È solo per allenamento
Capitolo 1 - Assenza di intimità

Le sue mani si muovevano piano, quasi tremando.
Io cercavo di non sembrare troppo impaziente, ma il cuore mi batteva forte e lo sapevo che lei lo sentiva. Era seduta sopra di me, sulle mie gambe, i suoi jeans strusciavano sui miei, la bocca calda che mi baciava con una fame a cui non mi ero mai abituato.
Chiara era bella in modo complicato. La bellezza che non ti sbatte in faccia, ma che ti resta dentro.
I capelli scompigliati, le guance rosse, la voce bassa quando diceva il mio nome.
“Mi fai impazzire, Ale,” aveva sussurrato.
E io ci avevo creduto. Ogni singola volta.
Le mie mani erano sotto la sua felpa, sentivo il reggiseno sottile, il calore della pelle. Le sue dita si stringevano sulle mie spalle, e il bacino… il suo bacino si muoveva.
Era lei a guidare, stavolta. Lei sopra di me, nel sedile reclinato della macchina, col vetro appannato dalla nostra fretta.
Poi succedeva sempre.
Il momento in cui qualcosa cambiava.
“Fermo…”
La sua voce era ancora dolce. Quasi un sussurro. Ma era ferma.
“Scusami, amore. Non… non riesco ancora.”
Si era appoggiata a me, la fronte sulla mia spalla, respirando piano.
Io avevo annuito, come sempre.
Avevo fatto il bravo ragazzo, come sempre.
Le avevo baciato i capelli, stretto le mani, detto che non importava.
Come sempre.
E intanto… dentro… bruciavo.
⸻
La voce di Luna mi riportò sulla Terra.
“Ora, scusa se lo dico… ma sei davvero il tizio più paziente del mondo, oppure sei semplicemente coglione?”
Alzai gli occhi. Lei era sdraiata a pancia in giù sul letto, con i piedi che si muovevano nell’aria e il mento appoggiato sulle braccia incrociate.
Rideva. Ma solo a metà.
“Sì, ok,” dissi, lanciandole un cuscino. “Ridi pure. Ma tu non la conosci, Chiara è… diversa. È insicura, e io non voglio metterle pressione.”
“Insicura? Ale, vi limonate in macchina come se foste al cinema a luci rosse. E poi appena le sfiori la pelle vera… puff, blocco. Tu stai diventando scemo.”
“Non è così semplice,” mormorai, massaggiandomi la nuca. “Ci tengo. E voglio aspettarla.”
“Sì, e intanto esplodi. Hai gli ormoni che ti urlano in faccia, lo vedo.”
Luna si sollevò appena, con quel sorriso da gatta che mi conosceva troppo bene.
“E quindi? Niente petting serio? Niente mano tra le cosce? Niente sesso orale, né dato né ricevuto?”
“Ti sembra il caso di fare l’elenco dettagliato?”
“Per favore,” disse lei, scrollando le spalle. “Siamo amici. Io voglio solo aiutarti. Magari il problema non è lei. Magari… sei tu.”
La guardai.
E lei sorrise.
Quel sorriso che veniva sempre prima dei casini.
“Comunque,” disse Luna con tono finto serio, “mi deludi, Ale. Uno come te dovrebbe farle perdere la testa, non farla scappare appena ti togli il maglione.”
Sbuffai. “Ma senti da che pulpito.”
Lei si mise seduta sul letto, incrociando le gambe sotto al pigiama largo e sformato che sembrava scelto apposta per negare qualsiasi forma di erotismo. Ma con Luna, anche l’assenza di malizia era… malizia.
“Guarda che il sesso è anche questione di sicurezza. Se tu sembri il primo della classe che chiede il permesso per toccare una tetta, è normale che lei si blocchi.”
“Scusa se non tutte fanno seminari di educazione sessuale alle medie,” dissi, sarcastico.
Lei rise. Poi mi guardò per un secondo più del solito.
“Magari ti serve solo un po’ di… allenamento.”
Stava per aggiungere qualcosa, ma la sua voce si perse mentre il sole del pomeriggio filtrava dalla finestra.
