Scout e desideri proibiti

Capitolo 1 - giocare con il fuoco

Asiadu01
a day ago

Mamma diceva che lo scoutismo mi avrebbe salvata.

Lo diceva col sorriso dolce di chi ci crede davvero. “Ti aiuterà a diventare una donna giusta, con valori solidi e un cuore puro.”

Traduco: ti voglio piegata, fedele, e possibilmente eterosessuale.

Avevo sei anni e già capivo che “pura” non voleva dire libera.

Mi ha messa in uniforme prima ancora che imparassi a legarmi le scarpe. E da lì, ho iniziato a collezionare promesse. Una alla volta, ogni anno, sotto qualche bandiera sventolante, con le ginocchia graffiate e il foulard stretto al collo come un guinzaglio.

Il Reparto, poi, è arrivato come una seconda pelle: tende, legna da spaccare, canti a squarciagola. E preghiere. Tante preghiere.

Io chiudevo gli occhi, ma pregare non l’ho mai fatto. Al massimo pensavo alle ragazze.

Sì. Le guardavo. Da sempre. Ma in silenzio, come si guarda una cosa proibita.

Come quando tua madre ti dice di non toccare la fiamma della candela.

E tu ci metti un dito, lo stesso.

Io ci ho messo tutto il corpo.

Ma all’epoca non lo sapevo ancora. O meglio: facevo finta di non saperlo.

Perché in un posto dove ogni passo è “per Dio e per la Patria”, il desiderio deve avere i contorni giusti. E il mio non li aveva mai.

Però stavo zitta. Ridevo nei momenti giusti.

Ero Clara: quella affidabile. Quella che sa accendere il fuoco sotto la pioggia e tenere unita la squadra quando piove merda.

Quella che non crea problemi.

Oggi sono al mio ultimo anno di Reparto. Il Reparto, per chi non lo sa, è quella fase strana e appiccicosa della vita scout in cui sei troppo giovane per essere grande e troppo grande per restare piccola.

Una bolla di ormoni, teli tesi male e segreti sepolti sotto i materassini.

Eppure, fino ad ora, ci stavo dentro bene.

Avevo imparato a stare al mio posto, a non guardare troppo, a non pensare troppo, a fingere il giusto.

Poi è arrivata lei.

Irene.

Caposquadriglia della squadra del Nord.

Non la classica “brava ragazza”. Un bottone della camicia sempre slacciato in più, le mani nei capelli in modo innaturale e perfetto, gli occhi da ti sto ascoltando ma so già cosa stai per dire.

Aveva qualcosa di irriverente e leggero. Di sporco, anche. Ma nel modo in cui sporco può essere bellissimo.

E io, appena l’ho vista, ho sentito quella fiammella che mi porto dietro da anni alzarsi come benzina.

Non sapevo se giocasse o se fosse così, di natura.

Ma il modo in cui mi guardava…

Sembrava vedermi. O forse, volevo solo crederlo.

Era entrata nel reparto in silenzio, con quel modo di fare da “io non ci credo a niente, ma ci sto comunque dentro”, e aveva preso posto come se fosse sempre stata lì. Nessun annuncio, nessuna fanfara. Solo un sorriso storto e gli occhi che osservavano tutto con quella calma da incendio che ha già preso fuoco.

Io l’avevo notata subito, ovvio. Ma avevo fatto finta di no, perché sono bravissima a mentire a me stessa.

È un’arte che affini a furia di paura.

“Oh, sei Clara, quella che ha sempre tutto sotto controllo.”

Me l’aveva detto così, alla prima riunione capi.

Io avevo sorriso e risposto qualcosa di scemo, tipo “mah, ci provo”, mentre il mio cervello cercava disperatamente di non fissare le sue labbra.

Rosate. Morbide. Appena umide.

Quel tipo di labbra che sembrano sul punto di dire qualcosa di veramente inappropriato.

Aveva questo modo di stare addosso, anche senza toccare. Di parlare guardandoti poco, ma sfiorandoti sempre.

Un giorno mi aveva preso una penna dalla tasca della camicia, senza chiedere. Mi si era avvicinata un po’ troppo e il suo braccio mi aveva urtata con una lentezza da scena rallentata.

Non era stato un contatto, era stato un avvertimento.

Io ero rimasta zitta, con i pensieri che bruciavano come l’acqua troppo calda nella doccia.

Perché Irene era così: come una temperatura sbagliata che ti piace comunque addosso.

Il suo corpo lo indossava come se non le fosse mai stato imposto.

Non sembrava volerlo nascondere, ma neanche esibire.

Era… comodo.

Come quei pantaloni scout che le cadevano bene sui fianchi pieni, o quelle camicie portate aperte giusto un bottone in più di quanto permesso dal regolamento.

A chiunque altro avrebbero detto qualcosa. A lei no. A lei si sorrideva.

I ricci chiari le cadevano sempre un po’ sugli occhi, e lei non faceva mai il gesto di sistemarseli. Li lasciava lì, a filtrare lo sguardo. Verde. Intenso.

Troppo.

“Tu sei strana, lo sai?”

“Grazie.”

“Non è un complimento.”

“Per me sì.”

Una sera stavamo caricando i materiali per l’uscita. Zaini, corde, taniche, tende.

Eravamo solo io e lei nel magazzino, e il neon sopra la nostra testa faceva un ronzio debole e fastidioso.

Lei si era piegata per sollevare un sacco da 50 litri e quando si era rialzata, era finita troppo vicina. Troppo.

Il mio braccio aveva urtato il suo.

Seno contro braccio.

Mi si era spento il cervello per tipo due secondi.

“Oh Clara, sei rossa. Che ti prende?”

“Fatica.”

“Sicura che sia quello?”

E il sorriso. Quel maledetto sorriso. Lento, storto, carnale.

Era così che giocava.

