Eccitazione verso la prof di italiano

Capitolo 1 - Daniela, professoressa da sballo

Asiadu01
a month ago

Io, intanto, me ne stavo tranquillo, chino sul mio album da disegno, lasciando che il rumore di fondo scivolasse via. Traccia dopo traccia, il tempo sembrava dilatarsi, finché non alzai lo sguardo.

Fu allora che la vidi per la prima volta.

La nuova professoressa di italiano era già oltre la soglia della porta, e per un istante mi sembrò che il resto del mondo si congelasse. Daniela, come avrei scoperto in seguito, era una donna dall’eleganza naturale e una bellezza che catturava lo sguardo.

Era piuttosto alta, con una carnagione chiara che faceva risaltare le lentiggini sparse sul naso e sotto gli occhi. I suoi occhi azzurri erano lunghi e magnetici, lo sguardo attraversava la stanza con una grazia che pareva quasi ipnotica. Le sopracciglia sottili disegnavano un’espressione sempre composta, mentre il viso affilato, con zigomi leggermente pronunciati, trasmetteva una dolcezza inaspettata. Le labbra, lunghe e sottili, sembravano disegnare un sorriso perenne, appena accentuato. Sul suo viso, un paio di occhiali sottili brillavano alla luce artificiale, conferendole un’aria professionale ma incredibilmente attraente.

I capelli castano scuro, raccolti in una coda impeccabile, lasciavano scoperto il collo, elegante e slanciato. E poi c’era il suo corpo: snello, proporzionato, con un seno che, seppur nascosto dalla camicetta bianca dal taglio formale, rivelava una rotondità morbida e sodo. Le cosce lunghe erano avvolte da un paio di collant neri che scendevano lisci e perfetti lungo le gambe, terminando in un paio di scarpe con tacco basso. La gonna a tubino nera abbracciava i fianchi con discrezione, accennando appena al fondoschiena perfetto che completava il suo profilo.

Il suo abbigliamento era impeccabile: camicetta bianca abbottonata fino al collo, una giacca nera che sottolineava la sua figura snella e allo stesso tempo professionale. I dettagli sembravano studiati per essere sobri, ma in qualche modo finivano per esaltarne la femminilità.

La sua voce, quando parlò per la prima volta, mi scosse: bassa, calma, ma con un’autorità che non ammetteva repliche. «Buongiorno, ragazzi. Io sono Daniela, la vostra nuova insegnante di italiano.»

La classe si quietò in un istante, mentre io non riuscivo a distogliere lo sguardo. Forse era il suo modo di muoversi, o forse quella compostezza che nascondeva qualcosa di più. Ma una cosa era certa: non avevo mai visto nessuno come lei.

Daniela si presentò con la stessa grazia con cui era entrata in classe. «Come vi ho detto, sono Daniela, e questa è la mia prima esperienza come insegnante. Ho 28 anni e sono molto felice di iniziare questo percorso con voi.» La sua voce era calda, profonda, e possedeva un’inflessione dolce che sembrava accarezzare ogni parola. Mi colpì al cuore, senza che nemmeno me ne accorgessi.

Ero incantato. Ogni suo movimento, ogni espressione, sembrava studiato per catturare l’attenzione, eppure non era mai forzato. Era la sua naturalezza a rendere tutto così ipnotico. Il modo in cui le sue mani, lunghe e delicate, gesticolavano mentre parlava o il sorriso che si accendeva ogni volta che uno di noi rispondeva correttamente a una domanda.

Nei giorni successivi, la scoprii non solo incredibilmente affascinante, ma anche una professoressa straordinaria. Daniela era paziente e disponibile, pronta a spiegare mille volte la stessa cosa pur di farci capire. Non alzava mai la voce, ma il rispetto che incuteva era istintivo. Aveva quella capacità rara di farti sentire ascoltato, importante, e nessuno in classe rimaneva indifferente alla sua gentilezza.

