Tre troie e un coglione

Capitolo 3 - il mio nome sussurrato mentre si masturba

Asiadu01
8 days ago

Rientrai a casa con le guance ancora rosse e il cuore fuori ritmo.

Avevo lasciato Raffaella all’ultimo piano, con un bacio ancora bagnato sulle labbra e il vestito arricciato addosso.

Avevo il sapore della sua pelle ancora sulla lingua.

Chiusi la porta.

Appoggiai la fronte al legno.

Respirai a fondo.

Cavolo.

Non riuscivo a smettere di sorridere.

E allo stesso tempo, sentivo come se mi stesse succedendo qualcosa di troppo grande.

La conoscevo da meno di una settimana.

Eppure, ogni volta che ero con lei… era come se la passione mi inghiottisse, come se la mia testa non contasse più nulla.

Solo pelle.

Solo occhi.

Solo respiro che si attorciglia all’altro.

Mi tolsi la maglietta.

Ero sudato. Caldo.

Mi guardai allo specchio del bagno: il collo segnato, il viso sconvolto, il corpo ancora teso, come se Raffaella fosse ancora lì, a cavalcioni su di me.

La mente tornava a quei minuti in ascensore:

la sua voce all’orecchio, il vestito che si alzava piano, l’umidità della sua pelle sotto la mia bocca, le mani tra i miei capelli.

E se l’ascensore non avesse dato quel segnale?

Cosa sarebbe successo?

Cosa succederà la prossima volta?

Perché una prossima volta… ci sarebbe stata.

Lo sapevamo entrambi.

E io non riuscivo a pensare ad altro.

Mi buttai sul letto, ancora con la testa in subbuglio.

Le labbra mi bruciavano.

Il corpo ancora più.

Aprii OnlyFans quasi per riflesso.

ReikaLust aveva appena caricato un nuovo video.

Mi sdraiai, misi le cuffie, e premetti play.

Lo schermo si aprì su una camera da letto pulita, con le tende bianche che ondeggiavano leggere.

Il letto disfatto, copriletto azzurro pallido.

Lei in piedi, al centro dell’inquadratura.

Nuda. Di spalle.

Il volto, come sempre, censurato da un filtro grafico morbido. Una maschera digitale, uno sfocato sensuale.

Il corpo però… quello era nitidissimo.

Le spalle lisce, la schiena flessuosa, la vita sottile che si allargava in fianchi morbidi.

I glutei alti, pieni, perfetti, tesi nel movimento mentre lei si sistemava i capelli, poi si chinava per raccogliere qualcosa da terra.

Ogni gesto era studiato eppure spontaneo, come se sapesse esattamente dove guardavo.

Poi iniziò a vestirsi.

Prima infilò una lingerie nera semplicissima, trasparente il giusto, che lasciava intravedere i capezzoli appena, solo se guardavi con attenzione.

Poi un paio di jeans slavati a vita alta, che le abbracciavano i fianchi con prepotenza.

Sopra, una maglietta bianca molto corta, con una stampa retrò rossa sul petto: “KISS ME LATER.”

Niente reggiseno.

Si girò verso la telecamera.

La maschera digitale nascondeva ancora il volto, ma le labbra si intravedevano, lucide, tirate in un mezzo sorriso.

Un sorriso che sembrava conoscerti.

“Oggi esco così.

Voi cosa fareste se mi incontraste davvero per strada?”

Il video finiva lì.

Ma io restai a fissare lo schermo per minuti.

Il jeans che tirava sulle sue curve.

La maglietta corta che lasciava scoperto un accenno di pancia.

La scritta rossa, provocante.

La naturalezza con cui si mostrava, senza mostrarsi mai del tutto.

Sembrava parlare proprio a me.

Come se sapesse che la sera prima avevo immaginato la sua bocca.

Come se avesse intuito quanto ero vicino al punto di esplodere.

Sospirai.

Ancora.

E cliccai replay.

Dopo quel video di Reika non riuscivo a pensare ad altro.

