Scout e desideri proibiti

Capitolo 2 - Iniziazione al clan

Asiadu01
a day ago

Il passo successivo era il Clan.

Il grande traguardo. Il livello dove smettevi di essere “una ragazzina” e iniziavi a gestirti da sola. Più libertà, più serate fuori, più notti sotto le stelle, e meno capi che ti spiegano come accendere un fuoco quando in realtà stai solo cercando di non bruciare te stessa.

Il Clan era quello che avevo sempre sognato.

E ora lo temevo più di tutto.

Avrei dovuto entrarci con la mia squadriglia, con il mio vecchio gruppo. Ma no. Non potevo. Non dopo quello. Non dopo Irene. Non dopo Kri.

Così, con la scusa di voler “vivere nuove esperienze” — frase che mia madre trovò commovente, quasi da futura capo clan — chiesi il passaggio in un altro reparto. Stesso distretto, stessa zona, ma nuovo ambiente, nuove persone. Nuovo meccanismo di autodifesa.

Era la mossa perfetta:

ricominciare da zero,

senza deludere mia madre.

Soddisfazione garantita per tutti. Tranne me.

Il primo giorno nel nuovo Clan arrivò silenzioso.

Zaino pieno, vestito stirato, la promessa a me stessa di parlare poco e sorridere solo se necessario.

Il gruppo era vario, più adulto, meno teatrale.

Ragazze più grandi, ragazzi più pieni di sé ma meno fastidiosi. Nessun Kri. Nessuna Irene.

Un campo nuovo, facce nuove.

Tutto sembrava più sobrio, più intelligente, più lento.

Eppure, dentro di me, ogni parola che pronunciavo era calibrata.

Ogni risata era pesata.

E ogni sguardo delle altre ragazze era passato al vaglio di mille filtri prima di accettarlo come innocuo.

Non mi fidavo più.

Di nessuno.

Nemmeno di me stessa.

Mi accolsero loro due.

Maria e Giulia.

La prima con un sorriso grande, caldo, che sapeva di casa e torta fatta in casa — ma su un corpo che, diciamolo, era tutto tranne che innocente.

Bassa, lentigginosa, con i capelli castano chiarissimo che le esplodevano in riccioli ovunque — e una figura che era un inno alla morbidezza.

Aveva qualcosa di infantile nel viso, ma il modo in cui il suo seno strabordava sotto la camicia scout era tutto fuorché da bambina.

E poi… quel sedere.

Dio.

Sembrava fatto per accogliere il mondo intero.

Giulia, invece, era tutta un’altra storia.

Alta, elegante, con un corpo da copertina. Ma non di quelle patinate: da sogni lucidi di mezzanotte.

Le curve di Giulia non chiedevano attenzione: la imponevano.

Ogni suo movimento aveva un ritmo naturale, sensuale, come se il suo corpo sapesse danzare anche solo respirando.

Capelli neri, lunghissimi, occhi scuri da gatta. E una bocca…

Una bocca che ti faceva venir voglia di dirle tutto e subito, anche le cose che non avevi mai avuto il coraggio di pensare.

Mi presero sotto la loro ala appena arrivai.

Come se sapessero che venivo da una frattura.

Forse lo sentivano a pelle, o forse erano semplicemente brave ad annusare le anime rotte.

“Con noi ti troverai bene,” disse Maria, sorridendo con quella voce che sapeva di caramelle.

“Qui si fa sul serio… ma ci si diverte anche,” aggiunse Giulia, con uno sguardo tagliente e un accenno di sorriso che mi attraversò come un graffio sottile.

Le osservavo parlare tra loro, capirsi con un’occhiata, toccarsi con naturalezza — una mano sulla schiena, un braccio che sfiorava la coscia — e dentro di me qualcosa si agitava.

Non erano come Irene.

O almeno, non lo erano nel modo in cui mi avevano illuso.

Queste due… mi guardavano. Ma senza farlo pesare.

E io mi lasciavo guardare. Ma con la paura che, anche stavolta, potesse finire male.

Nei primi giorni mi spiegarono tutto: le dinamiche del clan, le uscite, i ruoli.

Io annuivo, cercavo di stare sul vago, di non far trasparire quanto fossi affamata.

Non di attenzioni.

Di normalità.

Solo che, quando ti siedi accanto a Maria e senti il profumo dei suoi capelli mischiarsi con quello del suo seno morbido, quando Giulia ti parla all’orecchio con quel tono basso e profondo che ti scivola lungo la schiena…

beh, l’equilibrio vacilla.

E io, Clara, quella che doveva ricominciare da zero, avevo appena scoperto che il mio zero era ancora dannatamente instabile.

Decisi che stavolta avrei fatto le cose diversamente.

Basso profilo. Niente confidenze, niente illusioni.

Avevo un nome da proteggere. Il mio.

Feci amicizia con Maria e Giulia con il giusto grado di apertura.

Ridevamo, parlavamo, ci raccontavamo episodi di campo — io mentendo sulla metà delle cose, omettendo sull’altra metà.

Ero simpatica, disponibile, sveglia.

Ma blindata.