Era uno di quei momenti strani in cui tutto sembrava rallentare. E io, che con Luna ci passavo quasi ogni pomeriggio da anni, in quel preciso istante… la vidi davvero.
La sua pelle chiara, segnata da qualche lieve lentiggine, risaltava sotto la luce dorata.
I capelli castani, mossi e morbidi, le cadevano sulle spalle con quella naturalezza che non aveva bisogno di essere sistemata.
Il viso… be’, Luna aveva sempre avuto quel viso che sembrava sorridere anche da serio. Con quegli occhi grandi, castano scuro, sempre pieni di qualcosa. Di voglia di vivere, di sfida, di sarcasmo. Di lei.
Il suo fisico era semplice, ma ogni dettaglio sembrava calibrato per farti perdere un battito.
Il seno piccolo, delicato, quasi da proteggere. La pancia piatta, le gambe sinuose incrociate con nonchalance, e quel fondoschiena perfetto, rotondo, naturale, che quando camminava davanti a me per strada sembrava voler dire “so di essere carina, ma mica è colpa mia se mi guardi”.
Ed era vero.
Lo sapeva di essere carina.
E io lo sapevo di guardarla un po’ troppo spesso.
Eravamo cresciuti insieme. Dalle elementari alle medie, dallo scambio di figurine alle confidenze sui primi baci, dalle gite scolastiche ai pigiama party.
Lei era la persona con cui mi sentivo davvero io. Quella con cui parlavo senza filtri, ridevo per niente, e trovavo sempre rifugio quando il resto del mondo diventava troppo.
Ma in quel momento… non era solo Luna.
Era qualcosa di più.
Era quella sensazione che ti fa scorrere un brivido lungo la schiena, anche se non è successo ancora niente.
Lei se ne accorse.
Mi guardò di lato, sorridendo appena.
“Che c’è? Sei diventato muto?”
“Stavo solo… pensando,” mormorai.
“Attento, eh. Che da pensare a voler infilare le mani sotto il pigiama è un attimo.”
Lo disse scherzando.
O forse no.
l’altra ragazza di cui parlavo invece era Chiara, la mia fidanzata.
Stavamo insieme da poco più di tre mesi, ma sembrava di averla desiderata da una vita.
Io e Chiara ci eravamo piaciuti subito, anche se ci eravamo girati intorno per mesi. Occhiate timide, messaggi criptici, qualche battuta ambigua. Poi, all’improvviso, il salto. Una sera, durante una festa, mi aveva preso per mano e baciato con una dolcezza che mi aveva lasciato stordito. E da lì era cominciato tutto.
Chiara sembrava incarnare una dea della bellezza.
Non esagero.
Ogni volta che la guardavo, mi sembrava impossibile credere che stesse con me.
Alta e formosa, aveva un fascino magnetico, qualcosa che la rendeva impossibile da ignorare.
Il viso perfettamente liscio, con guance rosee sempre fresche e quel sorriso appena accennato che sembrava dirti “so di essere bella, ma non ci bado più di tanto”.
Le labbra a cuore, morbide e piene, erano di quelle che volevi baciare piano, con rispetto, come se fosse un privilegio. Ma era con gli occhi che ti fregava davvero: verdi, profondi, seducenti, nascosti dietro un paio di occhiali che le davano un’aria intellettuale, quasi timida.
Eppure, dietro quella lente c’era un’anima selvaggia, e lo sentivo.
Lo vedevo.
Il naso un po’ grande le dava un fascino autentico, unico, qualcosa che la rendeva vera, viva.
E i suoi capelli biondi, mossi, che cadevano sulle spalle, con quella ricrescita castano scuro che lasciava intuire una ribellione silenziosa.
Come se dentro, Chiara stesse combattendo qualcosa.
Qualcosa che non riusciva ancora a lasciar uscire.
Il suo corpo…
Era una sinfonia di curve.
Il seno enorme, tondo, sodo, che sembrava combattere con ogni maglia troppo attillata.
Le cosce piene, da perdercisi, e un fondoschiena tonico e provocante che ogni volta mi faceva venir voglia di stringerla più forte.