Eppure, c’era qualcosa che mi colpiva più di tutto: il suo modo di essere dolce e severa al tempo stesso. Anche quando mi perdevo nei miei pensieri – o meglio, nei miei disegni – lei riusciva a riportarmi all’ordine con un solo sguardo, senza mai rimproverarmi davvero.

Perché, sì, accadeva sempre più spesso. Durante le sue lezioni, non riuscivo a trattenere la fantasia. Aprivo il mio album da disegno e cominciavo a tracciarne le forme. Non più solo scarabocchi casuali o figure inventate, ma lei. Daniela, con la sua figura perfetta e i suoi lineamenti delicati. La disegnavo così com’era, oppure mi lasciavo trasportare dall’immaginazione, immaginandola in vesti che esaltavano ancora di più la sua bellezza: un abito aderente, una gonna più corta, magari i capelli sciolti. Ogni tratto della matita sembrava avvicinarmi un po’ di più a lei, anche se in realtà non osavo nemmeno parlarle se non strettamente necessario.

Ogni tanto, quando la campanella suonava e chiudevo il mio album, avevo il cuore che batteva più forte. Non sapevo se fosse per la paura che qualcuno potesse vedere quei disegni o perché, in fondo, sentivo di aver catturato un pezzo della sua essenza su quei fogli.

Il primo mese di scuola passò in un battito di ciglia. Ogni lezione con Daniela era un misto di fascinazione e distrazione, una battaglia tra il voler ascoltare la sua voce calda e il perdersi nei dettagli del suo aspetto. I miei disegni, inizialmente timidi e rispettosi, cominciarono a spingersi oltre. Ogni linea della matita sembrava inseguire le curve del suo corpo, la rotondità del seno, la sinuosità delle sue cosce, che fissavo troppo spesso durante le sue spiegazioni, specialmente quando indossava i collant.

C’erano giorni in cui non riuscivo proprio a staccare gli occhi da lei. Bastava il modo in cui accavallava le gambe, o come si spostava per scrivere qualcosa alla lavagna, e la mia mente cominciava a vagare. Non era solo desiderio; era come se ogni suo gesto avesse il potere di catturarmi completamente, lasciandomi incapace di concentrarmi su altro.

Fu durante quel periodo che Daniela ci fece una proposta. Al termine di una lezione, ci spiegò di aver ottenuto un’aula per organizzare delle ripetizioni pomeridiane per chi avesse bisogno di aiuto. La sua voce, come sempre calma e rassicurante, sembrava quasi un invito personale.

«So che l’ultimo anno può essere impegnativo,» disse con il solito sorriso gentile, «perciò se qualcuno vuole migliorare o chiarire dubbi, sarò disponibile due pomeriggi a settimana. Naturalmente, non è obbligatorio.»

Non avevo problemi in italiano. I miei voti erano buoni, e certamente non avevo bisogno di quelle ripetizioni. Ma l’idea di passare del tempo con lei in un contesto più intimo, lontano dagli occhi della classe, mi stuzzicava troppo.

Quando arrivò il giorno della prima lezione pomeridiana, scoprii che la mia intuizione era corretta. La mia classe era composta da poche persone, e quasi nessuno sembrava interessato all’idea di un incontro extra. Così, quando aprii la porta dell’aula, il cuore mi balzò in petto.

Daniela era già lì, seduta alla cattedra, con un libro aperto davanti a sé. Mi accolse con un sorriso. «Ciao, Ale. Sei venuto per le ripetizioni?»

Annuii, cercando di mascherare il nervosismo. «Sì, prof. Pensavo che un ripasso in più non guastasse.»

Mi guardò con un’espressione di approvazione, e per un attimo sembrò che i suoi occhi si soffermassero su di me con una curiosità insolita.

L’aula era vuota. Ero l’unico ad essermi presentato.

«Bene,» disse, chiudendo il libro e facendomi cenno di sedermi. «Allora cominciamo.»

Il suono della porta che si chiudeva alle mie spalle mi sembrò un segnale. Quella lezione sarebbe stata diversa, ne ero certo.