Ancora una volta, aveva saputo toccare qualcosa in me, anche senza sfiorarmi davvero.

Mi tolsi i pantaloni.

Mi sdraiai sul letto.

Chiusi gli occhi.

Mi immaginai le sue mani, le sue labbra, il peso del suo corpo sopra il mio.

Le sue cosce calde, la voce roca, la maglietta tirata su di fretta.

Il seno che sobbalzava mentre si muoveva.

Il mio respiro sul suo collo.

Mi tolsi tutto il resto.

E mi presi un piacere lento, profondo, sporco e liberatorio.

Alla fine rimasi immobile, svuotato e soddisfatto, e mi costrinse a farmi una doccia veloce prima di mettermi a lavorare.

Le ore passarono più leggere.

Lavorai fino alle 18, come sempre.

Una routine tranquilla, utile a rimettere a posto i pensieri.

Quella sera non avevo lezione con Alice, e per una volta non avevo nemmeno in programma di incrociare Raffaella.

Mi ero dato appuntamento con un’amica che non vedevo da un sacco.

Ci saremmo visti in un bar nuovo in centro, un posto piccolo e accogliente che pareva più un salotto che un locale.

Lei si chiamava Giada.

quella che è stata la mia migliore amica per tanto di quel tempo.

Arrivai al bar in centro puntuale, le sei e mezza spaccate.

Un posticino nuovo, arredato con gusto: legno chiaro, luci calde, piante ovunque e tavolini bassi.

Aveva un’aria intima, ma non forzata.

Quando l’ho vista arrivare,  mentre ero seduto già al tavolo, mi è sembrato di vedere un frammento della mia adolescenza tornare vivo, ma con un volto nuovo.

Giada.

Per anni eravamo stati inseparabili.

Risate, sfoghi, segreti, pomeriggi stesi sull’erba a parlare del nulla.

E poi, puff.

L’università, i traslochi, la distanza.

Persa di vista, come succede con le cose belle quando cresci in fretta.

Non sapevo nemmeno fosse tornata in città.

L’ho scoperto per caso, su una storia taggata.

E le ho scritto: “Caffè?”

Ora eccoci lì, a ridere come idioti, a raccontarci vite che sembrano di qualcun altro.

“E te la ricordi quella volta alla festa di Edo, con i bicchieri di plastica e il rum scadente?”

“Io mi ricordo che abbiamo vomitato dietro la siepe e poi fatto finta di nulla.”

“Siamo sempre stati dei disastri.”

“Disastri perfetti.”

Giada era cambiata, eppure… no.

Aveva solo messo a fuoco se stessa.

Aveva un viso magnetico, con quegli occhi chiari che sembravano accendersi alla luce del tramonto, e un’espressione perennemente curiosa, tra il distratto e il profondo.

Le labbra morbide, leggermente dischiuse quando ascoltava, e quelle guance arrossate dal sole, che le davano un’aria naturale, viva.

Indossava un top color sabbia che lasciava scoperto quel tratto perfetto tra clavicola e spalla, e disegnava con delicatezza il suo busto.

Il seno era piccolo ma alto, sodo, come se si reggesse da solo, senza bisogno di nulla.

Un tipo di sensualità quasi involontaria, di chi non ha bisogno di esibire per attrarre.

La pelle era chiara, leggermente ambrata, con un tono uniforme che sembrava accarezzato dal sole e dal tempo libero.

I capelli biondi, mossi e luminosi, cadevano sulle spalle con quella morbidezza tipica dei giorni senza trucco.

Sotto il tavolo, le gambe incrociate in modo rilassato, ma sapevo bene quanto fosse perfetto il suo corpo: snella, definita, con un ventre piatto e quel minimo accenno di addominali che faceva impazzire.

Il fondoschiena, lo ricordavo, era alto, tondo, tonico.

Un equilibrio impossibile tra innocenza e tentazione.

Ma il punto non era solo il corpo.

Era il modo in cui lo portava.

La naturalezza con cui stava seduta, con cui si aggiustava i capelli mentre parlava, il sorriso appena storto mentre prendeva in giro i miei sogni da adolescente.