Il segreto, quello vero, quello che batteva sotto la maglietta ogni volta che una delle due mi sfiorava per caso, doveva restare sepolto.

Nessuna doveva sapere.

Nessuna poteva immaginare che amavo le ragazze.

Che le guardavo troppo. Che fantasticavo.

Stavo zitta.

Sorridevo.

E cercavo di tenere gli occhi dove andavano tenuti.

Fallivo quasi sempre.

Le riunioni di Clan, invece, erano una specie di tortura elegante.

Due ore seduti in cerchio, a discutere su come usare il fondo cassa, a votare mete per la prima uscita, a organizzare i turni di cucina.

Io ascoltavo, presente con il corpo, assente con la testa.

La metà delle voci mi rimbalzava in testa come onde vuote. L’altra metà mi ricordava ogni secondo che, in fondo, ero ancora fuori posto.

Ogni tanto mi sembrava di vedere Irene tra i volti, in una risata simile, in uno sguardo di troppo.

Chiudevo le mani a pugno sulle ginocchia.

Poi respiravo.

Poi tornavo a sorridere.

Quando annunciarono la composizione delle tende per la prima uscita, sentii un brivido improvviso.

“Voi tre: Maria, Giulia e Clara.”

Lo dissero con naturalezza, come se fosse una scelta logica.

E forse lo era.

Ma per me fu un allarme silenzioso.

Dormire con loro.

Dividerci gli spazi, i respiri, i silenzi della notte.

Era l’inizio di una sfida che non avevo scelto.

Le guardai.

Maria mi sorrise con entusiasmo sincero.

Giulia sollevò un sopracciglio, poi accennò un sorriso lento, che sapeva troppo di guanto lanciato.

“Sarà divertente,” disse.

“Sì, finalmente un po’ di girl power,” aggiunse Maria.

Io annuii.

Mentre dentro, il cuore mi si torceva.

Lo chiamano Clan perché dovresti sentirti in famiglia.

Io, invece, avevo appena scoperto che stavo per condividere la tenda con due sogni proibiti e nessuna via di fuga.

E la cosa peggiore?

Che una parte di me… non vedeva l’ora.

E così, in un soffio, eravamo passate dall’autogestione alle ciaspole.

Dall’entusiasmo delle prime uscite al silenzio ovattato di una montagna imbiancata, coperta da un gelo che tagliava l’aria anche solo respirando.

Ma le tende — Dio benedica l’attrezzatura invernale — erano più calde di quanto uno potesse pensare. Bastava essere in tre, respirare a ritmo, dormire vicine… e sembrava quasi casa.

Quasi.

Io ero tesa.

Tesa dal primo istante in cui eravamo arrivate al campo. Dal momento in cui avevo toccato la neve con gli scarponi, fino all’ultima corda tirata della nostra tenda.

Montaggio tenda: tesa.

Pali storti, nodi che non volevo mollare nemmeno con i guanti.

Cucine da campo: tesa.

Mi tremavano le dita, ma non era per il freddo.

Poi, la notte.

La temuta, fottuta, prima notte.

Entrammo tutte e tre in tenda con le torce appese al collo, le guance arrossate dal vento e le mani indolenzite.

Giulia si tolse gli scarponi con un sospiro, lanciando uno sguardo di complicità verso Maria.

Maria rise piano, mentre cercava di slacciare il pile e infilarsi nel sacco a pelo.

Io mi mossi come un automa.

Ogni gesto misurato.

Ogni centimetro del mio corpo consapevole di dove fosse il loro.

Il freddo faceva da scusa perfetta.

Ci avvicinammo.

I nostri sacchi si toccavano.

La stoffa produceva un suono secco e continuo, mentre ognuna si sistemava nella propria posizione.

“Non mi muoverò mai più,” disse Maria, raggomitolata.

“Neanche sotto minaccia,” rispose Giulia, accennando un sorriso con le labbra appena illuminate dalla torcia.

Io non dissi niente.

Mi infilai dentro il mio sacco e chiusi gli occhi.

Ma il sonno non arrivava.

Sentivo i loro respiri.

Il loro calore.

Il loro odore: dolce Maria, quasi di vaniglia e vento. Giulia, più speziata, come pelle dopo il sole.

Mi sentivo esplodere.

E fingere.

Come sempre.

Ripensavo al campo estivo, alla tenda vuota, alle lacrime silenziose.

E ora ero qui, nella stessa posizione, ma con due presenze troppo vive accanto a me.

Una parte di me voleva solo dormire.

Un’altra… sognava che il sacco a pelo si aprisse da solo. Che una mano cercasse la mia. Che qualcuno, chiunque, sapesse senza che io dovessi dire.

Ma rimasi ferma.

Immobile.

Muta.

Perché anche lì, tra le montagne, tra neve e risate, ero ancora la stessa Clara:

quella che osserva.

Che desidera.

Ma non si concede.

E quella notte, sotto gli strati di nylon e silenzi, fu lunga.

Dannatamente lunga.

E troppo, troppo calda.

La seconda giornata fu uguale alla prima.

Stanchezza, freddo, legna bagnata, battute stupide e un tè che sapeva di piedi.

