Tre troie e un coglione

Capitolo 1 - Introduzione

Asiadu01
a day ago

Dopo cinque anni tra esami, caffè amari e notti insonni passate davanti a uno schermo, finalmente avevo finito l’università. Informatica. Non il massimo del glamour, ma mi ero tolto le mie soddisfazioni. Avevo anche trovato un buon lavoro come sviluppatore da remoto per una software house di Milano, niente male per cominciare. Però… non me la sentivo di ributtarmi subito in un affitto, coinquilini, bollette e supermercati a orari impossibili.

Così, ho fatto una scelta poco cool ma molto pratica: tornare da mia madre.

Il vecchio paesino dove ero cresciuto. Lo stesso bar sotto casa, le stesse vie, i soliti vecchi che ti salutano anche se non ti conoscono più.

Avevo bisogno di respirare. Di fermarmi. Di capire dove volevo andare.

E intanto lavoravo da camera mia: scrivania, schermo ultrawide, silenzio interrotto solo dalle urla di mia madre quando bruciava qualcosa in cucina. La routine era tranquilla. Fino a quando, una sera a cena, tra un boccone e l’altro, mia madre se ne uscì con:

“Oh, Joe… senti, ti andrebbe di guadagnare qualcosina in più? La figlia di Veronica – te la ricordi? – sta cercando qualcuno che le insegni a suonare la chitarra. Magari la sera, dopo cena. Le piace cantare. È tutta una artista, dice sua madre…”

All’inizio non risposi. Poi sollevai lo sguardo dal piatto.

“Quanti anni ha?”

“Diciannove. Ma pare molto matura. E… molto carina. Almeno così dice Veronica.”

Disse carina come se stesse cercando di vendermi una bicicletta usata.

Io non ci pensai troppo. Una decina di euro all’ora, due volte a settimana… e magari mi sarei anche divertito.

Non immaginavo minimamente in che razza di guaio stessi per infilarmi.

e quindi arrivarono le prime lezioni.

Veronica mi aprì la porta con un grande sorriso. Non la vedevo da anni, ma mi riconobbe subito.

“Joe! Ma guarda come sei cresciuto… sei diventato un uomo!”

Lo disse con quel tono classico delle madri che vogliono farti arrossire, e io risposi con un mezzo sorriso educato.

Mi fece entrare, mi offrì dell’acqua e poi si sedette un momento sul divano, tutta orgogliosa.

“Ti spiego velocemente: Alice si è appassionata alla musica da un paio d’anni. Ha scritto qualche canzone, ha fatto due-tre cose online, sai… cover, vocalizzi, quelle robe lì. Ma le manca una base. Vorrebbe imparare a suonare la chitarra per accompagnarsi, e magari farsi strada da sola.”

Poi aggiunse, con una strizzata d’occhio complice:

“È molto brava. Ma è anche un po’… particolare. Vedrai.”

Indicò verso il corridoio.

“È in camera sua, ti aspetta. Seconda porta a destra.”

Annuii e mi avviai, con la custodia della chitarra in spalla, senza sapere bene cosa aspettarmi. Mi aspettavo una ragazzina magari un po’ insicura, vestita da TikTok, tutta selfie e smorfie… e invece…

Quando aprii la porta, la vidi.

E per un attimo rimasi fermo.

Alice era sdraiata sul letto, piedi nudi incrociati, lo sguardo sul telefono. Quando sentì la porta, alzò gli occhi.

E fu come se mi colpisse qualcosa allo stomaco.

Era bellissima.

Ma non nel modo costruito o esagerato.

Una bellezza senza sforzo, naturale, come se fosse nata per farsi guardare.

La sua figura era minuta, delicata, con una carnagione chiara e liscia che sembrava quasi risplendere alla luce del sole che filtrava dalla finestra. I capelli lunghi e ricci, di un castano caldo, le scivolavano sulle spalle e lungo il petto, incorniciandole il viso. E che viso.

Zigomi sottili, naso piccolo e perfetto, labbra carnose a forma di cuore… e quegli occhi. Grandi, verdi e profondi, di quelli che se ti guardano troppo a lungo ti ci perdi dentro.

Quel giorno indossava una maglietta gialla scollata, stretta quanto bastava per seguire ogni curva. Il tessuto abbracciava il seno pieno e sodo con una delicatezza quasi provocatoria. I pantaloncini morbidi e leggeri lasciavano scoperti gran parte delle gambe – lunghe, tornite, perfettamente proporzionate – e si fermavano appena sotto i glutei, che sporgevano al punto giusto, sodi, alti, perfetti.