Senza mai dire nulla davvero.

Senza mai smettere.

Un altro giorno mi aveva chiesto aiuto per sistemare il telo del bivacco. Solo che il telo era steso sull’erba e lei si era inginocchiata in modo francamente teatrale. I pantaloni le si erano tirati un po’ su e io — idiota — mi ero lasciata sfuggire un secondo in più sugli occhi.

Glutei perfetti, morbidi, decisi.

Io non volevo guardare.

Ma volevo tantissimo guardare.

“Hai sempre quello sguardo serio, Clara. Ma giuro che se ti togli la camicia, secondo me fai impazzire qualcuno.”

Sorriso.

Gomitata.

E io a metà tra la vergogna e l’orgasmo mentale.

Pensavo a lei anche di notte, e non solo per i suoi modi ambigui.

Pensavo a lei perché Irene era libera.

Libera nel corpo, nei gesti, nel linguaggio.

Libera dove io ero stata chiusa.

E io la desideravo con la fame di chi ha passato la vita a guardare le vetrine senza mai poter entrare.

“Non è che lei ci prova. È che io reagisco a tutto.”

E ogni volta che mi sfiorava, mi parlava troppo vicino, mi rideva addosso… io sprofondavo un po’ di più.

Nessun contatto vero. Nessun bacio.

Solo quel gioco bastardo in cui io perdevo sempre.

A un certo punto avevo iniziato a pensarla mentre lavavo i piatti.

Così, senza senso. Le mani immerse nella schiuma e il pensiero fisso a quel giorno in cui aveva appoggiato la sua testa sulla mia spalla durante una riunione noiosa, sbuffando per finta. Solo un gesto da niente, innocente. Ma io l’avevo sentita tutta. Il calore della sua guancia. Il peso leggero della testa. L’odore della sua pelle — dolce, caldo, tipo crema solare e umido di pioggia.

Mi era rimasto addosso per ore.

E quando poi ci pensavo di notte, le fantasie si facevano sempre più sfacciate.

Non era solo il desiderio di baciarla.

Era la voglia di vederla sciogliersi.

Di capire che suono avrebbe fatto, quanto si sarebbe morsa le labbra.

Quanto si sarebbe lasciata fare.

Perché Irene aveva un corpo che sembrava progettato per essere contemplato con le mani.

Il seno grande, pieno, sempre un po’ in risalto sotto quella camicia che portava sbottonata più del dovuto — tanto chi glielo diceva qualcosa?

Il fondoschiena pronunciato e deciso, che si muoveva lento sotto i pantaloni beige regolamentari, che su di lei sembravano disegnati da uno stilista perverso.

E poi le sue cosce. Piene. Forti. Sensuali. Quando si sedeva con le gambe accavallate, la stoffa tirava e lasciava intuire curve che io cercavo disperatamente di ignorare.

Una sera, durante una riunione di reparto, la situazione è degenerata in un modo che il mio cervello sta ancora cercando di processare.

Stavamo sedute su panche di legno, vicine ma non troppo.

Io cercavo di concentrarmi sulla verifica dei turni per l’uscita del mese, mentre lei sembrava non aver alcuna intenzione di collaborare.

“Clara, guarda che hai sbagliato a mettere Andrea di guardia all’alba, quello si sveglia dopo mezzogiorno pure a scuola.”

Aveva detto così, chinandosi su di me per indicare la riga sbagliata sul foglio.

Ma nel farlo…

Il suo seno era finito praticamente sul mio braccio.

Premuto. Morbido. Caldo.

E il suo respiro a pochi centimetri dal mio collo.

“Stai tremando?” aveva sussurrato, a volume così basso che potevo anche essermelo immaginato.

“Fatica.”

“Sempre questa scusa.”

E mi aveva lanciato un sorriso che sembrava un bacio dato con la mente.

Poi, con un gesto lento, aveva incrociato le gambe.

Io l’avevo guardata — per sbaglio, giuro — e avevo visto la stoffa della gonna tirarsi un po’ su sopra la coscia. La pelle liscia, l’incavo del ginocchio, il movimento lento e misurato.

Come se sapesse.

Lei sapeva.

“Ti stai distraendo, Clara. Che succede? È troppo il contatto fisico per te?”

Aveva detto quella frase con tono innocente. Ma bastava guardarle la bocca per capire che non era innocente per niente.

E io, che vivevo da anni con la paura di essere scoperta, improvvisamente avevo desiderato che lei mi sgamasse.

Che mi inchiodasse lì, tra quel desiderio assurdo e la mia stessa vergogna.

Quella notte ho sognato Irene.

Solo la sua voce e le sue mani.

E il modo in cui mi chiamava “Clara, dai…”, con quel tono da chi ha già deciso tutto.

Mi sono svegliata sudata, il cuore impazzito e un peso tra le gambe che non avevo mai sentito così intenso.

E mentre cercavo di calmarmi, ho pensato solo una cosa:

“Se continua così, al campo estivo ci finisco dentro. E non nel modo spirituale.”

Il campo estivo, per chi non lo ha mai fatto, è una roba mistica.

Quindici giorni in mezzo al verde, senza telefono, senza specchi, senza doccia. Solo zanzare, sudore, e tanta, tanta convivenza forzata.

Una squadriglia monta la propria tenda da campo, cucina su due sassi, dorme su tavolacci di legno e si lava nel lago. Un’esperienza che, a detta dei capi, forma il carattere.

A detta mia, lo smonta a picconate e poi ti costringe a rimetterlo insieme sotto il sole cocente con un sorriso.

Ma io, che nel disagio ho sempre saputo galleggiare bene, in fondo lì mi sentivo nel mio elemento.

Correvo, martellavo, tagliavo pali come se fossi nata con una sega a mano in braccio. Clara la caposquadriglia modello, quella che tutti usavano come esempio quando bisognava far vedere come si fa un perfetto nodo parlato sotto la pioggia.

