La piccola troia di famiglia
Capitolo 1 - Il silenzio di mio cugino - 1
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Veronica mi chiama. Ha appoggiato al busto una maglietta bianca con le cuciture nere della Ananas Fashion. «Come mi sta, Giulia?»
Sono certa che la comprerà di una taglia o due più piccola per far mettere in risalto i suoi bei seni. Il pensiero di quella volta che l’ho baciata e glieli ho stretti, ho appoggiato i miei contro i suoi mi fa inumidire la passera. «Ti starebbe bene, Vero». Sorrido, più al pensiero di passare ancora un paio di ore in sua compagnia completamente nude ad esplorare i nostri corpi che per il vestito.
Veronica allontana da sé la maglietta, la volta e la contempla. «Non costa nemmeno tanto. 29 euro per una Ananas è praticamente regalata… quasi quasi la compro».
Anch’io ho visto un paio di vestiti che metterebbero in risalto, per quanto non servirebbe, il mio corpo, ma ho dovuto lasciarli lì. Mi toccherà far finta di vederli per la prima volta, quando tornerò al centro commerciale con mia madre.
«Ma Vero,» abbasso un angolo della bocca, come se stessi cercando di stemperare una pessima notizia, «non puoi tornare a casa e tirare fuori dalla cartella una maglietta nuova. Non ne vendono mica, a scuola…»
L’espressione di soddisfazione di Veronica sfuma verso il basso di diversi gradi. Sospira sconfitta, rimette la maglietta piegata alla meglio nel suo espositore. «Già. Avere diciotto anni ha i suoi vantaggi, ma non quello di non farsi cagare il cazzo dai vecchi quando si accorgono che non sei andata a scuola…»
Le metto una mano dietro le spalle, il mio sguardo scivola sulle sue tette che riempiono la maglietta che indossa e le mie si fanno più dure, i capezzoli tendono il tessuto della mia T-shirt.
Che si fotta il supermercato, per stare qui e comprare qualche stupidaggine di poco conto e nient’altro, tanto vale andarcene e passare un momento a fare altro. «Usciamo nel parchetto, dai».
«Non rischiamo di incontrare qualcuno?»
Ci imboschiamo da qualche parte, magari ci palpiamo un po’. Finiamo quello che avevamo iniziato qualche mese fa, bloccate in una risata nervosa quando ci siamo tolte le magliette e abbiamo iniziato a toccarci con le tette.
Faccio l’occhiolino a Veronica. «No, dai, sono sicura che troviamo qualche posticino tranquillo e aspettiamo mezzogiorno. Poi andiamo a casa».
Lei solleva le spalle. «Va bene».
Uscire da un supermercato senza comprare nulla mi sembra il metodo migliore per passare per una che ci va a taccheggiare: prendiamo una confezione di mentine sia Veronica che io e lo paghiamo alle casse.
Nella galleria del centro commerciale mi infilo il pacchetto nella tasca dei pantaloncini di jeans. Faccio segno a Veronica di andare.
Il suo telefono trilla, mi chiede di aspettare alzando una mano e legge un messaggio.
«Se è da scuola, scrivi che sei a casa con la febbre».
«Il mese di maggio la febbre? Ma no, è di un ragazzo che mi piace che vedo a scuola. Mi ha notata prima e mi ha chiesto di raggiungerlo nei parcheggi sotto».
Trattengo una smorfia, la mia possibilità di appartarmi un momento con Veronica sta sfumando. Quella di fare la terza di troppo mentre loro due limonano mi attrae ancora meno.
Lei mi prende la mano. «Dai, andiamo, solo cinque minuti». Veronica fa gli occhi dolci.
Diventeranno ben più di cinque minuti, lo so già. Sospiro. «Va bene…»
***
I parcheggi sono pieni come uova, non si trova un posto libero nemmeno a pagarlo oro. L’aria puzza di gas di scarico e rimbomba del suono di accelerate e frenate improvvise, che riverberano tra le colonne e il basso soffitto. Un paio di coppie spingono carrelli verso l’ascensore o le scale mobili.
«Ti ha detto dov’è?»
Veronica annuisce. «Verso l’uscita, accanto ad una macchina rossa».
Mi passo una mano sui capelli lunghi. «Menomale di rosse, qui, ci sono solo io e quella macchina».