Ogni piccolo movimento sembrava amplificare tutto. Ogni piega del tessuto, ogni incrocio di gambe, ogni gesto distratto con le dita…

L’avevo subito squadrata.

Lo ammetto.

Dalla testa ai piedi, lentamente. Come un’analisi istintiva, viscerale. Cercavo di restare professionale, ma il mio sguardo aveva già fatto il giro. E lei… se ne era accorta.

Sollevò un sopracciglio, con un mezzo sorriso appena accennato.

“Tu sei il tipo della chitarra?”

Non sorrideva davvero. Mi stava valutando. Come se fosse lei a dover decidere se ero abbastanza interessante per dedicarle il suo tempo.

“Joe,” dissi, cercando di suonare tranquillo. “Insegno giusto un po’… per arrotondare.”

Lei fece un gesto vago con la mano, poi si tirò su a sedere, incrociando le gambe in modo casuale, ma consapevole.

“Io sono Alice. E voglio imparare in fretta. Mi stanco se una cosa non mi viene subito.”

Sorrise. Di quei sorrisi in cui non sai se c’è simpatia o solo un’avvertenza.

Appoggiai la chitarra al bordo del letto e cercai di riprendere il controllo della situazione.

“Ok, partiamo dalle basi allora. Sai già qualcosa?”

Lei si sporse in avanti, facendo ballare la maglietta gialla sulle sue curve. Mi guardò negli occhi, seria.

“No. Ma so ascoltare bene. Se mi fai sentire… posso imparare in fretta.”

Le sistemai la tracolla, lei si lasciò fare senza dire una parola, attenta. La chitarra le stava un po’ grande, ma la reggeva con grazia. Si sistemò seduta sul bordo del letto, gambe accavallate, e mi guardò aspettando istruzioni.

“Partiamo da qui,” dissi sedendomi accanto, con la mia chitarra. “Accordi base, posizione delle dita, il ritmo.”

Mi ascoltava con occhi grandi e luminosi, seguiva ogni gesto, ogni parola. Dolce, curiosa, ma non ingenua.

Aveva una musicalità naturale: prendeva in mano la chitarra per la prima volta, eppure le dita trovavano da subito la direzione giusta. In pochi minuti faceva già i primi accordi senza guardarsi le mani.

“Hai orecchio,” le dissi.

“Me lo dicono tutti,” rispose, sorridendo appena.

Mentre cercava un Do maggiore, si sporse in avanti per guardare meglio la posizione delle mie dita, e lì…

La maglietta gialla scivolò appena, abbastanza da lasciare intravedere il reggiseno sotto: pizzo nero, sottile, lavorato, che incorniciava un seno pieno e alto, stretto dalla stoffa ma libero nei movimenti.

Abbassai subito lo sguardo, feci finta di nulla.

O almeno provai.

“Così?”

La sua voce mi riportò alla realtà.

“Sì… sì, perfetto. Anche troppo.”

Cercai di riderci su, per smorzare la tensione.

Lei rise. Una risata vera, dolce, non maliziosa. Sembrava divertirsi. E in fondo, anch’io.

Andammo avanti ancora un po’, ridendo dei suoi errori, cercando il ritmo giusto. A un certo punto la sua gamba nuda sfiorò la mia, ma fu solo un attimo. Io feci finta di non accorgermene. Lei no.

Dopo una quarantina di minuti, chiuse con un piccolo accordo riuscito bene.

“L’hai sentito? Non era male.”

“Era perfetto.”

“Allora sei bravo come dicono.”

“Chi lo dice?”

“Io.”

Ci fu una pausa. Quei secondi sospesi, in cui entrambi sapevamo che il tono si era fatto diverso. Più lento. Più basso.

Mi schiarii la voce, mi alzai.

“Direi che per oggi può bastare. Hai fatto molto più di quanto mi aspettassi.”

Lei annuì e si stiracchiò come una gattina.

“Allora domani ancora, prof?”

“Se vuoi, ci sto.”

Mi voltai per prendere la custodia e fu lì che successe.

Nel chinarmi per prendere la tracolla, la custodia mi sfuggì e cadde sul tappeto. Quando mi piegai per riprenderla, la mia mano andò a sfiorare la sua caviglia nuda. Leggera, liscia. Non avevo nemmeno visto che si era avvicinata.