E Irene…

Irene non era da meno.

Anzi.

Lei lo faceva sembrare facile.

Con quella camicia sempre slacciata un bottone in più del dovuto.

Con la pelle ambrata che si scaldava sotto il sole, i ricci raccolti in alto e il seno che si muoveva impercettibilmente sotto il tessuto teso, ogni volta che si chinava a tirare una corda.

E con quelle mani — affusolate, sporche di terra, piene di graffi e segni — che mi si poggiavano addosso molto più spesso di quanto fosse strettamente necessario.

Il secondo giorno, mentre stavo cercando di sistemare la trave della cucina, Irene è arrivata da dietro e ha appoggiato il mento sulla mia spalla. Così, senza chiedere il permesso.

“Hai un odore buono, lo sai?”

Ha sussurrato piano, proprio all’attaccatura del collo.

Il suo respiro mi ha sollevato la pelle.

“Sudore e autan?” ho risposto, per tenere le gambe ferme.

“No, Clara. Proprio tu. Sai di resina e pensieri proibiti.”

Ho sentito una scossa, ma ho riso.

Perché che altro potevo fare?

Prenderla sul serio? Pensare che magari mi stava dicendo qualcosa di vero?

No.

Meglio illudersi con classe, se proprio devo.

Nei momenti liberi, lei mi cercava.

Fingeva di non farlo apposta, ma era sempre nella mia tenda, nella mia cucina, nel mio spazio.

Un giorno si è seduta sulle mie ginocchia.

Letteralmente.

“Oh, scusa, non avevo visto che c’eri tu sotto,” ha detto ridendo, mentre il suo fondoschiena morbido mi schiacciava le cosce.

Io non riuscivo a parlare.

Solo a non morire.

Poi ha aggiunto, piano:

“Comoda però, eh?”

E la sua risata mi è finita addosso come una doccia fredda e bollente insieme.

Perché sì, era comoda.

Troppo.

Aveva curve abbondanti e morbide, e le cosce forti mi circondavano come un abbraccio involontario.

Il tessuto tirava sul suo fondoschiena e la mia mente andava in blackout.

La sera, dopo cena, si metteva seduta con me sul tronco davanti al fuoco e mi raccontava storie inventate.

“E se scappassimo da qui? Solo io e te. In un rifugio sul lago. Niente capi, niente tende, solo vino e pelle nuda.”

Rideva. Sempre rideva.

E io ridevo con lei.

Ma dentro…

Dentro mi stavo innamorando in ogni poro, con un desiderio che mi bruciava tra le gambe.

Mi illudeva?

Probabilmente sì.

Ma in quei giorni sembrava tutto così reale, così vivo, così possibile.

E io, Clara, la brava ragazza, quella perfetta, quella che reprimeva da anni…

Stavo affogando.

Con gioia.

Ci sono luoghi dove il tempo si piega.

Nel campo scout, ad esempio, i minuti si dilatano e le sere esplodono in giornate infinite, fatte di giochi, silenzi, sudore, sguardi e risa fuori posto.

Ogni momento sembra un frammento scollegato, eppure tutto è parte di una tensione costante.

Io non dormivo quasi mai. Ma non per le zanzare.

Irene continuava con i suoi giochi.

Un pomeriggio mi ha beccata nel retro della cucina mentre lavavo le pentole e, senza dire una parola, si è infilata sotto il telo della tenda da campo alle mie spalle.

“Fammi spazio,” ha detto.

E senza aspettare risposta, si è attaccata al mio fianco. Letteralmente, pelle contro pelle, la sua coscia nuda che spingeva contro la mia sotto i pantaloncini corti fradici.

“Hai il sapone ovunque, aspetta che ti pulisco.”

E ha preso il mio braccio.

Ha infilato le dita tra le mie e me l’ha passato sul petto, facendomi schizzare l’acqua sulla maglietta già bagnata.

“Ops,” ha riso, “adesso si vedono i capezzoli.”

Sapeva esattamente cosa stava facendo.

Nel frattempo, i maschi giravano come avvoltoi.

Cinque squadriglie totali. Tre maschili, due femminili.

Io e Irene, capi. Sorelle rivali in un gioco inventato.

E poi loro, le Acquile.

Non erano solo rumorosi: erano molesti.

C’erano leggende su di loro: chi diceva che si facevano le canne nei bivacchi notturni, chi che si erano spinti oltre con una delle ragazze l’anno prima. Nessuno sapeva, nessuno diceva. Ma tutti sapevano.

Il loro caposquadriglia, Kri — che si chiamava Cristian ma aveva deciso che “Kri” era più virile — era il prototipo perfetto del maschio scout. Alto, muscoloso, capelli rasati, camicia sempre sudicia e sbottonata fino all’ombelico.

Sapeva montare una tenda in sei minuti.

Sapeva accendere un fuoco con due rami e un respiro.

Sapeva come farsi odiare in mezzo secondo.

La sua specialità era avvicinarsi alle ragazze con l’aria da chi non ci prova, ma se vuoi ti ci porto io nel bosco.

Le altre cadevano come mosche.

A turno.

Tranne Irene.

Ed era questo che lo faceva impazzire.

Una sera, Kri si è seduto accanto a noi al fuoco.

Io, ovviamente, già rossa solo per avere Irene troppo vicina. Lei con le gambe accavallate, maglietta annodata sopra l’ombelico, occhi puntati al cielo e labbra sempre in movimento.

Kri l’ha squadrata da capo a piedi.

“Ehi, tu… sei sempre in coppia con la Clara? Vi muovete come se foste fidanzate.”

Rideva.

Ma non era una battuta.

“Meglio una ragazza sveglia che un maschio rincoglionito,” ha risposto Irene, senza neanche guardarlo.