Quelle lezioni pomeridiane, due volte a settimana, divennero un rituale tutto nostro. Inizialmente ci attenevamo al programma, ripassando gli argomenti trattati in classe, ma ben presto cominciammo a deviare. Dopo tutto, ero l’unico studente presente, e a volte la conversazione si spostava su argomenti più personali, creando un clima di complicità che in classe non sarebbe mai stato possibile.

Un giorno, mentre discutevamo di un testo di Leopardi, la lezione si trasformò in una chiacchierata spontanea.

«Quindi ti piace disegnare?» mi chiese, inclinando leggermente la testa e spingendo gli occhiali più su con un dito.
Annuii, cercando di non mostrare troppo entusiasmo. «Sì, molto. Mi piace creare storie, personaggi… È il mio modo di rilassarmi.»
«Interessante. Mai pensato di farlo diventare un lavoro?»
Scrollai le spalle. «Non lo so. Forse è solo una passione. Poi… i fumetti non sono proprio visti come una cosa seria, no?»
Lei sorrise, con un’espressione che sembrava sincera. «Non sottovalutarti. A volte le passioni diventano qualcosa di più, se ci credi davvero.»

Quelle parole, dette con quella voce calda, mi colpirono più di quanto avrei voluto. Mi resi conto di quanto Daniela fosse diversa da qualsiasi altra persona avessi mai incontrato. Era dolce, incoraggiante, e, nonostante la differenza d’età, non sembrava mai giudicarmi.

Fu allora che cominciai a pensare che quelle lezioni potessero essere il momento perfetto per provarci. Certo, era un’impresa impossibile, ma dovevo almeno tentare. Così iniziai a muovere i primi passi, con quella goffaggine che probabilmente era inevitabile.

Un pomeriggio, mentre lei era china sul suo libro, colsi l’occasione per commentare il suo aspetto. «Prof, devo dirlo… Lei ha uno stile impeccabile. È sempre così elegante.»
Lei sollevò lo sguardo, sorpresa, ma sorrise. «Oh, grazie, Ale. Cerco solo di essere professionale.»
«Non è solo professionalità,» insistetti, cercando di mascherare l’imbarazzo con un tono leggero. «Lei è davvero… bellissima.»

Daniela rise piano, una risata che non era né imbarazzata né compiaciuta, ma semplicemente gentile. «Beh, grazie. Sei molto gentile.» Poi tornò al libro, come se quel complimento fosse solo un gesto innocente.

Non mi arresi. Durante le settimane successive cercai altri modi per avvicinarmi, seppur in modo sottile. Lasciavo che i nostri sguardi si incrociassero più a lungo del necessario. A volte mi appoggiavo alla cattedra, accorciando la distanza tra di noi, e le rivolgevo domande più personali.

«Ma lei com’è finita qui, prof? Voglio dire, è giovane, potrebbe fare qualsiasi cosa… Perché ha scelto di insegnare?»
Lei si prese un momento per riflettere, appoggiando la penna sulle labbra. «Mi piace l’idea di fare la differenza. Anche se, devo ammetterlo, è una sfida. Questa è la mia prima esperienza, e a volte mi chiedo se sto facendo tutto nel modo giusto.»
«Secondo me è perfetta,» risposi senza pensarci troppo.

Un giorno provai persino a scherzare un po’, con un tono volutamente ambiguo. Lei indossava una delle sue classiche gonne a tubino, abbinata a una camicetta chiara e ai soliti collant. Era impeccabile come sempre, e io non potevo non notarlo.

«Prof,» iniziai, cercando di non sembrare troppo diretto, «ma come fa a essere così elegante anche quando lavora? Non è un po’… scomodo?»
Lei ridacchiò. «Un po’, forse. Ma fa parte del lavoro. Non posso certo venire in jeans e felpa.»
«Secondo me starebbe bene anche con quelli,» dissi, sorridendo, «ma… così è decisamente meglio.»

Daniela sembrava cogliere il tono scherzoso ma non reagì troppo, limitandosi a scuotere la testa con un sorriso divertito. «Ale, concentrati sulla lezione, su.»