“E ora sei uno che lavora da casa, fa il freelance e suona la chitarra la sera. Sembri uno uscito da una serie Netflix.”

“E tu che scrivi tesi sulla poesia tedesca e intanto fai foto con quell’aria da ragazza della porta accanto. Chi è più finto?”

Scoppiammo a ridere.

E per un attimo, fu bello non dover sedurre. Non dover dimostrare. Solo stare.

Anche se, lo ammetto, guardarla così da vicino qualcosa dentro me lo accendeva comunque.

Ma Giada era Giada.

Una parte di me.

Un ricordo che si era fatto donna.

Il tempo passava, e il vino iniziava a scorrere come se fosse acqua.

Giada, tra un sorso e l’altro, aveva preso il comando della conversazione.

Gesticolava, raccontava, rideva a crepapelle, era tornata esattamente quella che ricordavo, ma con più grinta.

“No vabbè, tu comunque non puoi sfuggirmi così…

e la vita sentimentale? Ti vedo strano.”

Alzai le mani, fingendo difesa.

“Vita sentimentale è una parola grossa. Diciamo… ricca di sorprese. E di confusione.”

Lei fece una smorfia ironica, appoggiandosi allo schienale.

“Classico Joe. Sempre con la testa tra le note e il c… nelle nuvole.”

Ridetti.

Poi sorseggiò il vino e abbassò lo sguardo per un secondo, come se stesse cercando il modo di dire qualcosa.

“A proposito… te lo ricordi Mario?”

La domanda mi colse un po’ alla sprovvista.

“Mario Mario?”

“Sì. Quel Mario.”

“Certo che me lo ricordo. Non mi è mai stato simpatico, in effetti.”

Lei scoppiò a ridere.

Un riso spontaneo, pieno.

Poi si sporse verso di me, con gli occhi lucidi d’ilarità.

“Ecco, allora adesso ti piacerà ancora meno…

ci sto insieme.”

Ci fu un istante di silenzio.

Poi ridemmo entrambi, forse per imbarazzo, forse per quella strana ironia della vita.

“Dai, giuro! È cambiato un sacco.”

“Spero per lui.”

“Mi tratta bene. E in questo periodo è tutto quello che voglio.”

Annuii, sorridendo.

Non potevo biasimarla.

C’era qualcosa di maturo nel modo in cui l’aveva detto.

Come se avesse scelto una forma di serenità che, in quel momento, a me sembrava lontanissima.

“E tu invece? Dai, una ragazza che ti faccia impazzire un minimo, ce l’avrai…”

“Più d’una, forse.

Ma niente che abbia un nome definito.”

Le nostre risate si sciolsero in un silenzio tranquillo, quello che arriva solo tra persone che si conoscono da una vita.

Giada si sistemò una ciocca dietro l’orecchio, il viso leggermente arrossato dal vino.

E per un attimo la guardai in silenzio.

Bella, presente, in pace.

“Promettimi che torni in palestra con me.”

“Oddio, proprio palestra?”

“Sì. Martedì. Otto in punto.

Non accetto scuse.”

“Va bene…

ma solo se poi mi offri la colazione.”

“Fatto.”

E brindammo.

Alla maturità.

Ai vecchi amici.

E a tutte le cose che, per fortuna, non sono mai andate nel verso giusto.

Ci salutammo con un lungo abbraccio, quasi più fisico che emotivo, come succede quando l’alcol ha fatto il suo lavoro e il cuore è leggero.

Con Giada era come se qualcosa fosse rimasto intatto, immobile nel tempo, e si fosse solo messo in pausa.

Ora bastava premere play, e tutto riprendeva da dove si era fermato.

“Martedì, eh. Non ti scordare.”

“Otto spaccate.”

“Non provare a fare il morto.”

“Ma figurati. Morirò dopo lo stretching.”

Ridemmo ancora, poi ci separammo.

Stavo tornando verso casa a piedi, camminando piano, con quel tipico stato di euforia stanca, da vino buono e chiacchiere sincere.