Poi, voltandosi verso di me:

“A proposito, stanotte tenda mia o tenda tua?”

Kri è rimasto muto per due secondi. Poi ha sputato a terra.

Le altre ragazze hanno riso.

Io ho riso.

Poi ho tossito.

Poi mi è mancato il fiato.

Irene si era appoggiata a me, il braccio che sfiorava il mio petto, come se niente fosse.

E io sentivo il suo odore, sentivo la sua pelle, sentivo tutto.

E non capivo niente.

La verità è che Irene faceva queste cose con una leggerezza assurda.

Ti accarezzava il ginocchio mentre parlava con un’altra. Ti toccava i capelli dicendo che hai un nodo. Ti diceva che sei carina, ma che sei più carina quando stai zitta.

La verità è che la sua sensualità era ovunque.

Ma non era mai chiara.

Mai esplicita.

Solo… insinuata.

Come il sospetto.

Come il desiderio.

Come l’illusione che qualcuno potesse davvero vedere in te quello che tu hai sempre nascosto al mondo.

Alla fine della prima settimana, i nostri corpi iniziavano a portare i segni della fatica. Le mani callose, le ginocchia sbucciate, le occhiaie scavate come trincee.

Ma io non dormivo per tutt’altro motivo.

O meglio: lei.

Irene.

I giochi erano diventati una lingua in codice, fatta di sorrisi accennati e dita che sfioravano dove non dovevano. Ogni sguardo un doppio fondo.

Ogni gesto una trappola.

Quella sera eravamo rimaste sole nel piazzale. I maschi già rientrati, le altre chiuse nelle tende, i capi lontani nel loro angolo sacro di caffè e silenzio.

Io e lei stavamo preparando il materiale per l’attività del giorno dopo: corde, cartelloni, bussola, sacchi.

La frontale di Irene illuminava appena i suoi tratti. Labbra secche che inumidiva ogni tanto, occhi lucidi, la maglietta bianca aderente che lasciava trasparire tutto sotto la luce sparata. Aveva piegato le maniche, e quando si chinava… be’, c’era da maledire l’universo per avermi dato occhi e cuore insieme.

“Oh, mi scappa tantissimo,” disse all’improvviso, lasciando cadere la corda a terra.

“Mi accompagni?”

Io non risposi nemmeno. Annuii. Come un cane ben addestrato.

Ci addentrammo nel boschetto appena fuori dal campo, a pochi passi dal perimetro dove nessuno sarebbe mai venuto a disturbarci.

Lei si fermò e si voltò.

“Tieni la luce, va’. Ma non guardare.”

Rideva.

“Anzi, se guardi… almeno goditi lo spettacolo.”

Aveva già abbassato i pantaloncini, lenta, come se si divertisse a farlo con teatro.

L’elastico scivolava piano sulle sue cosce. La mutandina con un pizzo minuscolo e scuro si tese per un secondo e poi cadde anch’essa, leggera, sul ginocchio.

Le gambe piegate, i glutei sodi esposti alla luna e alla mia sanità mentale.

Io con la torcia in mano, tremavo.

“Dai, mica ti sei bloccata?”

Si era pulita con un fazzoletto, e mentre si rialzava si voltò di lato, dandomi in pieno il profilo del seno scoperto sotto la canotta.

“Tua madre lo sa che sei così brava a tenere la luce ferma mentre una si abbassa le mutande?”

Io tossii.

Mi girai.

Finsi di sistemarmi i capelli.

Avrei voluto strapparmi via la pelle per quanto sentivo il sangue battere forte ovunque.

Quando mi raggiunse, non disse nulla.

Camminò al mio fianco in silenzio. Poi, quando tornammo vicino alla nostra tenda, all’improvviso mi bloccò per un braccio.

“Sei sempre così rossa? O è solo con me?”

Il cuore si fermò. Letteralmente.

Mi fissava da vicino, i suoi occhi verdi profondi e irriverenti. Il suo fiato caldo sulla mia guancia.

Poi, abbassò lo sguardo. E senza alcun preavviso…

Mi toccò il fianco, la maglietta, passò sotto, sfiorandomi la pelle nuda.

Le sue dita fredde, rapide, salirono appena sopra l’elastico dei miei pantaloncini.

“Hai la pelle d’oca. Fa freddo?”

La sua voce era un sussurro. Ma io la sentii ovunque.

Provai a rispondere.

“Non… non lo so.”

E lei… sorrise.

Poi appoggiò la mano sulla mia pancia e fece scivolare appena le dita verso il basso. Nulla di veramente sessuale, ma il gesto… il gesto era una promessa non detta.

“Dovresti imparare a rilassarti, Clara. Sembri sempre pronta a scappare. Ma da cosa, esattamente?”

Mi si ruppe qualcosa dentro.

La guardai.

Aveva la bocca piegata in quel mezzo sorriso da strega, quello che sa che ti ha già vinto.

Ma non disse altro.

Fece un passo indietro, e mi lasciò lì.

Con la pelle in fiamme, la testa piena di immagini e la consapevolezza che, sì, Irene mi stava portando in un posto pericoloso.

E io… ci andavo a braccia aperte.

Quella notte non voleva finire.

Dopo il momento nel bosco, non riuscii a chiudere occhio. Continuavo a rigirarmi nella tenda, la pelle ancora bruciava dove Irene mi aveva sfiorato.

Mi alzai, scalza, e uscii. Il campo dormiva, finalmente.

E naturalmente… la trovai lì. In riva al lago.

Seduta sul pontile, con le gambe penzoloni e una canotta leggera che lasciava scoperto tutto ciò che avrebbe dovuto essere vietato per legge. I capelli ancora un po’ bagnati dalla doccia del giorno prima, raccolti a caso.

Aveva l’aria di chi è padrona del mondo.

“Non riuscivi a dormire, eh?”