Lei non si ritrasse. Anzi. Fece un mezzo passo avanti, e si creò una tensione palpabile. I suoi occhi erano su di me, in silenzio.

Io alzai lo sguardo, incrociando il suo.

Eravamo vicinissimi.

“Ti è caduta la chitarra… prof.”

Il tono era basso, ironico, ma gentile.

“Non è la chitarra… è la custodia.”

“Ah già. Peccato.”

Sorrise, poi si voltò e si lasciò cadere di nuovo sul letto.

“Ci vediamo domani.”

Uscii dalla stanza col cuore che mi batteva nel petto e un’immagine ben impressa nella mente: il pizzo nero, la sua pelle chiara, e quel sorriso.

Stavo ancora pensando ad Alice mentre rientravo. A come mi aveva guardato. A quel pezzo di pizzo nero che mi aveva strappato il pensiero da ogni altra cosa. La mia mente era tutta un accordo sospeso.

Poi la vidi.

Era in piedi davanti alla porta d’ingresso del palazzo, scalpitante. Frugava nella borsa come se stesse cercando un oggetto in mezzo a un oceano, parlando da sola a bassa voce. Quando mi avvicinai, alzò lo sguardo, in evidente panico.

“Oddio, meno male… scusa, scusa davvero, ma ho lasciato le chiavi da qualche parte, o forse le ho nella borsa, non lo so, sto dando di matto…”

“Tranquilla,” risposi, estraendo le mie e aprendole il portone.

“Grazie!”

E corse letteralmente verso l’ascensore, zampettando come se dovesse scappare da una scena del crimine.

Mi fece sorridere. Stavo per salire le scale quando la sentii tornare indietro, trafelata, e quasi inciampare sullo zerbino.

“Aspetta! Scusami… non ci conosciamo, vero?”

Scossi la testa con un mezzo sorriso.

“Joe.”

“Raffaella,” disse porgendomi la mano, col fiatone. “Mi sono trasferita da qualche mese. Non ti ho mai visto, davvero, e io mi accorgo sempre di chi entra ed esce. Tu sei nuovo?”

“Sono tornato da poco. Vivo al terzo piano. Dopo la laurea, sto sistemando un po’ le cose.”

“Ahhh, sei uno di quelli intelligenti!” disse ridendo, agitando una mano come per scacciare la mia umiltà. “Io invece faccio la barista in un bar in centro. Turni folli, clienti folli. Ma nel tempo libero cerco di scrivere… libri, storie, qualsiasi cosa. Magari un giorno smetto di servire cappuccini e divento la nuova Sally Rooney.”

La sua parlantina mi strappò una risata vera.

Era frenetica, vivace, solare.

E bellissima. Ma non nel modo sfacciato e urlato di una influencer: una bellezza naturale, autentica, di quelle che si scoprono un dettaglio alla volta.

Il suo viso aveva una forma ovale armoniosa, con zigomi appena accennati che le davano definizione senza renderla spigolosa. La pelle, liscia e ambrata, sembrava brillare alla luce dei lampioni, come se ogni sua curva fosse accarezzata dalla luce di un tramonto lento.

Gli occhi erano grandi, leggermente a mandorla, di un marrone profondo e vellutato. Le ciglia lunghe e incurvate, le sopracciglia piene e naturalmente arcuate: tutto in lei sembrava disegnato, ma con la mano leggera della natura.

Il naso era dritto, con una punta arrotondata perfettamente bilanciata. Le labbra… piene, ben disegnate, morbide a vedersi. Inviting.

I capelli erano neri, lunghi, lucidi. Cadendo sulle spalle in morbide onde, lasciavano scoperto un collo sottile, elegante, ornato solo da una catenina semplice che brillava sopra una lieve scollatura.

Indossava un top aderente color crema che le abbracciava il seno con naturalezza, evidenziando un décolleté pieno ma mai eccessivo. La vita sottile si chiudeva su jeans a vita bassa, che scoprivano appena l’ombelico e accarezzavano fianchi morbidi e femminili, con una naturalezza che mi fece deglutire.

Ma ciò che mi colpiva più di tutto era il suo modo di muoversi: spontaneo, leggero, ma pieno di presenza. Come se ogni gesto, anche il più distratto, avesse dentro una storia.