Quando passai davanti alla villa comunale, quell’edificio antico sempre usato per mercatini e mostre, notai un cartello:

“Fiera del vintage e dell’usato – Libri, vinili, artigianato.”

Mi fermai.

Non avevo fretta, ero alticcio, curioso, e una parte di me cercava un pretesto per non tornare subito nel silenzio del mio appartamento.

Entrai.

Dentro c’era musica soffusa, odore di carta vecchia e legno verniciato.

Banconi pieni di oggetti dimenticati, vestiti anni ’80, radio a manovella, quadri storti e occhiali da sole giganti.

Un piccolo caos di memorie, sospeso nel tempo.

Mi avvicinai a un banchetto di libri.

Romanzi consumati, edizioni scolorite, saggi fuori catalogo.

Perfetto per perdersi.

Presi in mano un vecchio Bukowski, poi un fumetto erotico in bianco e nero.

Stavo sfogliando senza meta, quando la percepii.

Una ragazza mi passò accanto.

Non mi sfiorò.

Non mi guardò.

Ma qualcosa… mi colpì.

Era vestita in modo stranamente familiare.

Jeans slavati a vita alta.

Maglietta bianca corta, con una scritta rossa in stile retrò.

Mi bastò un secondo.

“KISS ME LATER.”

Il cuore mi fece un balzo.

Capelli castano chiaro, che le arrivavano poco più giù le spalle, leggermente mossi.

Frangetta netta, precisa.

Giacca aperta, lasciata cadere con leggerezza sulle spalle.

Era l’identico outfit che Reika indossava nel video che avevo guardato poche ore prima.

Solo che… ora era davanti a me.

Reale. Tangibile.

In carne, pelle e magnetismo.

Il suo viso era scolpito per sedurre senza sforzo: lineamenti delicati e decisi insieme, perfettamente equilibrati.

Occhi chiari e profondi, intensi, esaltati da un eyeliner affilato come un taglio.

Lo sguardo sembrava attraversare lo spazio.

Vedeva tutto.

Diceva tutto.

Senza proferire una parola.

La frangetta, tagliata con precisione chirurgica, incorniciava la fronte come un tratto d’inchiostro, mentre i lunghi capelli le accarezzavano le spalle con morbidezza, ondeggiando mentre camminava, come se fossero vivi.

Le labbra, rosse e lucide, sembravano appena uscite da un sussurro peccaminoso.

Perfettamente disegnate, carnose, sensuali.

E quel mezzo sorriso…

Ironico. Complice.

Come se sapesse esattamente quello che ti passa in testa, prima ancora che lo pensi.

La pelle era diafana, ma non fredda.

Aveva quella luminosità vellutata da porcellana baciata dal sole, quel tipo di pelle che ti vien voglia di scoprire piano, centimetro dopo centimetro.

Da toccare con rispetto.

Da desiderare con lentezza.

Il corpo…

Dio.

Le curve erano lì, come scolpite sotto l’abbigliamento casual.

Seno pieno e sodo, la maglietta corta lo accarezzava senza contenere troppo.

La vita stretta, i fianchi larghi, decisi, e quel fondoschiena…

Perfetto.

Alto.

Tondo.

Così reale da sembrare un’offesa al pudore.

Anche sotto un paio di jeans, urlava desiderio.

Le gambe lunghe e tornite si muovevano lente, precise.

Ogni passo sembrava studiato dalla natura per farti impazzire.

Eppure non c’era nulla di volgare.

Solo una sensualità assoluta, totalizzante.

Una presenza che non si guardava.

Si subiva.

Si sentiva sotto pelle.

Restava addosso.

Mi passò accanto.

Lo sguardo diritto.

Il profumo leggero di qualcosa di fruttato e caldo.

E via.

Svanita tra le bancarelle.

Mi lasciai cadere su uno sgabello, il cuore martellante, la gola asciutta.

Era lei.

Era davvero lei?

Reika?

E se sì…

che diavolo ci faceva alla fiera del vintage nella mia città?