Io continuavo a tenermi in riga. Rigida. Perfetta. Invisibile.

Le altre mi notavano, ovviamente. Ma lo facevano con gentilezza. O almeno, così sembrava.

E poi venne la notte.

Nella tenda, l’aria era ancora densa del vapore dei nostri respiri, le torce erano già spente e restavano solo le nostre sagome nei sacchi, addosso al silenzio della neve.

Stavo per chiudere gli occhi, quando la voce di Giulia ruppe il buio.

Non mi guardava. Parlava verso l’alto. Ma parlava a me.

“Clara, sei sempre tesa, lo sai?”

“Mica solo oggi. Anche ieri. E prima. Sempre contratta come se stessi aspettando che ti crolli qualcosa addosso.”

Ingoiai a vuoto, il cuore accelerato.

Maria ridacchiò piano.

“Ha ragione,” aggiunse. “Sembri sempre sul punto di scappare.”

“Lo sai che c’è un metodo infallibile?”

Giulia aveva quella voce bassa e morbida, fatta per sussurrare segreti.

“Quando sono tesa o nervosa… io mi masturbo. In tenda, sotto il sacco, anche con altra gente. Aiuta. Ti svuota la testa.”

Rimasi paralizzata.

Le gambe strette, la schiena rigida, le mani congelate dentro il pile.

Avevo sentito bene?

Maria intervenne, subito, ma con una voce più allegra, come se stessimo parlando di una canzone o di un piatto di pasta.

“Sì, sì, Giulia ha proprio ragione. Io lo faccio anche solo per prendere sonno, eh. Tipo… la sera prima del campo… avevo ansia? Una carezzina e via.”

“Anzi,” aggiunse, divertita, “non solo carezzine. Se mi serve un colpo sicuro, mi metto una canzoncina in cuffia e… buonanotte.”

Io stavo bollendo.

Nel vero senso della parola.

Il cuore mi rimbombava nelle orecchie, le guance in fiamme, la pelle sotto la maglietta sembrava vibrare.

Stavano scherzando?

Giocando?

Mi stavano mettendo alla prova?

“Tu no?”

Fu Giulia a rompermi di nuovo i pensieri. La sua voce era calma, ma netta.

“Mai pensato di… rilassarti così? Anche solo per non essere sempre sul filo.”

Maria aggiunse, più bassa, quasi sussurrando:

“O magari ti serve solo la mano giusta.”

Le due risero piano.

Io non dissi niente.

Il mio corpo era immobile. Ma la mia testa era un turbine.

E in mezzo al buio, con le loro voci ancora nelle orecchie e il respiro che non riuscivo a rallentare, l’unico pensiero che avevo era:

Cosa cazzo sta succedendo.

E perché mi piace così tanto.

Maria si voltò su un fianco nel sacco a pelo, il suo profilo appena disegnato dal riflesso opaco della luna sul telo della tenda.

La sentii ridacchiare, piano, e poi dire con la sua solita voce dolce e disarmante:

“Perché non le facciamo il rito di iniziazione… se lei è d’accordo, ovviamente.”

Io annuii.

Non so nemmeno se davvero compresi la domanda.

Era un gesto automatico, istintivo.

Il mio corpo stava decidendo per me.

E il calore che sentivo ovunque mi faceva dire di sì a tutto.

Giulia rise piano, una di quelle risate basse, quasi torbide.

“Allora Clara… adesso ti insegniamo noi come ci si rilassa davvero.”

Si voltò a guardarmi, senza muoversi dal sacco. Solo lo sguardo. Solo la voce.

“Hai mai ascoltato le storie giuste prima di dormire?”

Io no.

Mai.

E non sapevo se ero pronta.

Ma le ascoltai.

Maria fu la prima a parlare, la voce un sussurro, quasi una ninna nanna perversa:

“C’era quella volta… eravamo in un campo estivo, pioveva forte e Giulia si era bagnata tutta… tutta. Non aveva ricambio. Così le diedi la mia maglietta. Ma sotto… niente. Solo pelle calda. Quando mi si sdraiò accanto quella sera, nel sacco doppio, mi si incollò addosso e… beh, non so chi delle due iniziò, ma ci baciammo. Piano. Poi la sua mano scese… e lì imparai cosa vuol dire venire con qualcuno che sa cosa fa.”

Sentii i peli delle braccia sollevarsi.

Le gambe strette.

Il battito accelerato.

Giulia prese il testimone, più diretta.

“Io invece mi ricordo la volta in cui Maria si era addormentata con la mano sulla mia pancia… solo che mentre dormiva… quella mano cominciò a muoversi. Giuro. Forse sognava. Ma io non la fermai. Mi piaceva troppo. Quando si svegliò mi trovò a mordermi il labbro e… abbiamo finito quello che aveva cominciato.”

Risero di nuovo, ma era una risata carica, piena di tensione e promesse.

“Ci conosciamo da anni,” continuò Maria, voltandosi leggermente verso di me, il sacco che frusciava piano.

“E quando c’è bisogno… ci aiutiamo. Sempre.”

“Potremmo aiutare anche te,” disse Giulia, con quel sorriso che non vedevo ma sentivo bruciare sulla pelle.