Eppure, era proprio quando pensavo a tutto questo che la frustrazione si faceva sentire.
Perché Chiara… non si lasciava andare.
Era insicura. Molto più di quanto il suo corpo lasciasse pensare.
Aveva paura di non piacere davvero. Di non essere “brava”. Di deludere.
Ogni volta che provavamo a spingerci oltre, lei si chiudeva.
Mi accarezzava il viso, mi baciava piano, mi diceva che mi amava.
Ma il corpo lo tratteneva.
E io… io ci stavo male.
Ma la amavo.
E ogni volta pensavo che forse bastava aspettare.
«Quindi ti ha stoppato sul più bello?»
Luna si era accovacciata sul divano con le gambe nude piegate sotto il suo pigiama corto, un vecchio maglione largo che lasciava intravedere la spalla e mezza coscia. I suoi capelli castani erano ancora arruffati, gli occhi svegli ma pigri, come se si stesse ancora godendo il calore delle coperte.
«Non è che mi ha stoppato…» provai a spiegare mentre le porgevo il cappuccino che le avevo portato.
«Ah no? E com’era? Una pausa tecnica? Time-out per eccesso di zuccheri?»
Mi guardava con quel suo sorrisetto di chi si diverte troppo a tormentarmi.
«Era solo… dolcezza. Cioè, non è facile per lei. È insicura. Ci tiene. Vuole andarci piano.»
Luna sbuffò, affondando le labbra nella schiuma del cappuccino.
«Sì, ok. Però se ci va più piano finisce che torna indietro.»
«Non è un problema. L’importante è che ci siamo. E che ci piacciamo.»
«Voi due vi piacete da troppo. Forse vi siete idealizzati a forza di guardarvi a distanza…»
Si fermò un secondo, osservandomi sopra la tazza.
«…e ora non sapete che farvene dell’altro dal vivo.»
Scossi la testa, mentre lei si sistemava meglio sul divano. Il maglione si alzò un po’, rivelando la linea delle sue cosce che si incrociavano con naturalezza. Non sembrava nemmeno farci caso. Ma io sì.
«Comunque,» continuò, «non mi hai detto se almeno l’hai fatta impazzire di baci.»
Sorrisi appena, grattandomi la nuca.
«Sì. Quello sì. Cioè… penso. Tremava un po’.»
«Mmh…»
Luna allungò una gamba e mi diede un colpetto col piede sulla coscia.
«Allora vedi? Non sei messo così male. Dai, che magari sei solo arrugginito. A volte serve solo un po’ di… pratica.»
Lo disse con leggerezza, ma le sue parole rimasero sospese nell’aria come una nuvola.
Poi abbassò lo sguardo, sorseggiando ancora il cappuccino, mentre io cercavo di ignorare quel leggero senso di calore che mi saliva sotto la maglietta.
Vibrazione.
Il mio telefono sul tavolino tremò e si accese.
Chiara.
Aprii il messaggio e per poco non mi strozzai col caffè.
“Scusami per ieri… Non volevo farti sentire rifiutato. Non sei tu. Mi manchi.”
Sotto, una foto.
Lei allo specchio, con una canotta bianca trasparente e niente sotto. Si mordeva il labbro.
La luce della finestra le accarezzava il corpo e il riflesso faceva risaltare le sue curve in modo devastante. Era una foto di quelle che non lasciavano spazio all’immaginazione, ma allo stesso tempo sembrava ancora dolce. Come solo lei sapeva essere.
Sentii lo stomaco stringersi. La testa svuotarsi. E qualcos’altro risvegliarsi.
«Oooh…»
Luna si sporse verso di me, cercando di sbirciare lo schermo.
«Che succede? Lei ti manda cuoricini o tette vere?»
«Luna!»
Cercai di bloccare il telefono, ma troppo tardi. Lei rise, senza nemmeno bisogno di vedere davvero.
«Dalla tua faccia, direi opzione B.»
Scoppiai a ridere, imbarazzato, mentre cercavo di ricompormi.