Mentre tornavo a casa, il cuore ancora agitato, sorridevo come un idiota.

“Ma dai…

Quella cosplayer.

Reika.

La stessa Reika su cui mi masturbo una volta al giorno…

vive nella città della mia infanzia?”

Camminavo con le mani in tasca, lo sguardo nel vuoto e l’immaginazione a mille.

Ogni dettaglio di lei mi tornava addosso come una carezza maliziosa:

quel modo di camminare, quella maglietta con la scritta “KISS ME LATER”, la curva dei fianchi sotto il denim chiaro…

Sembrava uno scherzo, un regalo perverso dell’universo.

Appena misi piede in casa, mia madre mi chiamò dalla cucina:

“Ah, Joe! C’è una lettera per te, nella cassetta della posta.

Era firmata a mano, l’ho trovata io.

Te l’ho lasciata sulla scrivania.”

Una lettera?

Chi diavolo scrive ancora lettere?

Entrai in camera.

Lì, tra il laptop e le corde della chitarra, c’era una busta crema, senza francobollo né timbro.

Solo il mio nome, scritto con una calligrafia morbida e precisa.

La aprii.

Dentro, una pagina piegata in due.

Carta ruvida.

Inchiostro nero.

Odorava vagamente di profumo.

Quello che avevo sentito su Raffaella.

Cominciai a leggere.

“Ascensore.

Porta che si chiude.

Pochi secondi d’aria prima che l’elettricità del corpo faccia il resto.

Lui preme lo stop.

Il pulsante rosso si illumina, come il calore che si accende tra le cosce di lei.

Si guardano. Ma è fame, non sguardo.

Le mani lo tirano verso il muro.

Le gambe si avvolgono attorno al suo bacino.

Le bocche si trovano con furia, le lingue si intrecciano.

Lei non ha bisogno di dirlo:

è bagnata.

Lui lo sente mentre le dita scorrono sotto il vestito, mentre la bocca scende e trova la pelle, il velluto, l’umidità calda che lo accoglie.

E lì…

In quell’ascensore bloccato, con le pareti tremanti e la città fuori dal tempo,

lui si inginocchia.

E la prega con la lingua.”**

Mi lasciai cadere sulla sedia, la lettera ancora aperta tra le mani.

La mia erezione era evidente.

Palpabile.

Impossibile da ignorare.

Era firmata.

“R.

P.S. Ti è piaciuto il mio nuovo racconto? Era ispirato a qualcosa di vero.

O di molto vicino.”

Guardai verso il soffitto.

Poi verso la finestra.

Poi verso la porta chiusa.

Raffaella stava giocando a un livello completamente diverso.

E io ero dentro fino al collo.

Non potevo resistere.

Avevo ancora addosso l’odore della carta della lettera di Raffaella.

Le parole mi martellavano nella testa, le immagini troppo vive per lasciarmi in pace.

Il cuore mi batteva nel petto come se stessi per fare qualcosa di sbagliato.

Ma ero già dentro.

Avevo bisogno di venire.

E avevo bisogno di farlo con Reika.

Accesi il portatile.

Le mani tremavano appena mentre aprivo il suo profilo.

Il mio spazio segreto.

Il mio rifugio perverso.

Quel giorno nessun nuovo video disponibile.

Delusione.

Ma non bastava per fermarmi.

Scorrii fino alla sezione delle richieste personalizzate, per una videochat.

“Disponibile a tempo limitato.”

“Risposta entro 48 ore.”

Prezzo: alto.

Decisamente alto.

Ma chi se ne frega.

Digitai.

“Vorrei vederti in ginocchio sul letto.

Con le gambe larghe.

Mentre ti masturbi lentamente, mentre sputi sul seno e dici il mio nome.

Joe.

Solo questo. Ma detto come se sapessi chi sono davvero.”

Premetti invio.

Pagai.

Chiusi tutto.

Mi appoggiai allo schienale, nudo dalla vita in giù.

Teso.

Eccitato.

In attesa.

Passò un’ora.