“Scusa se parlo tanto, lo faccio sempre, soprattutto quando sono in imbarazzo. E ti giuro che non succede spesso, ma a volte, tipo ora, non riesco a fermarmi.”

“No, tranquilla. È… divertente,” risposi, senza distogliere lo sguardo.

Lei mi studiò per un attimo. Non flirtava. Non ancora. Ma qualcosa aleggiava. Forse solo curiosità reciproca.

Forse qualcosa di più.

“Allora ci becchiamo, Joe-del-terzo-piano. Magari ti offro un caffè al bar. O un consiglio editoriale, se vuoi leggere storie brutte scritte in fretta.”

“Volentieri. Basta che non mi chiedi di suonarti la chitarra.”

“Suoni?”

Fece un passo avanti, interessata.

“Allora sì. Voglio proprio vederti. Magari sei tipo un cantautore triste e intenso, di quelli che fanno innamorare le ragazze timide.”

Scoppiai a ridere.

“No, niente triste. Giusto qualche accordo… pericoloso.”

Lei mi strizzò l’occhio.

“Meglio così.”

Si voltò, salì sull’ascensore e mi lasciò lì, solo nell’androne, col cuore che batteva ancora, come se quella sera non volesse finire mai.

Quella sera tornai a casa con la testa piena.

Alice. Raffaella. Il pizzo nero e quel sorriso disordinato nel corridoio.

Mia madre aveva preparato qualcosa di surgelato e poco ispirato. Mangiai distrattamente, guardando le notifiche sul telefono. Poi, con il portatile sulle gambe, restai a letto a guardare qualche video a caso fino a crollare nel sonno.

Il giorno dopo fu uguale a molti altri: sveglia alle 8:30, caffè bruciato, connessione traballante, una riunione troppo lunga e lo stesso codice da rifattorizzare.

Dalle 9 alle 18, come ogni giorno.

Niente di memorabile.

Il giorno dopo, invece, qualcosa cambiò.

Ore 19:00. In punto.

Solito portone, solito corridoio, solita porta aperta con la voce di Veronica in sottofondo. Ma appena entrai, capii subito che c’era qualcosa di diverso.

“Ciao Joe!”

Era la voce di Alice.

Non di sua madre.

Mi avvicinai al soggiorno, poi alla sua stanza. La porta era socchiusa.

“Entra pure!” disse, e la voce vibrava di una strana allegria.

Spinsi piano.

E lì la vidi.

Era in piedi accanto al letto, sistemando qualcosa su un piccolo leggio improvvisato. La finestra era aperta, l’aria tiepida della sera faceva muovere leggermente le tende.

Alice indossava una canottiera grigia chiara, sottile come un velo, senza reggiseno.

E bastò un secondo per rendermene conto.

Il tessuto, leggerissimo, seguiva ogni curva del suo corpo con una fedeltà spietata. I capezzoli si disegnavano sotto il cotone, duri e visibili a ogni respiro. Il seno, pieno e sodo, ballava leggero mentre lei si muoveva, con una naturalezza disarmante.

I pantaloncini erano gli stessi dell’altra volta, ma sembravano ancora più corti.

Ingoiai a vuoto.

“Oggi siamo solo io e te,” disse girandosi verso di me, con un sorriso. “Mamma è uscita. Quindi posso sbagliare tutte le note che voglio, senza nessuno che urla dalla cucina.”

“Perfetto,” dissi, cercando di sembrare disinvolto. “Allora possiamo concentrarci su… l’accordo di Sol.”

“O su quello che vuoi tu,” disse, già sedendosi sul letto, gambe nude incrociate, la canottiera che tirava appena mentre si chinava per prendere la chitarra.

Mi sedetti accanto a lei. La distanza tra noi era quella giusta per non toccarci. Eppure, bastava una distrazione… e le nostre ginocchia si sarebbero sfiorate.

“Allora,” disse con tono teatrale, “oggi ho la sensazione di essere bravissima. Ho già imparato tre accordi e la posizione comoda per mettermi in mostra.”

“Hai anche talento, guarda un po’.”

“Sì ma tu guarda quanto,” disse piegandosi lentamente in avanti con la chitarra, come se cercasse una posizione migliore.

E la canottiera scese ancora.

Un secondo. Il tempo di vedere un seno che si muoveva sotto il tessuto come vivo, pieno, morbido, perfettamente modellato. Il tessuto ne seguiva la forma, si tendeva sul profilo, e sembrava lì per essere notato.

