piano, con movimenti circolari, lenti, profondi.
Raffaella gemette subito, una voce rotta e roca che mi esplose nelle orecchie.
Poi passai alle dita.
Le affondai dentro, piano ma deciso, mentre la lingua insisteva più in alto, dove sapevo che le sarebbe esploso tutto dentro.
Si arcuò, le mani nei miei capelli, il busto sollevato, le gambe strette intorno al mio viso.
“Joe…
mio Dio…
così… così…”
Continuai.
Senza sosta.
Le dita che affondavano e uscivano, veloci, bagnate.
La lingua che non lasciava tregua.
Il mio viso, coperto dal suo piacere.
La sua pelle diventava rossa, bollente, i capelli sparsi sul divano, la voce sempre più alta, urlava senza più controllarsi.
Si lasciava andare.
Si stava arrendendo.
E io non volevo fermarmi.
Sentivo ogni contrazione.
Ogni scossa.
Ogni brivido che la attraversava.
Le mie dita la penetravano con forza, veloci, bagnate e profonde, mentre la lingua le martellava il punto più sensibile.
Il suo corpo iniziò a vibrare, la pancia contratta, le cosce strette attorno al mio volto.
“Sto venendo…
Joe…
non ti fermare, non ti fermare…”
Un urlo, uno solo.
Secco, profondo, disperato.
Il suo corpo si irrigidì.
Poi esplose.
La sentii venirmi in bocca.
Forte. Calda. Palpitante.
Rimasi lì, le labbra strette sul suo piacere, mentre lei si scuoteva sotto di me, spezzata e bellissima.
Quando finalmente si rilassò, crollò sul divano, ancora con le gambe divaricate, il respiro spezzato e il viso arrossato.
Mi guardò, con gli occhi socchiusi, e un sorriso stanco ma pieno.
“Tu…
mi rovinerai.”
Le sue cosce tremavano ancora sotto le mie mani.
Il respiro corto, la pelle lucida di sudore, il corpo ancora scosso da quell’onda che le avevo provocato.
Risalii lentamente lungo le sue gambe, baciandola ovunque, strusciando il mio corpo sul suo.
Le sentivo le dita affondare nelle mie braccia, come se volesse tenermi lì, dentro quella sensazione.
Mi portai su di lei.
Il mio viso a pochi centimetri dal suo.
Le nostre bocche si cercarono in un bacio rovente, senza più grazia o controllo.
Solo istinto, fame.
Le nostre lingue si intrecciarono in un limone animalesco, veloce, bagnato, famelico.
La baciavo mentre le afferravo il seno con entrambe le mani, stringendolo, accarezzandolo, giocando con i capezzoli induriti attraverso la stoffa sottile della canotta.
Lei gemeva ancora, mi graffiava la schiena, si spingeva contro di me.
Mi si arrotolava addosso.
Ogni bacio era più profondo.
Ogni tocco, più disperato.
Eravamo completamente avvinghiati, sudati, caldi, vogliosi.
“Sei pazzo…” sussurrò contro la mia bocca, senza nemmeno riuscire a staccarsi.
“No, sei tu che mi fai impazzire…”
le dissi, mentre le mordevo il labbro inferiore e sentivo il mio corpo spingere contro il suo, pronto a esplodere.
Le nostre pelvi si muovevano come se stessimo già facendo l’amore, nudi solo nella mente, ma con il corpo già fuso.
E lì, su quel divano sfatto, il nostro desiderio era diventato qualcosa di troppo grande per le parole.
Raffaella mi guardò negli occhi, con quel sorriso sfrontato che ormai conoscevo bene, ma stavolta… c’era qualcosa di diverso.
Si fece spazio sotto di me, mi spinse leggermente all’indietro, con le gambe ancora aperte, e si tirò su.
Poi, con le dita sottili, salì al bordo dei miei pantaloni.
Mi slacciò il bottone.
Tirò giù la zip con una lentezza calcolata.
Abbassò anche le mutande.
Rimase lì, in ginocchio sul divano, a osservarmi.
Il suo sguardo cambiò.
Da sfacciato a sorpreso.
“Cavolo, Joe…”
mormorò, genuinamente stupita, con un’espressione quasi affascinata.
Allungò una mano.
Mi toccò.
Le sue dita lo circondarono con delicatezza, quasi a esplorare.
Ci giocò piano, come se stesse scoprendo qualcosa che le piaceva più di quanto volesse ammettere.
Un tocco, poi un altro.
Un piccolo sorriso sulle labbra.
Poi mi tirò di nuovo verso di lei, mi afferrò per la nuca, e mi guidò sopra il suo corpo caldo.
Ci baciammo ancora, più a fondo.
E cominciai a strusciarmi contro di lei.
Forte.
Deciso.
Bagnato.
Le sue mutandine sottili erano umide, incollate alla pelle, e io spingevo il bacino contro il suo, mentre lei si aggrappava a me e si mordeva le labbra.
“Così… continua… voglio sentirti…”
Il mio respiro si fece più pesante.
Il suo corpo sotto di me si muoveva al ritmo del mio.
Non eravamo ancora uniti, ma sembrava già troppo.
Troppo caldo, troppo intenso, troppo bello.
Eppure non bastava.
⸻
“Dai Joe… scopami, ti prego…”
Quelle parole mi esplosero addosso come una fiamma viva.
Avevo le mani strette sui suoi fianchi, le mutandine tirate di lato, le dita che sfioravano quella sua intimità calda e scivolosa.
Il suo corpo si muoveva sotto di me, spalancato, impaziente, teso.
La guardai mentre si sfilava la canotta con un gesto fluido, e all’improvviso il suo seno si mostrò nudo, sodo, perfetto, con i capezzoli tesi e scuri, come se anche loro mi stessero implorando.
Il respiro ci tagliava il petto.
Io lo tenevo in mano, pronto a spingere dentro, a sentire tutto.
A toccarle l’anima.
Le sfiorai l’ingresso, la testa appoggiata lì, a un passo.
Lei spalancò le gambe ancora di più, mi baciò con tutta la bocca, le mani sulla mia schiena, già pronta a sentirsi piena.
Poi si bloccò.
“Joe… aspetta.
Hai il preservativo?”
Mi irrigidii.
Silenzio.
Il mondo si fermò.
Merda.
Mi guardò.
Io la guardai.
“No… non ce l’ho.”
Lei si coprì il viso un attimo, poi scoppiò a ridere piano, incredula.
“Ma dai… proprio ora?!”
Mi lasciai cadere di lato, ancora duro, ancora tremante, ancora pieno di lei.
Ero esausto, frustrato, divertito.
Lei si accoccolò contro il mio petto, ancora nuda.
Calda.
E intoccabile.
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