Non ero bravo a provarci. Lo sapevo. E forse lei neanche si rendeva conto delle mie intenzioni, o forse le ignorava volutamente. Ma non potevo smettere di tentare. Ogni sua risata, ogni sorriso, alimentava la mia speranza.

Con il passare delle settimane, le mie provocazioni si fecero più audaci, complice il fatto che stavo cominciando a sentirmi più sicuro. Daniela, dal canto suo, non diceva nulla, non mi fermava, ma sembrava iniziare a percepire chiaramente quello che stava succedendo.

Durante una di quelle lezioni pomeridiane, mentre lei mi spiegava un passo di Dante, la interruppi con una domanda che non aveva nulla a che fare con la letteratura. «Prof, posso chiederle una cosa? Fuori contesto, intendo.»
Lei alzò lo sguardo dal libro, inclinando leggermente la testa. «Dimmi pure.»
«Ma lei… ha sempre voluto fare l’insegnante? Voglio dire, con il suo aspetto, avrebbe potuto fare qualsiasi altra cosa.»

Le mie parole erano ambigue, un confine sottile tra un complimento e qualcosa di più diretto. Per un attimo, sembrò sorpresa, ma si limitò a sorridere.

«Beh, non credo che l’aspetto conti molto in questo mestiere,» rispose con calma, ma mentre parlava si passò una mano sui capelli, sistemando distrattamente qualche ciocca sfuggita dalla coda.

«Non sono d’accordo,» continuai, appoggiandomi alla cattedra e accorciando la distanza tra di noi. «Avere un’insegnante bella come lei rende tutto più interessante.»

Questa volta lei non rise. Mi fissò per un momento, e mi sembrò di scorgere un leggero tremolio nel suo sguardo. Poi abbassò gli occhi, apparentemente concentrandosi sul libro, ma non prima di essersi morsa lievemente il labbro inferiore.

La tensione nell’aria era palpabile. Lei era chiaramente consapevole di quello che stava succedendo, ma non fece nulla per fermarmi. Anzi, sembrava quasi… lusingata.

In un’altra occasione, decisi di spingermi ancora oltre. Indossavo una camicia leggermente sbottonata, lasciando intravedere il petto scolpito che avevo ottenuto grazie agli allenamenti estivi. Durante la lezione, approfittai di un momento di pausa per allungare le braccia e stiracchiarmi, mettendo in evidenza il mio fisico.

Lei sollevò lo sguardo e per un attimo i suoi occhi si soffermarono su di me, più a lungo di quanto fosse necessario. Si ricompose subito, ma non prima che le sue labbra si socchiudessero leggermente, come se stesse per dire qualcosa e poi avesse deciso di trattenersi.

«Tutto bene, prof?» chiesi, con un sorriso appena accennato.
Lei si schiarì la gola. «Sì, certo. Allora, torniamo a noi.»

Ma il tono della sua voce era leggermente diverso, più morbido, come se stesse cercando di riprendere il controllo della situazione.

Ogni tanto la sorprendevo mentre si mordeva il labbro inferiore o si sistemava gli occhiali con un gesto nervoso. Erano piccoli segnali, ma per me erano sufficienti a capire che stava iniziando a notarmi, forse più di quanto avrebbe voluto.

Un giorno decisi di osare ancora di più. Stavo seduto sulla cattedra, vicino a lei, e mentre lei mi spiegava un concetto, mi piegai leggermente in avanti, avvicinandomi al punto che potevo sentire il profumo del suo shampoo.

«Lei è incredibile, prof,» dissi sottovoce, con un tono che voleva essere sia sincero che un po’ provocatorio.
Lei si fermò a metà frase e mi guardò, gli occhi azzurri che cercavano i miei con un’intensità che mi fece tremare per un attimo. Poi abbassò lo sguardo sul libro e, con una calma quasi innaturale, rispose: «Ti ringrazio, Ale. Ma adesso concentriamoci sulla lezione, va bene?»