Io ero lì, nel mio sacco, immobile, accaldata, tesa e incredula.

Stavano raccontando quelle cose a me.

A me.

E io non riuscivo nemmeno a parlare.

“Ci stai, Clara?”

“Se vuoi, iniziamo. Ma devi dirlo tu.”

Le loro voci erano morbide, lente, avvolgenti.

E io…

io avevo ancora il cuore impazzito.

E le cosce strette.

E il desiderio che bruciava sotto ogni strato.

«Sì… vi prego.»

Lo dissi prima ancora di pensarci davvero.

La voce mi uscì roca, quasi rotta. Ma chiara.

E loro non esitarono.

«Brava,» sussurrò Giulia.

«Vieni qui, Clara,» disse Maria con un tono che sembrava zucchero caldo.

Si spostarono leggermente nei loro sacchi, facendomi spazio nel mezzo.

Il nylon frusciò, le coperte si gonfiarono, e il freddo del tessuto si mischiò subito al calore del loro respiro.

Mi sentivo nuda, anche se ero ancora vestita.

Mi distesi tra loro.

Maria da una parte, con i suoi ricci disordinati che mi sfioravano il collo.

Giulia dall’altra, con il suo profumo di pelle e sapone che mi entrava nei polmoni.

Le loro mani iniziarono piano.

Sopra la maglia. Leggere.

Come se volessero accarezzarmi e rassicurarmi insieme.

Poi, un po’ alla volta, scesero.

Sulle costole.

Sulla pancia.

Le dita di Maria si fermarono sotto il mio seno.

«Ma quanto sei dolce…» mormorò.

«Guarda che tettine perfette,» disse piano, con un tono complice.

«Giulia, non trovi siano adorabili?»

Giulia ridacchiò, e mi sfiorò da sopra la maglia, con la mano che si posava leggera come una piuma.

«Altroché. Piccole, ma tonde. Proprio da mordicchiare.»

Le loro voci erano carezze più delle mani.

Io ero immobile, ma dentro…

una scossa mi attraversava tutta.

Loro erano morbide, calde, sensuali in ogni gesto.

Io tremavo.

Sotto le dita di due corpi che avevo immaginato solo nelle notti più silenziose.

Maria sfiorò la mia guancia con la punta del naso.

«Stai bene?»

Annuii.

Non avevo voce.

Poi le mani si mossero ancora.

Le loro dita si intrecciarono per un attimo sulla mia pelle nuda, mentre mi sollevavano la maglia piano.

Mi stavano scoprendo, centimetro dopo centimetro.

E ogni parola che dicevano sembrava uno strappo al pudore e un balsamo al cuore, insieme.

«Guarda che bellezza,» mormorò Giulia, guardandomi con un’intensità che mi fece arrossire.

«Sei tenera. Ma calda. Così viva…»

E io, stretta tra quei due corpi mozzafiato, avevo smesso di ricordare cosa significasse avere paura.

Solo il mio respiro.

Le loro mani.

E la sensazione che tutto quello, per una volta, potesse essere giusto.

Il tessuto della maglietta si sollevò del tutto.

Le loro mani si muovevano lente, sicure, come se sapessero esattamente dove volevo essere toccata — anche prima che lo sapessi io.

Maria fu la prima a passare la punta delle dita sul mio fianco nudo, disegnando piccoli cerchi sulla pelle che sembravano lasciare scie di fuoco.

Giulia invece si avvicinò al mio petto, le dita appena sotto il bordo del reggiseno, accarezzando con movimenti così delicati che sentii i capezzoli indurirsi prima ancora che li toccasse davvero.

«Guarda come reagisce…» sussurrò Giulia con un sorriso nella voce.

«Sta fiorendo sotto le nostre mani.»

Le loro parole erano parte del tocco.

Ogni complimento, ogni frase detta piano tra una risata e un respiro, entrava in me come un brivido.

Mi stavo sciogliendo.

Anzi, mi stavo aprendo.

A loro. A me stessa.

A un piacere che non avevo mai permesso di esistere prima.

Maria si abbassò leggermente verso di me, il suo respiro caldo sul mio collo.

Mi sfiorò con le labbra, non era un bacio, era una promessa.

Un assaggio.

«Vuoi che te lo leviamo noi?»

Il reggiseno.

Annuii.

Le parole non servivano più.

Eravamo già in un’altra lingua.

Giulia slacciò con due dita dietro la mia schiena, mentre Maria tirava via le spalline con una dolcezza feroce.

E quando fui nuda sopra, sentii l’aria fresca accarezzarmi la pelle… seguita dalle loro mani, più calde di tutto il resto.

Mi accarezzarono il petto con attenzione e desiderio.

I loro palmi erano morbidi, le dita curiose.

Mi stringevano piano, mi sfioravano i capezzoli con movimenti circolari che mi fecero gemere senza volerlo.

«Così tenera, così sensibile…»

«Non sapevi di poter sentire così tanto, vero?»

Avevano ragione.

Non lo sapevo.

Ma lo stavo imparando.

Le loro bocche arrivarono subito dopo.