“Sei distratto?”

La voce di Alice mi raggiunse mentre io ancora cercavo di trovare un accordo diverso dal panico.

“No. Solo… attento.”

“Ah, ottimo. Allora guarda bene.”

Si avvicinò per vedere le mie dita sugli accordi, poggiando la sua coscia nuda contro la mia. Calda. Liscia.

Non si mosse.

Continuammo così. Ridendo, scherzando, provando accordi e battute. Lei a un certo punto disse:

“Secondo me hai una voce sexy. Dovresti cantare più spesso.”

“Secondo me stai flirtando.”

“No,” disse dolcemente. “Flirtare è quando ti fai desiderare. Io sto solo dicendo la verità.”

Poi scivolò lentamente dal letto per allungarsi verso la bottiglietta d’acqua. In quel movimento, il seno ondeggiò appena, visibile sotto la canottiera come una promessa.

Le spalle nude, la curva della schiena che si piegava in avanti, la linea del fianco scoperta dai pantaloncini che si erano alzati un po’.

Quando tornò a sedersi, si girò verso di me con un’aria innocente.

Quella sera Alice sembrava inarrestabile.

Ogni accordo era un pretesto per scherzare, ogni nota sbagliata un’occasione per ridere, sfiorarmi, lasciarsi sfuggire qualcosa che non doveva.

Seduti uno accanto all’altra sul letto, le nostre ginocchia si toccavano ormai da diversi minuti. E nessuno dei due sembrava volerle staccare.

“Hai una concentrazione pessima,” disse lei dopo l’ennesimo errore.

“Mi distrai,” risposi senza pensarci.

Lei rise, abbassando lo sguardo, poi mi guardò da sotto le ciglia.

“Davvero? Cos’è che ti distrae?”

La canottiera sottile le si era incollata addosso, i capezzoli tesi ben visibili sotto il tessuto.

Sapeva esattamente cos’era che mi distraeva. Ma voleva sentirmelo dire.

“Un po’ tutto,” dissi. “Il tuo modo di ridere. Il modo in cui ti muovi. Il modo in cui non porti il reggiseno.”

Fece una risata soffice, lasciando cadere indietro la testa e i capelli.

“Così poco ti basta?”

“Così poco… basta a chi ha troppa immaginazione.”

Lei mi guardò di nuovo, con uno sguardo più serio. Gli occhi grandi, intensi. Quel tipo di sguardo che non si spiega: lo senti. Ti prende alla gola.

Si chinò per posare la chitarra. Il seno si mosse piano, libero. Poi si voltò e si appoggiò sul fianco, sorreggendosi con un braccio.

“Tu sei bravo a suonare. Ma secondo me saresti bravissimo a baciare.”

Mi si bloccò il respiro.

Non sapevo se stesse ancora scherzando. Se stesse solo provocando.

Ma il silenzio che seguì sembrava urlare.

Ci guardammo. Era a pochi centimetri. Le sue labbra si aprirono appena. Le avrei potute sfiorare con un respiro.

Poi, all’improvviso, disse:

“Sai che ho un fidanzato, vero?”

Boom.

Come se qualcuno avesse staccato la corrente.

“No. Non lo sapevo.”

“Lo dico solo perché… a volte sembro un po’ troppo ‘così’. Ma ci tengo. Cioè, più o meno.”

Più o meno?

La frase restò sospesa.

Sembrava aspettare una mia reazione. Una mia mossa.

Ma io non mi mosso.

“E quindi… tutto questo?”

Feci un gesto vago con la mano. Le gambe che si toccavano, i seni in bella vista, la frase sul bacio…

“Questo è… Alice.”

E sorrise, lenta, maliziosa.

“Io sono fatta così. Mi piace giocare. Non significa che voglia davvero… sai.”

“No, certo,” dissi. “Non ho mai pensato nulla del genere.”

“Bugiardo,” sussurrò.

E rise, di nuovo. Ma stavolta c’era una nota in più. Una consapevolezza.

Si alzò dal letto, stiracchiandosi. I pantaloncini si sollevarono quel tanto da far sparire l’orlo sotto le curve dei glutei.

Poi si voltò verso di me con un’aria innocente.

“Ci vediamo dopodomani, prof. Stessa ora?”

“Stessa ora.”

Uscendo, mi chiesi quanto di quello che aveva detto fosse vero.

E quanto, invece, fosse parte del suo gioco.