Non era un rimprovero, né un invito a smettere. Il suo tono era neutrale, ma il lieve rossore sulle sue guance e il modo in cui si leccava appena le labbra tradivano il fatto che quelle attenzioni non le erano indifferenti.

Daniela manteneva il suo comportamento professionale, ma io sentivo che qualcosa stava cambiando. Non mi respingeva, non mi metteva mai al mio posto, e questo bastava a farmi sperare. Era come un gioco pericoloso, ma io ero deciso a portarlo avanti.

Era un pomeriggio come gli altri, nella tranquillità dell’aula vuota. Daniela stava spiegando un passo complesso di una poesia di Leopardi, seduta accanto a me. La sua voce calda riempiva la stanza, ma la mia attenzione era altrove. Il modo in cui incrociava le gambe, il lieve fruscio dei collant, il profumo delicato che si mescolava all’aria. Non riuscivo a concentrarmi, e quel giorno decisi di fare qualcosa che mi tormentava da settimane.

La guardai fisso mentre parlava, i suoi occhi azzurri che brillavano alla luce del tramonto che entrava dalla finestra. Non so cosa mi prese, ma sentii la mia mano muoversi quasi da sola, appoggiandosi delicatamente sulla sua coscia. La seta liscia dei collant sotto le mie dita era esattamente come l’avevo immaginata: morbida, avvolgente, irresistibile.

Daniela si bloccò di colpo, il respiro appena accelerato. Mi guardò con occhi sgranati, le guance che si tinsero di un rosso acceso. «Ale, cosa stai facendo?» chiese, la voce un po’ tremante, ma ferma.

Non risposi subito, lasciando la mia mano lì per un attimo che sembrò eterno. Lei la scostò con delicatezza, ma le sue dita tremavano leggermente. Si sistemò gli occhiali, cercando di riprendere il controllo.

«Non devi fare queste cose,» disse con un tono più severo, ma c’era qualcosa di diverso. «Portami rispetto. Sono la tua insegnante.»

I suoi occhi, però, tradivano il conflitto interiore. Non era solo rabbia quella che vedevo; c’era imbarazzo, un pizzico di turbamento. Come se quel gesto, pur sbagliato, avesse avuto un effetto su di lei che cercava di nascondere.

«Mi dispiace,» mormorai, ma non ero affatto pentito. Anzi, la guardavo con un’intensità che la mise ancora più a disagio. «È che… non riesco più a trattenermi.»

Daniela si alzò dalla sedia, incrociando le braccia e cercando di mantenere il controllo della situazione. Ma il suo respiro irregolare, le labbra che si mordeva nervosamente, e quel rossore sulle guance rivelavano molto più di quanto lei volesse.

«Ale, dobbiamo smetterla con questi giochetti. Io sono la tua professoressa, non dimenticarlo.» La sua voce era decisa, ma il modo in cui evitava di guardarmi dritto negli occhi tradiva il suo turbamento.

Non potevo più trattenermi. Mi alzai anche io, accorciando la distanza tra di noi. «Prof, io non sto giocando,» dissi con fermezza. «Sono innamorato di lei.»

Quelle parole rimbombarono nella stanza vuota, lasciandoci entrambi in silenzio. Lei mi fissò, visibilmente colpita. Cercava una risposta, qualcosa da dire per mettermi al mio posto, ma le parole sembravano non arrivare.

«Ale… tu non puoi…» iniziò, ma la sua voce si spezzò. Guardava ovunque tranne che me, stringendo le braccia attorno al suo corpo come se volesse proteggersi.

«Io non voglio ferirla o metterla in difficoltà,» continuai, avvicinandomi un altro passo. «Ma non posso fare finta di niente. Ogni volta che la guardo… ogni volta che la ascolto… io la desidero, ma non è solo quello. È molto di più.»

Lei chiuse gli occhi per un attimo, inspirando profondamente. Poi scosse la testa, come per cercare di scacciare quei pensieri. «Ale, questo è sbagliato. È contro ogni regola. Io sono qui per insegnarti, non per…»

Si interruppe, la sua voce tremante. La osservai mentre cercava di riprendersi, ma il rossore sulle sue guance e il modo in cui le sue mani giocherellavano nervosamente con la penna sulla cattedra mi dicevano che stava lottando contro qualcosa dentro di sé.