La sua voce era quieta, eccessivamente quieta.

“Nemmeno tu,” risposi, sedendomi accanto a lei.

“Smettila di fissarmi così o ti butto giù.”

“Non sto fissando.”

“Stai fissando.”

Rise. Mi spinse con la spalla. Io risi, ma il cuore stava impazzendo.

Le sue cosce nude sfioravano le mie.

E a ogni movimento, quella maledetta canotta si alzava, mostrando più pelle, un angolo del seno, la curva dolce dell’anca.

Io stavo impazzendo. E lei lo sapeva.

“Sai che hai delle spalle assurde?” disse all’improvviso, con un tono volutamente languido. “Tipo… da film. Mi fanno venire voglia di arrampicarmi sopra.”

Io tossii. Non era una battuta casuale.

Le risposi con un sorriso storto.

“E tu… hai un seno da denuncia. Dico davvero. Non è normale che esista.”

Lei scoppiò a ridere.

“Ah! E quindi? Ti eccito, Clara?”

La frase mi prese a schiaffi.

Non come una battuta, non come uno scherzo: come una sfida.

“Un po’ troppo, direi,” sussurrai, senza pensarci.

E lei non disse niente. Si voltò solo verso di me.

Il suo sguardo… era indecifrabile. Come se stesse valutando qualcosa.

“Fammi vedere quanto,” disse poi.

Silenzio.

Il mondo si fermò.

Il lago smise di muoversi. Le cicale tacquero. Persino la luna smise di guardare.

Mi voltai verso di lei.

Mi avvicinai.

E quando vidi che non si scostava, quando la vidi mordicchiarsi il labbro… persi il controllo.

Le presi il viso tra le mani e la baciai. Lenta. Con la fame di anni.

La bocca morbida, calda, inizialmente… non resistette.

Sentii le sue labbra muoversi appena contro le mie.

E poi le mie mani si spostarono sul suo corpo, scesero lungo i fianchi, finché lei non si trovò sdraiata sul legno del pontile, e io sopra.

Il bacio divenne più profondo. Le sue gambe si piegarono leggermente, la sua pelle contro la mia.

Una mano – la mia – sfiorò il bordo della sua canotta.

E fu lì che successe.

“Clara. Clara, no.”

Fu come svegliarsi da un sogno.

Lei mi aveva spinto via, con forza. Gli occhi spalancati.

“Ma che cazzo stai facendo?!”

Mi bloccai.

La guardai, il cuore in gola, i sensi confusi.

“Tu… mi hai detto…”

“Io non ti ho detto niente! Stavamo scherzando. Era un gioco! Ma che, davvero ci hai creduto? Clara, io non sono lesbica.”

Fu uno schiaffo, ma senza mani.

Mi allontanai, confusa, umiliata, come se avessi fatto qualcosa di sporco.

“Ma… mi toccavi… mi provocavi…”

“È così che scherzo io. Non pensavo fossi così sensibile. O così…”

Tacque.

“Mi dispiace, ma… ti sei fatta un film. Un film grosso.”

Si alzò, sistemò in fretta la canotta, e mi lasciò lì.

Come se niente fosse successo.

E io, con le mani che tremavano, lo sguardo perso sul lago e il cuore a pezzi… capii.

Mi avevano fregata.

Ancora.

E peggio di chiunque altro, lo aveva fatto proprio lei.

Il giorno dopo, il sole sorse come se nulla fosse.

Ma per me… era cambiato tutto.

Non avevo neanche bisogno di aprire gli occhi: sapevo già che lo sapevano tutti.

Le facce mi dicevano tutto. Gli sguardi. I silenzi. Le risatine strozzate. Le spallucce forzate dei capi. Il modo in cui nessuno si avvicinava più a me.

Irene non mi rivolse nemmeno uno sguardo.

Anzi, sembrava felice di stare con le altre.

Rideva. Parlava ad alta voce. Faceva la parte della reginetta. E mentre io mi sforzavo di non guardarla, lei sembrava fare apposta a lanciarmi occhiate veloci. Non per pietà. Per veleno.

Ma la vera merda… iniziò dopo colazione.

“Scusate, ma non può dormire più in tenda con noi,” disse una della mia squadriglia ai capi.

“Abbiamo paura. Non ci fidiamo. È… una molestatrice.”

“Una molestatrice.”

Quella parola mi si conficcò nel petto come un chiodo arrugginito.

La stessa tenda che avevo montato io, sotto il sole a picco, in prima linea.

Le stesse ragazze che avevo aiutato, guidato, protetto in tutti questi anni…

Erano lì. A dire che avevano paura di me.

Di me, che le avevo sempre guardate con rispetto, che avevo nascosto ogni cosa, anche a me stessa, per non metterle a disagio.

Ed ero io il pericolo.

Io il mostro.

I capi… si guardarono tra loro.

Fecero quei soliti sorrisetti finti, da adulti che non sanno dove mettere le mani.

“Parliamone, magari troviamo una soluzione… temporanea.”

E così, in meno di ventiquattro ore, ero passata da caposquadriglia amata e stimata a problema logistico da risolvere.

Non bastava.

No.

Le altre squadriglie avevano già iniziato a sussurrare, a indicare.

Alcune ridevano.

Le Aquile – i soliti stronzi – mi fissavano apertamente, con quella faccia da “lo sapevamo”.

Kri, ovviamente, fu il primo a ridere a voce alta.

“Oh, ma allora è vero che volevi provarci con Irene! Guarda che se ti servono consigli con le ragazze… io sono disponibile.”

Risate.

Avrei voluto scomparire.

Dissolvermi tra i pini, tornare a casa, diventare aria.

Ma mancavano ancora sette giorni. Sette lunghissimi, interminabili, umilianti giorni.

E io non potevo mollare.

Non per mia madre.