«Sta cercando di… farsi perdonare.»
«Beh, a modo suo funziona. Sei diventato tutto rosso.»
Poi si alzò dal divano, stiracchiandosi con lentezza. Il maglione si sollevò ancora un po’, e per un attimo vidi la curva scoperta del fianco.
Lei si voltò, fingendo indifferenza.
«Attento, Ale. Con tutte queste distrazioni… potresti fallire di nuovo.»
«Quindi la signorina ti vuole rivedere già stasera?»
Luna era tornata a sedersi sul bracciolo del divano, gambe incrociate e tazza vuota tra le mani. Mi fissava con un sopracciglio alzato.
«Mi ha scritto che le dispiace, che vuole recuperare… e sì, ha detto di vederci stasera.»
«Uh. Not bad.»
Fece schioccare la lingua, quasi ironica, poi si chinò in avanti, accorciando la distanza tra noi.
«Allora vedi di non deluderla… né me.»
«Te? Che c’entri tu?»
La guardai di sbieco, anche se un sorrisetto mi tradiva.
«Beh, diciamo che tifo per te. Ma anche per lo spettacolo. E da fuori, è tutta una bella soap.»
Si alzò, scrollando le briciole del cornetto dal maglione, e si diresse verso la cucina.
«Vai, Romeo. Ricaricati. E porta le mani giuste.»
«Cioè?»
«Hai capito benissimo.»
Mi fece l’occhiolino e sparì dietro l’angolo, lasciando la scia del suo profumo leggero e una risata appena trattenuta.
Scossi la testa, afferrando il mio zaino. Uscire da casa sua era sempre come emergere da una bolla parallela: in quella casa sembrava tutto più sfocato, più leggero… più pericoloso.
⸻
La sera
L’aria era più fresca del previsto. Il cielo era terso, ancora azzurro scuro, con qualche stella timida che iniziava a spuntare. Camminavo verso il punto d’incontro con le mani in tasca, cercando di respirare piano per calmare l’agitazione.
Quando la vidi, il cuore mi fece un salto.
Chiara era appoggiata al lampione del parcheggio, in jeans e un maglione largo che sembrava disegnato apposta per lei: morbido, semplice, ma così aderente nei punti giusti da far perdere la testa.
I suoi capelli biondi e mossi erano raccolti in una treccia morbida, lasciando scoperte le spalle. Gli occhiali brillavano sotto la luce, e il sorriso… quel sorriso bastava a spegnere ogni ansia.
«Ehi,» disse appena mi vide, con un tono basso, quasi timido.
«Sei arrivato prima tu, per una volta.»
«Ti aspettavo da stamattina.»
Le sorrisi mentre mi avvicinavo. Lei fece un passo verso di me, e per un secondo ci fu silenzio. Nessuno parlò.
Poi lei abbassò lo sguardo.
«Mi dispiace per ieri.»
«Non devi. Te l’ho detto, Chiara. Non devi sentirti in colpa.»
«Lo so… è che…»
Si morse il labbro, poi mi guardò di nuovo.
«Voglio solo che tu sappia che… voglio esserci. Con te. Solo che a volte ho paura. Ma non di te. Di me.»
Allungai una mano e le toccai il viso con dolcezza. Lei chiuse gli occhi, si avvicinò ancora.
E ci baciammo. Un bacio lento, senza urgenza, solo labbra che si cercavano, che si riconoscevano.
La serata era cominciata.
«Allora, il re del cookies mi porta a mangiare un gelato?» chiese, dopo un attimo di silenzio.
Sorrisi. «Solo se la regina del puffo promette di non cambiare gusto a metà.»
«Non ci giurerei.»
Partimmo, tra chiacchiere leggere e la musica bassa alla radio. Non c’era fretta, non c’era tensione. Solo noi due, e quel sottile filo di desiderio che cominciava a riannodarsi, più delicato ma anche più profondo.
La gelateria era la solita, quella piccola all’angolo del lungomare, con le luci calde e i tavolini tondi fuori. Non era niente di speciale, eppure con lei tutto sembrava più bello, anche un cono gelato mangiato all’aperto.