«Mi scusi, prof,» dissi infine, facendo un passo indietro per darle spazio. «Dovevo dirglielo. Non riuscivo più a tenermelo dentro.»

Lei non rispose subito, fissando il pavimento per un lungo momento. Poi mi guardò, il suo sguardo più dolce, ma carico di una tristezza che non avevo mai visto prima. «Non possiamo, Ale. È tutto quello che posso dirti. Non possiamo.»

Il suo tono era definitivo, ma qualcosa nel modo in cui lo disse mi fece capire che quella lotta interiore non era finita. Non per lei, e certamente non per me.

I giorni successivi furono un inferno per me. Ogni lezione con Daniela era diventata un campo minato. Non osavo guardarla negli occhi per paura di vedere il disappunto o, peggio, l’imbarazzo che sapevo di averle causato. Lei manteneva il suo solito atteggiamento professionale, ma c’era qualcosa di diverso. Il suo sorriso era meno spontaneo, i suoi movimenti più misurati. Tra noi aleggiava un silenzio carico di tensione, e io non facevo altro che rimuginare su quanto fossi stato stupido.

Per sfogare la frustrazione, mi riversai sul mio album da disegno. I miei disegni erano cambiati. Non erano più semplici ritratti della professoressa dietro la cattedra o di qualche sua espressione particolare. Col tempo, le linee erano diventate più morbide, le ombreggiature più curate. Avevo iniziato a disegnarla in pose diverse, sempre più sensuali, sempre più audaci.

All’inizio si trattava solo di dettagli: l’apertura della camicetta che lasciava intravedere appena la curva del seno, la gonna leggermente sollevata mentre si sedeva, la tensione dei collant sulle sue cosce perfette. Scene che avevo visto davvero, che si ripetevano nella mia mente ogni notte.

Poi, con il tempo, i miei schizzi avevano preso vita, diventando qualcosa di più. Una vera e propria storia.

Un fumetto.

Pagina dopo pagina, la mia matita aveva trasformato le fantasie in immagini sempre più esplicite. C’era lei, seduta alla cattedra con il solito sguardo severo, mentre io mi avvicinavo troppo. C’era la sua mano che si fermava sulla mia, un’esitazione, un battito di ciglia più lungo del solito. Poi le sue labbra schiuse, il rossore sulle guance, il respiro che si faceva pesante.

Ogni tavola spingeva i limiti un po’ più in là. La gonna che si alzava, le dita che scivolavano sotto il tessuto teso dei collant, il suo corpo che si lasciava andare, perso in un piacere proibito. Nei disegni, Daniela non si fermava. Nei disegni, non c’era nessuna regola da rispettare.

E più io venivo respinto, più il fumetto diventava esplicito.

Disegnavo di notte, con il cuore in gola e il corpo in fiamme, come se ogni tratto di matita fosse un modo per esorcizzare il desiderio che mi consumava. Ogni dettaglio era curato, perché era lei, perché volevo che sembrasse reale. E lo era, nella mia testa.

Ma non sapevo ancora che, molto presto, quelle pagine sarebbero finite nelle mani sbagliate.

Quel pomeriggio, la lezione extra era appena iniziata. Come sempre, eravamo solo io e lei. Il sole del tardo pomeriggio filtrava dalle finestre, tingendo l’aula di un’ombra dorata, e io mi sentivo strano. Avevo la sensazione che prima o poi qualcosa sarebbe successo, che i miei tentativi, i miei sguardi, le mie provocazioni avrebbero portato a una svolta.

Ma non immaginavo che sarebbe successo in quel modo.

Avevo lasciato l’album sulla cattedra prima di andare in bagno. Un errore imperdonabile.

Quando tornai, la vidi con il mio album aperto tra le mani.