Non dopo tutti quegli anni passati a far finta di crederci, a cantare “La strada è la stessa per tutti” mentre io percorrevo la mia da sola, tra fango e spine.

Irene?

Peggio di tutte.

Aveva preso il posto delle altre in fretta.

Mi guardava con quegli occhioni da cerbiatta, pieni di finta innocenza, e ci rideva sopra.

“Io? Ma stava scherzando, ragazzi. Ha frainteso tutto. Non è colpa mia se lei ci ha creduto. Forse era malata…”

Il colpo finale.

Malata.

E tutti ridevano.

Ridevano come se fosse una barzelletta. Come se non fossi una persona.

Come se l’unica cosa che contasse fosse l’intrattenimento estivo al campo.

Mi nascosi.

Mi chiusi in me stessa.

Evitai tutti.

Mi sedevo lontana, alle attività parlavo solo quando obbligata.

E di notte, dormivo fuori, sulla brandina che mi avevano lasciato nel tendone delle attrezzature.

Come un cane. Come un mostro.

E in quei momenti, da sola, con il vento che passava tra le lamiere e il rumore dei moscerini che mi ronzavano vicino, lo capii.

Avevo fallito.

Avevo tenuto tutto dentro per anni, avevo represso, nascosto, taciuto…

E nel momento esatto in cui avevo provato a essere me stessa…

Il mondo aveva fatto a pezzi la mia anima.

Le due notti successive le passai da sola in una tenda che nessuno aveva mai usato.

Una di quelle da usare solo se proprio si rompe tutto il resto.

E a quanto pare… io mi ero rotta.

Era piccola, maleodorante di muffa e plastica vecchia.

Il telo superiore era bucato e quando pioveva – come ogni cazzo di pomeriggio a quel campo – mi finiva l’acqua sul materassino.

Mi sentivo un sacco della spazzatura abbandonato lontano dal resto.

Non parlavo con nessuno.

La mia squadriglia aveva chiesto ai capi di farmi dormire da sola.

Per “paura”.

Clara la molestatrice. Clara la deviata. Clara la porca.

Non era più un campo scout. Era un processo pubblico.

E Irene?

Irene rideva. Con tutti.

Con le ragazze, con i maschi, con le caposquadriglie delle altre.

Una come lei sa come sopravvivere, come uscire pulita da ogni merda.

Aveva fatto di me un mostro e se ne stava tranquilla a giocare coi suoi capelli mentre rideva con uno dei capi.

Io invece marcivo.

Non dormivo.

Non mangiavo.

Guardavo il vuoto e mi facevo domande inutili.

Che cazzo avevo fatto?

Com’era possibile che avessi letto così male ogni segnale?

Possibile che fosse tutto finto?

Forse sì.

Forse io avevo solo voluto crederci.

E poi c’era mamma.

Che continuava a vivere nella mia testa.

Con quello sguardo fiero, con quelle frasi da bacheca scout, con quel maledetto senso di orgoglio materno che mi stava strangolando.

Non volevo spezzarle il cuore.

Non ancora.

Quella seconda notte… non ce la feci.

Mi alzai.

Sudata, agitata.

Avevo il cuore gonfio e la testa satura.

Aprii la zip della tenda. Il telo fece crrrack. Un suono stridulo, perfetto per il mio umore.

Fuori era umido, silenzioso.

La rugiada brillava sull’erba e la luna sembrava lì solo per ricordarmi quanto fosse tutto più grande di me.

Camminai, scalza, verso la radura. Verso il lago.

Avevo bisogno di respirare.

Avevo bisogno di non sentire quella puzza di colpa che mi era rimasta attaccata addosso.

Mi stesi sull’erba e guardai le stelle.

Per la prima volta in giorni, non piansi.

Solo vuoto.

“Bel cielo stanotte.”

La voce mi fece sobbalzare.

Mi voltai di scatto.

Lui era lì.

Kri.

Seduto su una coperta, con una felpa slacciata, le gambe allungate davanti, un sorrisetto di quelli da bullo redento – o forse no.

“Tranquilla, non mordo,” disse. “Solo se me lo chiedi.”

Alzai gli occhi al cielo.

“Grande. Il molestatore che fa battute sulla molestatrice. Ironico.”

Kri rise. Una risata vera, calda, quasi… umana.

Non sembrava il solito stronzo.

“Senti… non ho mai creduto a quella roba, sai?”

“No?”

“No. Irene gioca con tutti. Ma quando giochi con una come te… ti scotti. Sei troppo vera, e la gente si spaventa.”

Lo guardai. Non sapevo se stesse dicendo stronzate o se ci fosse un fondo di verità.

Forse entrambe.

“Sai,” disse ancora, “anche noi Aquile ci portiamo addosso storie brutte. Ma le storie sono solo storie, no? Dipende da cosa ci fai dentro.”

Io lo fissai.

Non avevo voglia di parlare, ma restai lì.

Perché in quel momento… era l’unico che non mi guardava come un mostro.

“Ti va di restare un po’?”

“Solo se non parli troppo.”

“Affare fatto.”

Ci sedemmo.

Vicini.

Con le mani nell’erba fredda e le ferite ancora aperte.

Io, Clara, seduta accanto a Kri.

La notte mi avvolgeva.

E in quel buio, per la prima volta… non ero sola.

Kri non era il classico caso del cazzone arrogante che in fondo ha un cuore.

No.

Era proprio un cazzone arrogante, punto.

Eppure, in quella notte umida, mentre il mio cervello galleggiava tra il sonno e l’ansia, avevo lasciato che mi parlasse.

Due chiacchiere senza peso.

La scuola, i capi, quanto facevano schifo le cucine da campo.

Rideva forte, sempre un po’ troppo.

Ogni battuta era uno show, ogni frase un modo per mettersi al centro.

E piano piano si avvicinava.

Millimetri alla volta.

Fino a che il suo ginocchio toccava il mio.