Maria iniziò a baciarmi il petto, piano, con la lingua che scivolava leggera fino al capezzolo, lo catturava tra le labbra, lo succhiava con una dolce avidità che mi fece chiudere gli occhi e stringere le gambe.

Giulia si occupava dell’altro, alternando carezze con la lingua e mordicchiatine leggere che mi facevano trattenere il fiato.

Ero in mezzo, nuda, nuda dentro e fuori.

Le loro mani ora mi toccavano ovunque.

I fianchi, il ventre, le cosce.

E ogni centimetro del mio corpo rispondeva come non aveva mai fatto prima.

Il piacere cresceva.

Un’onda lenta ma inarrestabile.

E io?

Io non ero più tesa.

Per la prima volta… mi stavo lasciando andare. 

Le loro lingue continuavano a giocare con i miei capezzoli, alternandosi senza fretta.

Era come se sapessero esattamente quanto restare, quanto succhiare, quanto mordere appena prima che diventasse troppo.

E ogni volta che mi sentivo esplodere, rallentavano.

Mi tenevano lì, in bilico.

Tra il bisogno e il piacere.

Le loro mani, intanto, non si erano mai fermate.

Maria mi stringeva un fianco, mi accarezzava la pelle sotto il seno, sfiorava l’ombelico con la punta delle dita.

Giulia invece stava scendendo.

La sentivo — anche se non guardavo.

Il calore della sua mano che si faceva più vicino, più deciso.

E poi fu lì.

Sopra le mutandine.

Il palmo aderente, le dita ferme.

Mi toccò senza muoversi, eppure sentii il respiro spezzarsi.

«Sei bagnata…»

La sua voce era un sospiro meravigliato.

«Clara… sei così pronta…»

Maria rise piano, staccandosi dal mio petto.

«Non vedevamo l’ora che mollassi le difese.»

Poi fu lei a infilare la mano dentro, da sotto l’elastico.

Un movimento lento, dolcissimo, che mi fece sobbalzare tutta.

Le sue dita scivolarono su di me come se mi conoscesse da sempre.

Mi sfiorava con cura, con un’attenzione quasi devota.

Tracciava cerchi piccoli, precisi, sul mio piacere.

Giulia si avvicinò al mio viso, mentre Maria mi toccava sotto.

Mi guardò da vicino.

I suoi occhi scuri erano profondi e calmi.

«Vogliamo farti sentire bene.»

«Vogliamo che tu lo sappia… che non c’è nulla di sbagliato qui.»

Poi mi baciò.

Un bacio vero.

Caldo, lento, morbido.

Mi sciolsi tutta.

La baciai indietro con fame, con desiderio, con tutto quello che avevo tenuto sepolto per anni.

E mentre le nostre lingue si intrecciavano, sentii le dita di Maria muoversi più decise.

Sfiorava, accarezzava, poi premeva.

E io… ansimavo piano, stringevo i denti per non gemere troppo forte, ma era impossibile restare in silenzio.

«Lasciati andare…»

La voce era di Maria stavolta.

«Vogliamo vederti venire. Così, tra di noi.»

E non ci volle molto.

Il piacere mi travolse in un’ondata lenta e calda, mi scosse tutta mentre le loro mani mi tenevano, le loro bocche mi cercavano ancora, e il mio corpo si apriva del tutto.

Le cosce tremavano.

Il respiro si spezzò.

E mi venne un singhiozzo strozzato, nel momento esatto in cui l’orgasmo mi attraversava.

Mi sentii viva.

E libera.

E piccola, stretta tra le loro braccia.

E per la prima volta… amata.

Anche solo per quella notte.

Stavo ancora tremando, il respiro irregolare e la pelle calda come se stessi arrossendo dentro, non fuori.

Ero stesa nel sacco, il petto scoperto, le mutandine abbassate di lato, le gambe ancora aperte.

Maria mi accarezzava i capelli, mentre Giulia mi osservava con un ghigno morbido sulle labbra.

Avevo appena finito… e già mi sentivo svuotata, come se qualcosa fosse uscito da me.

Eppure — non era finita.

«Ehi…»

La voce di Maria era bassa, ma decisa.

«Clara. Pensavi fosse tutto qui?»

Mi voltai verso di lei, confusa.

Un sorriso storto le stava curvando le labbra.

«Tesoro, l’iniziazione… dura tutta la notte.»

Giulia ridacchiò.

Si tirò su nel sacco, armeggiò sotto il suo zaino — che teneva sempre vicino, anche in tenda — e dopo pochi secondi ne tirò fuori una bustina di tela chiara.

«Non abbiamo solo mani e bocche,» disse, con una scintilla pericolosa negli occhi.

«Abbiamo anche… strumenti di rilassamento intensivo.»

Aprì la bustina con lentezza, godendosi ogni secondo del mio sguardo spalancato.

Dentro, c’erano dei piccoli oggetti in silicone, lisci, colorati, curvi… alcuni allungati, altri più compatti.

Mi mancò un battito.

«Non aver paura,» disse Maria, prendendone uno in mano.

Era rosa, piccolo, sottile.