Il silenzio era assordante. Il suo viso era pallido, le labbra schiuse in uno stupore quasi irreale. I suoi occhi scivolavano su ogni pagina, sulle ombre perfette che delineavano le curve del suo corpo, sugli sguardi lascivi che le avevo disegnato, sulle scene che le ritraevano in pose scandalose, nel pieno dell’abbandono.

Deglutii a fatica.

«Che… cos’è questo?»

La sua voce era un sussurro carico di tensione, spezzato appena dal respiro irregolare. Strinse l’album con più forza, come se volesse strapparlo a sé, come se toccarlo fosse già un crimine.

«Un fumetto,» risposi con un sorriso sfrontato, cercando di nascondere il battito accelerato del cuore. «Devo ammettere che ho fatto un ottimo lavoro, non trovi?»

Le sue narici si dilatarono leggermente, segno che stava cercando di mantenere il controllo. Poi i suoi occhi incontrarono i miei, e in quello sguardo lessi di tutto: sorpresa, rabbia, imbarazzo… ma anche qualcos’altro.

Qualcosa che la spaventava più di tutto il resto.

Chiuse di scatto l’album e lo sbatté con forza sulla cattedra, come se volesse prendere le distanze da quell’oggetto proibito.

«Sei un maledetto ragazzino pervertito,» sibilò, la voce bassa e velenosa. «Questo è inaccettabile. È disgustoso.»

Mi avvicinai di un passo, con un sorriso divertito sulle labbra. Sapevo che stavo giocando col fuoco, ma non potevo fermarmi. Non ora.

«Disgustoso?» sussurrai. «Eppure hai guardato ogni singola pagina, professoressa.»

La vidi irrigidirsi, le dita che stringevano la copertina dell’album fino a sbiancare le nocche. Sapevo di averla colpita nel punto giusto.

Volevo vedere fino a che punto potevo spingermi.

Con un movimento lento e calcolato, mi avvicinai ancora di più, fino a sfiorarle il braccio. Il mio sguardo scivolò sulle sue labbra, poi più in basso, sul collo sottile, sulla camicetta perfettamente abbottonata.

«Ti piaccio, professoressa?» domandai con voce bassa, quasi un sussurro.

Fu un attimo.

Si voltò di scatto e mi colpì con uno schiaffo secco sulla guancia.

Il rumore rimbombò nell’aula vuota.

Sentii la pelle bruciare, ma il dolore era nulla rispetto al brivido che mi attraversò la schiena. Per un attimo, nessuno dei due parlò. Lei tremava leggermente, il petto che si alzava e si abbassava sotto la camicetta impeccabile.

Poi, senza dire una parola, strinse l’album tra le braccia e si allontanò con passi rapidi verso la porta.

«L’album rimane con me,» disse con voce dura, senza voltarsi. «E un’altra provocazione del genere e giuro che farò in modo che tu te ne penta.»

La porta si chiuse con un colpo secco.

E io rimasi lì, con il sapore ferroso dello schiaffo sulle labbra e un sorrisetto eccitato che non riuscivo a togliermi dalla faccia.

Quella sera, mentre mi trascinavo a casa, sentivo il peso della giornata schiacciarmi il petto.

L’assenza del mio album era una condanna. Non perché contenesse disegni che non avrei mai voluto mostrare a nessuno, ormai era troppo tardi per quello, ma perché era nelle sue mani.

Avevo esagerato.

Mi ero spinto troppo oltre, convinto di poter giocare con lei come se fosse una qualsiasi ragazza della mia età, come se il suo ruolo non esistesse, come se il confine tra noi fosse solo un’illusione.

E invece era lì, in frantumi davanti a me.

La mia mente galoppava.

Domani tutti avrebbero saputo. Sarebbe bastata una parola da parte sua e sarei diventato il pervertito della scuola. Il freak che si faceva i film sulla professoressa.

Eppure, una parte di me non riusciva a pentirsene davvero.

Cosa diavolo avevo che non andava?

Mi girai nel letto per ore, cercando di non pensare a come si era mossa, al modo in cui aveva tremato, al respiro irregolare quando aveva sfogliato il mio fumetto. E il modo in cui mi aveva schiaffeggiato… Cristo.