Fino a che non guardava più le stelle, ma me.

Mi colse di sorpresa quando lo fece.

Diretto.

Fisico.

Come se fossi una cosa da afferrare, non una persona.

Mi si gelò il sangue.

Non era paura.

Era… disprezzo. Per lui. Per me. Per tutto.

Il problema era che…

a me il cazzo non piaceva.

Mai piaciuto.

Eppure restai ferma.

Pensai — sì, cazzo, ci pensai —

che se mi lasciavo toccare, se lo facevo con lui, magari poi lo avrebbe raccontato a tutti.

Magari sarei stata “quella che ci sta col capo delle Aquile”.

Non più la molestatrice.

Non più la lesbica.

Solo una ragazza un po’ troia. E quella, in confronto, era quasi una promozione.

Così mi lasciai toccare.

Le sue mani si infilarono sotto la felpa.

Non avevano alcun rispetto. Nessun dubbio.

Mi tastava come se stesse cercando qualcosa che gli spettava di diritto.

Chiusi gli occhi.

Pensai a qualsiasi altra cosa.

Alle stelle sopra di me.

Alla voce di mia madre che cantava le canzoni del fuoco.

Alle mani di Irene.

Alle sue battute. Alla sua bocca.

Mi sentii svuotata.

Violata, ma consenziente.

Un paradosso perfetto.

Un suicidio morale con il sorriso finto sulle labbra.

Lui si fermò un attimo.

“Va tutto bene?”

Mentii.

“Sì.”

Non lo volevo.

Ma volevo che tutti gli altri lo sapessero.

E quella era l’unica lingua che sembravano capire.

Non c’era luna, quella notte.

Solo il nero denso delle fronde sopra di noi e il rumore sporco del lago lì vicino.

Lui era sopra di me.

Con quella sicurezza da bullo che non chiede mai permesso.

E io… io ero immobile.

La pelle tesa, la mente spenta, il cuore chiuso in una scatola.

Kri mi abbassò la felpa, poi la maglietta, come se gli spettasse.

Aveva mani grandi e calde, troppo abituate a fare e disfare tende, troppo abituate a possedere.

Mi guardava come si guarda qualcosa di inatteso.

Non bello. Non brutto. Solo accessibile.

Le sue labbra iniziarono a cercarmi.

Prima il collo, poi la clavicola.

Ogni suo bacio era umido, rumoroso, troppo.

Scivolava giù come una lingua su un gelato, ma non c’era dolcezza.

Solo il suo desiderio. Solo la sua fame.

Quando arrivò al seno, esitò appena.

“Wow…”

Sussurrò qualcosa, come se stesse scartando un regalo.

Lo prese in mano. Lo baciò, lo leccò.

Ci mise passione, o qualcosa che ci somigliava.

Io restavo lì, con gli occhi aperti fissi sul cielo.

Mi leccava il ventre, lentamente, come se stesse lasciando la sua firma.

Ogni gesto era intimo, carnale.

E io?

Non ero presente.

Mi lasciavo spogliare.

Mi lasciavo toccare.

Mi lasciavo usare.

Lo facevo per sopravvivere, in quel modo distorto che impari solo quando capisci che nessuno ti verrà a salvare.

Avrei potuto fermarlo.

Avrei potuto urlare, chiuderlo fuori dal mio corpo.

Ma non l’ho fatto.

Perché volevo vincere.

Volevo ribaltare la narrazione.

Volevo che Irene sentisse le voci.

Che le squadriglie dicessero “Allora Clara è normale”.

Volevo annullarmi, pur di tornare a essere invisibile.

Le sue mani iniziarono a muoversi tra le mie gambe senza alcuna esitazione.

Ruvide, veloci, affamate.

Non c’era tenerezza, nessuna attenzione. Solo dita che spingevano, che strofinavano, che cercavano una reazione.

E il mio corpo, vigliacco, la diede.

Un fremito. Un sussulto che non veniva da me, non dalla parte cosciente. Era carne che rispondeva a uno stimolo come un cane addestrato.

Mi vergognai subito.

Ma non lo fermai.

Lui ci sapeva fare, in modo rozzo, volgare.

Trovava i punti, insisteva, spingeva.

A occhi chiusi riuscivo quasi a immaginare che non fosse lui.

Che fossero altre mani. Mani che desideravo. Le sue mani.

Sentivo i respiri spezzati, le sue frasi sussurrate tra i denti.

“Ti piace, eh… si vede…”

Sussurrava mentre mi infilava due dita dentro senza preavviso.

Forte.

Troppo.

Mi morse un capezzolo, poi l’altro.

Il mio seno esposto tremava tra i suoi palmi sporchi.

Mi mordevo le labbra per non urlare: non di dolore, ma per la rabbia di godere anche solo un po’.

Non lo volevo.

Ma il mio corpo era una puttana senza controllo.

Poi si stancò.

Lo vidi spogliarsi, come se fosse il suo turno e basta.

Il suo membro era duro, palpitante, esibito come una medaglia.

Mi chiese,

“Sei vergine?”

Annuii appena, gli occhi persi nel vuoto.

Lui rise piano.

“Allora lo faccio piano, promesso.”

E senza aspettare altro, lo sentii poggiare su di me.

Si strofinò contro l’ingresso del mio corpo, bagnato solo dal lavoro rude delle sue dita.

Poi spinse.

Forte.

Un solo colpo.

Un dolore acuto mi fece stringere i denti.

Mi attraversò come un taglio improvviso.

E lui… gemette.

“Sei strettissima…”

Mi prese le anche, mi tirò verso di sé, ricominciò a muoversi.

Io chiusi gli occhi, forte.

Pensai a Irene.

Alle sue mani. Alla sua bocca.

Allo sguardo che mi aveva incantata e poi uccisa.

Forse bastava questo.