«Iniziamo piano. Ti ascoltiamo. Ti guidiamo. Non sei sola, Clara.»

Giulia si avvicinò, sedendosi accanto a me, il sacco ormai aperto e le gambe piegate contro il mio fianco.

Mi guardava con quella dolcezza pericolosa, quella sicurezza che non lasciava scampo.

«Vuoi continuare?»

Domanda semplice.

Ma la mia risposta fu tutta nel corpo: mi sollevai un poco, abbassai da sola del tutto le mutandine, e tornai a stendermi tra di loro.

Maria mi baciò sulla guancia.

«Bravissima. Ora lasciati fare. Fidati di noi.»

Giulia prese il piccolo toy e si inginocchiò tra le mie gambe.

«Ti farò impazzire, Clara. E tu non dovrai fare niente. Solo sentire.»

E così fu.

Le dita di Maria intrecciate alle mie.

La lingua di Giulia, lenta e bassa, sul mio ventre.

E poi, il giocattolo.

Appena appoggiato.

Un piccolo movimento circolare, vibrante, preciso.

Il mio corpo rispose subito.

I fianchi si sollevarono da soli.

Un gemito mi sfuggì dalle labbra, incontrollato.

Il piacere era diverso, più profondo, più mirato.

Mi sembrava di essere un fuoco d’artificio ancora prima di esplodere.

«Guarda come si apre per noi…»

Maria aveva una voce quasi commossa.

E Giulia, tra un colpo e l’altro, disse:

«Ne farò venire più volte stanotte. Promesso.»

Ero nuda.

Sudata.

Sotto di loro.

E non avevo mai desiderato così tanto restare sveglia, tutta la notte.

Maria non distolse mai lo sguardo da me.

Le sue dita erano ancora intrecciate alle mie, ma ora mi accarezzavano piano il dorso della mano.

La vedevo mordicchiarsi il labbro, come se trattenesse qualcosa.

Poi si sollevò leggermente nel sacco, e senza dire nulla, fece scivolare il pile che indossava, rivelando la pelle chiara, morbida, punteggiata da lentiggini sparse.

Non aveva il reggiseno.

Il suo seno abbondante, pieno, vibrò appena quando si liberò degli strati.

Era grande, pesante, con capezzoli scuri e morbidi, tondi e gonfi.

Sembrava scolpito per essere accarezzato, baciato, adorato.

Il mio sguardo si bloccò lì.

Come ipnotizzato.

Avevo la bocca leggermente aperta e il cuore che batteva troppo in fretta.

Maria lo notò.

Si accorse del modo in cui la guardavo.

E sorrise.

«Ti piace quello che vedi, eh?»

Annuii piano, quasi vergognandomi della fame che mi brillava negli occhi.

Avevo il fiato corto, la gola secca.

Non riuscivo a parlare, ma il mio corpo era già proteso verso il suo.

Come se sapesse che aveva bisogno di lei, in quel modo lì.

Di sentirla, di attaccarmi, di perdermi.

Giulia rise piano.

«Guarda come la guarda… Maria, credo che voglia assaggiarti.»

Maria si chinò verso di me, con quel suo seno così vicino alla mia bocca da farmi tremare tutta.

Mi sfiorò la guancia con il capezzolo, piano.

Poi lo avvicinò di più.

Non c’erano parole. Solo il respiro che si faceva più pesante.

«Prendimi. Se è quello che vuoi…»

E io lo feci.

Le labbra si posarono su di lei con un desiderio così profondo che non sembrava neanche mio.

Leccai piano, poi succhiai.

Con dolcezza, ma fame.

Sentivo il capezzolo indurirsi nella mia bocca, e il suo respiro farsi più irregolare.

La sua mano mi accarezzava i capelli.

Mi teneva lì.

E io non volevo andarmene.

Mi stavo nutrendo.

Non solo del suo corpo.

Ma di tutto.

Di una tenerezza che non avevo mai avuto.

Di un’intimità che non pensavo mi fosse permessa.

Maria gemeva piano, ogni tanto.

Giulia, intanto, aveva ripreso a toccarmi con il toy, più lentamente.

Ero intrappolata in un circuito perfetto: il piacere che davo, quello che ricevevo, quello che cresceva in me.

«Continua così…» sussurrò Maria, con la voce calda.

«Bevimi tutta. Come vuoi. Stanotte sei nostra.»

E io lo ero.

E lo volevo.

Più di qualsiasi altra cosa.

Maria era sopra di me adesso, il suo corpo morbido che si appoggiava al mio con tutto il suo calore.

Aveva il seno pesante ancora bagnato della mia bocca, e i suoi capezzoli duri sfioravano la mia pelle come gocce bollenti.

Mi guardava con quella dolcezza che solo chi domina senza bisogno di forza sa avere.

«Ti sei già lasciata andare una volta…» mi sussurrò.

«Ma stanotte vogliamo che tu ci appartenga del tutto.»

Sentii il fruscio del nylon, poi il movimento deciso di Giulia che si posizionava dietro di me.

Le sue mani sfiorarono la mia schiena, poi scesero sui fianchi, sulle cosce, aprendomi piano.

Una carezza che era una guida.