Quei rifiuti mi eccitavano.

Mi rendevano ancora più folle.

Ero strano?

Forse.

Ma sapevo una cosa: dovevo scusarmi. Non per farmi perdonare, non speravo in un miracolo, ma perché almeno così avrei potuto chiudere questa storia senza essere cacciato a pedate dalla scuola.

La prossima lezione pomeridiana sarebbe stata la mia occasione.



Entrai in aula con il cuore in gola.

Daniela era già lì, seduta alla cattedra con le braccia incrociate. L’album non era in vista, ma sapevo che lo aveva con sé. Quando mi vide entrare, la sua espressione rimase impassibile, professionale, come se nulla fosse accaduto.

Ma io sapevo.

Sapevo che dietro quella maschera c’era qualcosa.

Mi avvicinai piano, con un nodo in gola. Mi sedetti, evitando di guardarla negli occhi.

«Professoressa…» cominciai a voce bassa.

Lei rimase in silenzio.

Deglutii, stringendo i pugni sulle ginocchia.

«Volevo… volevo chiederti scusa.»

Lei alzò un sopracciglio, senza dire nulla.

Presi un respiro profondo e continuai.

«Sono stato uno stupido. Ho oltrepassato ogni limite e… me ne rendo conto solo ora. Non volevo metterti a disagio, né mancarti di rispetto in quel modo.» Sollevai appena lo sguardo, ma lei non accennò alcuna reazione. «Capisco che ora mi odi e probabilmente vuoi denunciarmi o farmi espellere, ma volevo solo dirti che… non succederà mai più. Ti lascerò in pace.»

Il silenzio si allungò tra di noi.

Lei mi osservava. Aveva un’espressione strana, come se stesse valutando ogni mia parola. Poi sospirò e abbassò lo sguardo.

«Mi hai messo in una situazione orribile, Ale,» disse piano, con un filo di voce. «Mi hai fatto provare qualcosa che non avrei mai dovuto provare.»

Rimasi immobile.

Cosa?

Lei si passò una mano tra i capelli, nervosa, mordendosi il labbro inferiore. Poi scosse la testa, quasi frustrata.

«Ma hai ragione. È finita qui.» Fece scorrere l’album sulla cattedra, spingendolo verso di me. «Tienilo. E se hai un minimo di rispetto per me… smettila.»

Presi l’album con dita tremanti. La guardai, cercando di decifrare la sua espressione.

Mi stava dando un’uscita.

Dovevo solo prenderla.

Ma dentro di me qualcosa si ribellava.

Qualcosa che mi diceva che, nonostante tutto, quella non era affatto la fine.

Non osai sfogliare l’album prima di essere tornato a casa. Durante la lezione extra rimasi in silenzio, cercando di non guardarla troppo. Lei si comportava come se nulla fosse successo, ma c’era qualcosa di strano nel suo atteggiamento. Forse era solo una mia impressione, o forse stava nascondendo qualcosa.

Appena arrivai nella mia stanza, chiusi la porta a chiave e mi sedetti alla scrivania. Respirai a fondo e aprii l’album. Lo sfogliai con attenzione, le dita leggermente tremanti, fino a raggiungere una delle pagine più spinte. E lì, tra le pagine, notai qualcosa.

Una polaroid.

La afferrai con esitazione e il cuore mi martellò nel petto quando la osservai meglio. Era una sua foto. Daniela, in intimo, in una posa che sembrava naturale, quasi distratta, ma incredibilmente sensuale. Il tessuto chiaro della lingerie risaltava sulla sua pelle chiara, i capelli sciolti, le lentiggini sul viso ancora più evidenti. Non era una foto professionale, ma proprio per questo era devastante.

Sul retro, una scritta.

“Continua a disegnarmi. Voglio vedere i prossimi.”

Sentii un brivido attraversarmi la schiena. Non riuscivo a capire se fosse una sfida, un gioco perverso o qualcosa di più. Ma una cosa era certa: Daniela non stava più solo respingendomi.