Sessanta minuti di cuore accelerato e nervosismo alle stelle.

Ero steso sul letto, con il portatile acceso e le luci abbassate, a fissare la chat aperta.

Poi, d’improvviso, apparve un messaggio.

[Reika] “Per te ho fatto un’eccezione.

Accetta la chiamata tra 5 minuti.

La tua richiesta mi ha… stuzzicata.”

Mi sedetti di scatto.

Le dita tremavano.

Avevo pagato una fortuna.

E non me ne fregava niente.

Cinque minuti dopo, la videochiamata si aprì.

Il cuore mi esplose nel petto.

La luce era calda, dorata.

La stanza sembrava quella dei suoi video: un letto enorme, sfondo sfocato, tende rosso scuro e lenzuola nere.

Ma stavolta era dal vivo.

E per me.

Lei comparve davanti alla telecamera.

Indossava solo una maschera.

Una mascherina nera in pizzo, che le copriva gli occhi, lasciando le labbra in ombra.

I capelli sciolti, mossi, scendevano sulle spalle nude.

Il corpo… era una visione.

Le mani iniziarono a salire piano.

Sulle cosce, sull’addome teso, fino a raggiungere il seno.

Lo afferrò con entrambe le mani, lo strinse piano, lo accarezzò, poi guardò verso la lente e, con un gesto lento, scoprì la bocca.

Sputò sul seno, lentamente.

Un filo lucido che scivolò tra le dita e la pelle tesa.

Poi iniziò a massaggiarsi con movimenti circolari, sensuali, ipnotici.

Io ero paralizzato.

Con la webcam rigorosamente spenta.

Il respiro corto.

La mano tra le gambe.

Gli occhi incollati allo schermo.

Lei si sdraiò lentamente, sempre guardando in camera.

Le dita scivolarono giù.

Aprì le gambe.

Si toccò.

Con dolcezza.

Con una lentezza studiata.

Intima.

Assoluta.

Poi, tra un respiro spezzato e un gemito trattenuto, disse piano:

“Joe…”

Il mio nome, come se lo avesse sempre saputo.

Come se stessimo facendo l’amore da anni.

Come se fosse reale.

Tutto.

Venni senza riuscire a resistere.

In silenzio, trattenendo il respiro, mentre lei continuava a muoversi, a gemere, a toccarsi solo per me.

Stava per cliccare per chiudere la chiamata.

Lo vedevo nei suoi movimenti, nel modo in cui le dita si allungavano verso il mouse.

Il corpo ancora leggermente scosso da un respiro profondo, il seno umido che brillava alla luce calda della stanza.

Ma prima che potesse farlo, mi sentii obbligato a parlare.

“Aspetta… scusa se è una domanda troppo personale.”

La voce mi uscì roca, spezzata, un po’ ansiosa.

Non avevo mai parlato con lei, non davvero.

Era come infrangere una parete sacra.

Ma non potevo ignorarlo.

“Ma… tu vivi qui? Intendo… in questo paese?

Ti ho vista oggi. Alla fiera.

Indossavi gli stessi vestiti del video.

Sei tu, vero?”

Lei si bloccò.

Guardò in camera per due lunghi secondi.

Poi, senza distogliere lo sguardo, prese la maschera e lentamente la sollevò.

I suoi occhi chiari comparvero, vivi, diretti.

Erano identici a quelli che avevo incrociato qualche ora prima tra i banchi del mercatino.

E sulle sue labbra si disegnò un sorriso lento, provocante.

“Shh…”

disse piano, con un tono vellutato e malizioso.

“Tieni il mio segreto, Joe.

Per favore.”

Poi fece l’occhiolino, chiuse la maschera sul volto e, con un click, la chiamata si interruppe.

Restai lì.

A fissare lo schermo vuoto.

Col cuore che tamburellava nel petto e la pelle ancora calda.

Mi ero appena masturbato con la mia cosplayer preferita.

In videochiamata.

E lei… viveva a pochi isolati da casa mia.

E ora sapeva il mio nome.

E io conoscevo il suo volto.