«Adesso ti prendiamo insieme…»

La voce di Giulia era un soffio caldo contro la mia nuca.

«Una davanti, una dietro. E tu in mezzo.

Dove volevi essere, vero?»

Non risposi.

Non ne avevo bisogno.

Ero lì.

Pronta.

Spalancata a loro, nel corpo e nella mente.

Maria si abbassò e mi baciò.

Un bacio lento, profondo, che mi fece dimenticare l’aria.

Le sue mani afferrarono i miei seni, me li strinse con passione, li baciò, li adorò.

«Guarda come tremi… sei bellissima così.»

Giulia, dietro, iniziò a premere qualcosa contro di me.

Un altro giocattolo.

Più grande, più pieno.

Vibrava, ma lentamente.

E la sensazione era quasi proibita, così profonda, così diversa.

Mi morsi il labbro per non gridare.

Maria mi teneva ferma.

Giulia mi apriva.

E io mi sentivo attraversata.

Il mio respiro si fece irregolare, le gambe si chiudevano da sole per la tensione, ma loro me le riaprivano piano, con mani dolci e sicure.

«Lasciati andare, Clara. Lascia che veniamo con te…»

Il piacere montava come un’onda nera, piena, pronta a sommergermi.

Giulia mi stava muovendo dentro e fuori con precisione ipnotica, mentre Maria mi baciava il collo, il petto, il ventre, senza tregua.

Le loro voci si mescolavano.

I loro corpi mi stringevano.

E io… io non ero più una.

Ero loro.

Il piacere mi esplose dentro con la forza di qualcosa che avevo represso per anni.

Mi piegò tutta.

Mi fece gemere a voce alta.

Mi fece piangere.

Di liberazione.

Di gioia.

Di identità.

E mentre tremavo, tra due corpi femminili che mi avevano accolta senza condizioni, Maria mi sussurrò all’orecchio:

«Adesso sei rinata.»

Il mio corpo era ancora teso, scosso, saturo di piacere… ma dentro sentivo qualcosa di nuovo, un’energia viva, istintiva.

Non ero più la ragazza che si lasciava fare.

Volevo restituire tutto.

Ogni bacio, ogni tocco.

Ogni brivido che loro mi avevano regalato.

Mi sollevai appena, ancora tra le lenzuola stropicciate e i respiri affannati.

Maria era distesa accanto a me, il petto nudo che saliva e scendeva lentamente, gli occhi socchiusi ma vigili.

Giulia, dietro, si stava sistemando i capelli, spettinati e sensuali, col viso che brillava di un desiderio ancora tutto aperto.

Mi voltai verso Maria, strisciando piano sul sacco a pelo, e le baciai l’interno coscia.

La sentii fremere sotto le mie labbra.

«Adesso tocca a te…» le dissi, bassa.

«Tu che mi hai aperta, adesso lasciati aprire.»

Giulia rise piano, e si spostò accanto a Maria, accarezzandole il seno.

«Voglio vedervi. Ma poi… vengo anch’io.»

Mi abbassai ancora.

Le gambe di Maria si aprirono quasi da sole.

Sapeva cosa stava per succedere.

E lo voleva.

Le leccai piano l’interno della coscia, poi salii.

Ogni centimetro della sua pelle era un sapore nuovo.

Quando arrivai dove era già bagnata, iniziai a baciarla e leccarla con lentezza.

All’inizio solo un tocco. Poi più profondo, più mirato.

La sua mano mi prese i capelli, ma non per fermarmi.

Per tenermi lì.

Per sentirsi tenuta.

«Dio, Clara…»

La sua voce si ruppe.

«Sei bravissima…»

Sorrisi contro la sua pelle.

Continuai, finché la sentii inarcare il bacino, ansimare.

Poi tremare.

E infine venire.

Quando risalii, Giulia era già sopra di me.

«Adesso vengo io dietro di te. E tu davanti a lei.»

Non era più una richiesta.

Era un desiderio reciproco.

Un gioco in cui ci scambiavamo, ci intrecciavamo.

Io mi sdraiai tra le due, Maria dietro, Giulia davanti.

Maria mi accarezzava la schiena, mi baciava le spalle.

Io mi abbassai sul corpo di Giulia, e iniziai a baciarla come avevo fatto con Maria.

Più decisa, più sicura.

Mentre le davo piacere con la bocca, sentivo le mani di Maria sulla mia schiena, poi sulle mie anche, e poi ancora più in basso.

Una pressione morbida ma insistente.

Ci muovevamo in sequenza, ognuna presa, ognuna presa cura.

Un trenino di desiderio e dolcezza, dove nessuna era esclusa.

Giulia gemette forte, la sua voce si spense nel mio nome.

Maria mi sussurrava all’orecchio:

«Ti stiamo amando, Clara. Tutte. E adesso, sei una di noi.»

E io… sì.

Lo ero.

Per la prima volta, davvero

I loro corpi erano ovunque.

Addosso a me, sotto di me, intrecciati.

Le lenzuola ormai scivolate da ogni parte, il sacco a pelo completamente aperto, come se anche lui si fosse arreso alla notte.