«Quindi… pistacchio e cioccolato bianco? Sei prevedibile,» le dissi, mentre uscivamo dal locale.
«Tu invece sei sempre lì con il gusto cookies. Bambino fino all’anima.»
«Almeno non prendo puffo come quella volta…»
«Avevo dodici anni! eravamo alle medie.»
Rise, fingendo di colpirmi con la spalla, ma io mi spostai appena e lei finì col darmi una gomitata più forte del previsto.
Scoppiammo a ridere entrambi.
Camminammo piano lungo il marciapiede, tra le auto parcheggiate e il rumore del mare in lontananza. Di tanto in tanto le sfioravo la mano con la mia, finché non la intrecciò senza dire nulla. Il suo pollice cominciò a muoversi contro il mio, piano, come se volesse farmi capire qualcosa che le parole non riuscivano a dire.
«Lo sai che mi fai ridere troppo?» mi disse ad un certo punto, fermandosi.
«Beh, se vuoi posso essere serio.»
«No… cioè, mi fai ridere e sentire bene. È diverso.»
Ci guardammo un attimo. I suoi occhi brillavano dietro gli occhiali, un riflesso verde che sembrava liquido sotto i lampioni.
Mi venne spontaneo abbracciarla. Lei si strinse a me, la testa sotto il mio mento, e restammo così. Era il tipo di abbraccio che non dice “ciao” o “addio”. Dice “sei casa”.
La macchina era parcheggiata in quel posto tranquillo, nascosto tra gli alberi. Nessuno passava mai da lì, ed era diventato il nostro rifugio di fine serata.
Chiara era seduta di fianco a me, il viso illuminato dal cruscotto, i capelli un po’ spettinati e il sorriso dolce di chi non ha fretta.
«Cosa c’è?» le chiesi mentre la osservavo.
«Niente. È solo che… non vorrei mai andare a dormire quando sto con te.»
Mi avvicinai e la baciai. Stavolta con più fame. Lei rispose subito, lasciando cadere la mano sulla mia coscia. Si girò leggermente verso di me, permettendomi di accarezzarla meglio. Le labbra si cercavano con urgenza, ma non c’era fretta. C’era desiderio, quello sì. Ma anche attenzione, lentezza, come se ogni gesto fosse un piccolo passo oltre.
La mia mano salì sotto il suo maglione, accarezzandole la schiena nuda. Sentii un brivido, poi il suo respiro farsi più pesante. Lei non disse nulla, anzi, si mosse per toglierlo. Restò con solo il reggiseno nero, semplice e bellissimo, che sembrava fatto per quella pelle morbida.
«Posso?» le chiesi, la voce appena un sussurro.
Chiara annuì piano, senza parlare.
Le slacciai il reggiseno con delicatezza, quasi temendo di rompere qualcosa. Lo lasciò scivolare giù con lentezza, esponendo il seno, grande e naturale, che si sollevava e abbassava col ritmo del suo respiro.
Non potei fare a meno di guardarla, per un attimo solo, come si guarda un quadro che ti toglie il fiato.
Poi tornai a baciarla, sul collo, sul petto, con la mia mano che la accarezzava con dolcezza e rispetto. Il suo gemito trattenuto fu la cosa più bella che avessi mai sentito.
Le baciai un seno, lentamente. La sentii stringere le gambe attorno a me. Una mano mi salì sulla nuca, l’altra mi accarezzava la schiena sopra i vestiti.
Poi, con gesti lenti e attenti, la mia mano scivolò sotto i suoi jeans, trovando la pelle liscia sotto la biancheria. Lei si mosse piano, come se avesse atteso quel gesto ma non sapesse bene come reagire. La mia mano trovò la strada, e iniziai a muovermi piano, tra i suoi sospiri.
Lei mi guardò. «Ale…»
«Dimmi.»
«Continua. Ma… piano, per favore.»
Le accarezzai l’interno coscia, poi le sfiorai l’intimo, e sentii il suo corpo sobbalzare contro il mio. Aveva gli occhi chiusi, i seni nudi che si muovevano al ritmo del respiro, e la testa appoggiata sulla mia spalla.