Forse, dopo, nessuno mi avrebbe più chiamata quella lì.

Forse, domani, sarei tornata normale.

Ma quella notte, qualcosa dentro di me si era rotto per sempre.

I movimenti di Kri erano decisi, rozzi, come se stesse cercando di dimostrare qualcosa. Ogni suo affondo sembrava voler scavare dentro di me una risposta che non sapevo dare. Ero lì, immobile, con il respiro che si rompeva a tratti e il corpo che sembrava andare per conto suo. Ogni tanto gemevo, piano, senza sapere se per dolore o per confusione.

Sentivo le sue mani sulle mie anche quando non c’erano, come se mi stesse marchiando. Il suo bacino si muoveva con un ritmo impaziente, costante, mentre la sua voce bassa e strozzata si spezzava in respiri sempre più corti. Io stringevo le dita sull’erba, affondavo le unghie nella terra. Non volevo guardarlo. Non volevo sentire il suo odore, ma era ovunque. Eppure… il mio corpo rispondeva. Forse per reazione, forse per bisogno di dimenticare Irene, di essere diversa da come mi ero sempre sentita.

Una scossa mi attraversò la pancia, le gambe, come un sussulto violento e improvviso, mentre lui accelerava. Chiusi gli occhi, trattenni il fiato. Non era piacere, non era amore, non era niente di quello che avevo sognato. Ma qualcosa si liberò dentro di me, come un vuoto che diventava ancora più vuoto subito dopo.

Lui si fermò di colpo, ansimando forte, e con un ultimo affondo si lasciò andare. Il suo peso mi schiacciò per un attimo, poi si tirò via, lasciandomi lì con le cosce indolenzite, la pelle ancora calda, e una strana umidità addosso.

Rimasi lì, stesa sulla schiena, le gambe ancora aperte, il fiato spezzato e il petto che si alzava piano, come se stessi cercando di tornare in me. L’erba umida sotto la schiena era fredda, ma la pelle ancora bolliva. Non era calore, era qualcosa di più sporco, più scomodo — un misto di sudore, vergogna, e un piacere strano, meccanico, che ancora mi pulsava tra le gambe.

Kri si stava rivestendo in silenzio. Io non mi mossi, non ancora. Chiudevo gli occhi e cercavo di sentirmi diversa. Normale. Giusta.

Durante il rapporto, c’era stato un momento — solo uno — in cui il mio corpo aveva tremato davvero. Quando le sue mani avevano premuto le mie cosce verso il basso e lui aveva accelerato, sempre più forte. Era come se il suo ritmo cercasse di impormi un nuovo confine, riscrivere quello che ero.

Avevo stretto le labbra, avevo lasciato che la gola mi si riempisse di un gemito che non sapevo se volessi uscisse davvero. Non era dolcezza, non era condivisione: era rumore. Era carne.

Quando il mio corpo aveva scosso un sussulto breve e disordinato, avevo capito che l’orgasmo era arrivato, piccolo e senza volto, come una reazione del tutto separata da me. Kri forse se ne era accorto, o forse no. A quel punto sembrava pensare solo a sé. Si era teso sopra di me, aveva sussurrato qualcosa di sconnesso, poi si era lasciato andare. Sentii il suo peso abbandonarsi addosso, caldo, umido, pesante.

Mi venne da chiudere le gambe, da proteggermi, ma era tardi. Il suo fiato caldo sulla mia pelle svanì in pochi secondi. E io rimasi lì.

Con il battito che tornava piano, con la pelle ancora troppo viva, e con un pensiero solo:

“Adesso sono normale, giusto?”

Solo che non lo ero. E non mi sentivo nemmeno più io.

La voce si era sparsa come si sparge sempre tutto, in posti così. Non so chi parlò per primo, ma in meno di due giorni la storia era ovunque. Non servivano nemmeno i dettagli — bastava dire che io e Kri avevamo fatto sesso, ed ecco che all’improvviso non ero più la molestatrice. Ero diventata, per gli altri, una che si era fatta il capo delle Aquile.

E Irene… Irene era diventata la bugiarda.

C’era chi diceva che fosse gelosa, che volesse solo mettermi in cattiva luce. C’era chi raccontava che lei ci stava provando con me, e che io l’avevo respinta. C’era chi non diceva niente, ma iniziava a guardarmi con un misto di rispetto e curiosità. Alcuni maschi mi facevano battutine, altre ragazze mi sorridevano con un’accettazione improvvisa, ipocrita, inutile.

Ma a me non fregava più.

Quello che era successo non mi aveva resa più forte, né più libera. Non avevo vinto niente. Avevo solo perso — la mia ingenuità, la mia voglia di stare lì, la mia Clara di prima.

Irene non mi parlava. Nemmeno mi guardava. Ogni tanto la vedevo a ridere con gli altri, a scherzare con Kri, come se niente fosse. Come se io fossi stata solo una parentesi sbagliata nel suo campetto perfetto.

E io?

Io facevo tutto meccanicamente. Alzavo tende, cucinavo, guidavo la mia squadriglia. Non parlavo quasi più. Mi ridevano dietro, poi mi applaudivano, poi tornavano a parlare di qualcun altro. Tutto come sempre.

La sera dell’ultimo fuoco, quando tutti piangevano e si abbracciavano, io ero seduta lontana. Guardavo le fiamme, il cielo, e mi chiedevo se sarei mai riuscita a dimenticare. Non solo Irene. Non solo Kri. Ma quel vuoto che mi portavo addosso da quando avevo ceduto per salvarmi. Da quando avevo scelto di essere creduta, anziché essere me stessa.

Il campo finì. Il reparto anche.

Non piansi. Non salutai nessuno. Me ne andai con lo zaino sulle spalle e una ferita che nessuno vedeva.

Io non ero più la stessa.

E forse, non lo sarei stata mai più.