Eravamo nude, tutte e tre.

Pelle contro pelle, seni contro schiene, mani ovunque.

Le dita che graffiavano, che sfioravano, che entravano.

Le bocche umide e calde che si cercavano a turno, scambiandosi baci, gemiti e piccoli morsi.

Il culmine si avvicinava come un temporale d’estate.

E lo sapevamo.

Maria era sotto di me.

Le gambe divaricate, le mani che mi tenevano le anche.

Io mi muovevo piano, le labbra strette, la fronte bagnata di sudore.

Sentivo il suo respiro spezzato salirmi addosso, ogni volta che affondavo contro di lei con le dita, ogni volta che le sfioravo quel punto preciso.

Giulia, intanto, era dietro.

Si era abbassata, inginocchiata, e con una delicatezza diabolica stava facendo la stessa cosa con me.

Un tocco lento, bagnato, una pressione continua che mi faceva stringere i denti.

Tre corpi in sincronia.

Tre respiri che si rincorrevano.

Maria gemeva piano, la voce arrochita.

«Clara… così, sì… non fermarti…»

Giulia mi baciava la schiena, la spina dorsale, i fianchi.

Mi accarezzava con la lingua, mi stringeva con le cosce, e ogni tanto ansimava piano, presa anche lei dal ritmo che ci univa tutte.

Ci muovevamo come un’unica creatura.

Io davo piacere a Maria, Giulia lo dava a me, e la tensione cresceva… cresceva…

Fino a quando non si ruppe.

Maria fu la prima.

Venne con un grido trattenuto tra i denti, le unghie affondate nella mia pelle, il corpo che tremava sotto di me come attraversato da una scossa elettrica.

Io la seguii poco dopo, spinta dalle dita di Giulia che non mollavano, dalla sua bocca calda che mi baciava la base della schiena, dal suono di Maria che si lasciava andare.

L’orgasmo mi colse in pieno.

Mi aprii tutta, gemendo il nome di entrambe, crollando con il petto sul ventre di Maria, mentre la mia mano ancora si muoveva tra le sue gambe, rallentando piano.

Giulia, ormai completamente eccitata, si sdraiò accanto a noi.

Aveva gli occhi lucidi, il viso arrossato.

«Toccatemi voi adesso… vi prego.»

E così facemmo.

Ci girammo, ci stringemmo, la baciammo ovunque.

Leccammo, accarezzammo, esplorammo.

Maria si mise tra le sue gambe, io le baciavo il petto, le succhiavo i capezzoli.

Giulia gemeva, si apriva tutta, ci stringeva a sé.

E quando venne, tremando forte, le sue gambe intorno al collo di Maria, il mio viso stretto tra le sue mani, capimmo che quella notte non l’avremmo mai dimenticata.

Non c’era più vergogna.

Né dubbio.

Né silenzio.

Solo pelle.

Desiderio.

E verità.

Quella notte non si dormì.

Non ci fu tregua, non ci fu pausa.

Solo risate soffocate, sospiri rotti, gemiti repressi tra i sacchi a pelo e la tela della tenda che sembrava ondeggiare al ritmo dei nostri corpi.

Le mani ci si confondevano, i baci diventavano morsi, e ogni ora sembrava l’ultima prima dell’alba.

Ma l’alba non arrivava mai.

Solo il piacere, ancora e ancora, in tutte le forme che riuscivamo a immaginare.

Ogni confine infranto, ogni tabù accarezzato fino a sciogliersi.

Eravamo nude, sudate, esauste.

Ma vive.

Per la prima volta, davvero vive.

Quando il sole filtrò tra i teli e ci accarezzò la pelle ancora nuda, eravamo distrutte.

Sfinite, ma sorridenti.

I capelli in disordine, il corpo segnato da graffi dolci e baci lasciati lì a memoria.

Giulia si stiracchiò con un ghigno soddisfatto.

Maria mi passò una borraccia e mi accarezzò la guancia con la tenerezza di chi sa.

E io… io mi sentivo parte di qualcosa.

Avevo trovato il mio posto.

Non quello imposto, non quello desiderato da altri.

Il mio.

E da lì in poi, ogni uscita fu un piccolo rituale.

Montare la tenda, sorriderci da lontano, fingere normalità durante le attività, scambiarci sguardi che dicevano tutto.

E poi, la notte.

La notte era nostra.

Sempre.

A volte nuove fantasie.

A volte giochi diversi.

Altre volte bastavano carezze e baci infiniti sotto il pile, col fiato corto e i cuori che battevano all’unisono.

Anche quando, col tempo, mi sono fidanzata, questo piccolo segreto non mi ha mai abbandonata.

Era mio.

Nostro.

Una parte silenziosa e bollente di me, chiusa in quelle tende d’inverno, tra i boschi, in riva ai laghi.

In ogni uscita, almeno una notte di intensa passione era solo nostra.

E ogni volta, mentre le guardavo dormire dopo, nude e serene, pensavo:

“Questo… questo è l’unico posto dove sono davvero me stessa.”

E mi addormentavo con il sorriso, sapendo che lì, nessuno mi avrebbe più chiesto di nascondermi.