Continuai a toccarla piano, poi un po’ più a fondo, guidato dai suoi sussulti, dai piccoli sospiri che le sfuggivano dalle labbra. Si era aggrappata alla mia felpa con una mano, l’altra era posata dietro al mio collo, come a cercare un appiglio per non perdere il controllo.
Il suo bacino cominciò a muoversi lentamente contro la mia mano, quasi impercettibile all’inizio, poi via via più decisa, come se il suo corpo stesse decidendo per lei. Le baciai il collo, poi la mandibola, poi di nuovo la bocca. Lei ricambiava con trasporto, inarcando appena la schiena, lasciando che le accarezzassi il seno con l’altra mano.
«Ale…» mormorò, piano, come se volesse dirmi qualcosa ma non trovasse le parole.
Continuai a toccarla, trovando il punto giusto con le dita, modulando la pressione mentre i suoi gemiti diventavano più ravvicinati. Era bagnata, calda, e bellissima. Sentivo le sue cosce fremere, il respiro spezzarsi.
Si stava avvicinando. Lo sentivo nel modo in cui si stringeva a me, nel tremore che le percorreva le gambe, nelle sue labbra socchiuse che non riuscivano più a parlare. Era lì, proprio lì, sul punto di lasciarsi andare.
Ma proprio quando stava per venire, si irrigidì di colpo. La sua mano afferrò il mio polso con dolcezza ma decisione, e mi fermò.
«Aspetta… no, no, ti prego…»
Si staccò lentamente da me, ansimante, gli occhi lucidi e confusi. Cercava di riordinare i pensieri, ma sembrava più frustrata di me.
«Scusa…» sussurrò, tenendosi il viso con una mano. «Era bellissimo. Ma… non lo so. Mi si è chiusa la testa all’improvviso.»
Rimasi in silenzio. Il mio cuore ancora batteva forte, e le dita tremavano lievemente. Ma non dissi nulla, le accarezzai solo la guancia.
«Va tutto bene,» le dissi a bassa voce. «Te lo giuro, Chiara.»
Lei annuì piano, ma non riusciva a guardarmi.
La aiutai a ricomporsi in silenzio, tirando su con dolcezza il maglioncino che le era scivolato giù dalle spalle, abbottonandolo lentamente come se quei gesti potessero cancellare l’imbarazzo. Lei si sistemò i jeans in fretta, senza dire molto, con il viso ancora arrossato e lo sguardo sfuggente.
«Ti riaccompagno a casa?» chiesi con un tono pacato, quasi temendo che anche le parole potessero ferirla.
Lei annuì piano. «Sì, grazie…»
Durante il tragitto cercai di alleggerire l’aria. Le raccontai una battuta scema, una di quelle che avrei fatto per farla sorridere ai tempi in cui ci mandavamo messaggi fino a tardi, prima ancora di metterci insieme. E funzionò, un po’. Lei rise, anche se sottovoce, e appoggiò la testa contro il finestrino, tirando un sospiro lungo.
«Mi dispiace per prima…» mormorò a un certo punto, mentre le luci dei lampioni le accarezzavano il viso.
«Non devi scusarti, Chiara.»
«Lo so. Ma… avrei voluto riuscirci.»
«Va tutto bene. Quando sarà il momento, lo capiremo insieme.»
Parcheggiai sotto casa sua. Restammo in silenzio ancora qualche secondo. Avrei voluto baciarla, ma non lo feci. Lei mi sorrise con un’espressione dolce e fragile allo stesso tempo, poi scese.
Rimasi lì, con le mani sul volante, a guardare la sua figura allontanarsi nel buio.
Chiara era splendida, affettuosa, sincera. Ma qualcosa non tornava. Era come se ci fosse un muro invisibile tra noi. E io non sapevo se dovevo insistere, aspettare… o arrendermi.
Accesi il motore e tornai verso casa.
La notte sembrava più silenziosa del solito. E i pensieri, troppo rumorosi per lasciarmi dormire.
Generi
Argomenti