Ci avviamo. Delle casse acustiche nascoste gracchiano note distorte di un brano vecchio di un paio di anni di cui ho dimenticato il titolo e chi la canta. Passano automobili una dopo l’altra, appena qualcuna di meno per riuscire a creare un incolonnamento. Un paio di colpi di clacson si alzano quando passano accanto a noi: mi piace credere che sia per il mio culo o le mie tette grosse.
La carrozzeria rossa spicca tra le altre con colori smorti. La indico a Veronica.
Lei sembra spiccare un balzo. «È lui!». Alza la mano e saluta con un’espressione cretina.
Un ragazzo della nostra età è accanto all’auto rossa. Ha i capelli ricci, neri e indossa abiti larghi. Stacca una sigaretta elettronica dalle labbra ed emette uno sbuffo. Sul volto ha un’espressione di noia, quasi disgusto della vita. Solleva dalle tasche una mano piena di anelli e risponde al saluto senza nemmeno degnarci di uno sguardo.
Che razza di amici va a farsi, Veronica? Avremmo potuto palparci nel parchetto e invece…
La mia amica aumenta l’andatura e si ferma davanti a lui. Da vicino ha l’espressione di quel vecchio che incontro spesso al bar vicino a casa che sembra aspettare la fine tra un bicchiere di rosso e l’altro.
«Ciao, Nicola!» Veronica sembra abbia messo i piedi su un formicaio di quelle rosse. Mi indica. «Lei è la mia amica Giulia».
Nicola non solleva lo sguardo da un punto del pavimento che lo deve affascinare. Si porta alle labbra la sigaretta elettronica, prende una boccata, emette una nuvola di mentolo. «Ciao…»
Ma chi cazzo è questo toss— Qualcosa afferra i miei capelli e li tira all’indietro. Emetto un grido e un braccio mi si chiude attorno al collo. Sono bloccata.
Un volto si accosta ad un mio orecchio. «Ciao, cugina, come mai non sei a scuola?»
Il cuore mi si blocca per un istante, poi riparte al galoppo al riconoscere quella voce.
Mio cugino mi lascia. Mi volto e davanti a me c’è quello stronzo di Davide. Sulle sue labbra c’è quel sorriso che avrebbe un gatto quando il topo è nell’angolo e non può più sfuggirgli. Fissa le mie tette come non dovrebbe mai permettersi un uomo che non hai intenzione di manipolare, ed un cugino non potrebbe nemmeno sognarselo.
Si vanta di farsi le seghe sulle mie foto su Instagram, lo stronzo. Lo stomaco mi si stringe al ricordo dal suo cumtribute, come li chiama lui, in mio onore, che mi aveva poi girato su via Whatsapp: schizzi di sborra sul telefonino, un mio scatto in bikini al mare a pieno schermo, il tutto immortalato con un altro apparecchio fotografico. In un’altra occasione l’immagine che aveva scelto per il suo piacere era stata elaborata dall’intelligenza artificiale, che aveva cancellato il mio reggiseno e ridisegnato le mie grosse bocce.
Mi si mozza il fiato: era una trappola! Bastardo, ha convinto il suo amico a chiamare Veronica per catturarci.
Davide mi prende per un polso e mi trascina tra le auto parcheggiate. Strattono il braccio ma la sua morsa è di ferro. Anche l’altro sembra essersi appena svegliato e tira Veronica con sé, la quale non oppone molta resistenza. Dal sorriso scemo che ha sulle labbra, non ha ancora capito cosa potrebbe succedere da un momento all’altro.
Davide mi spinge contro una colonna e mi blocca con una mano sullo sterno. «Allora? Ti ho chiesto come mai non sei a scuola ma a troieggiare con il ragazzo che piace alla tua amica».
Gli caverei gli occhi, a questo stronzo. «Non… non c’è scuola, oggi».
«Come no». Sogghigna. Tira fuori il telefonino. Sullo schermo c’è una mia foto scattata pochi istanti prima. «La mando a tua madre, così sentiamo se sapeva che oggi non c’è scuola?»
«Bastardo!» mi sfugge dalle labbra.
Lui ride.
Veronica cerca di seguire il nostro scambio di battute, ma non riesce a staccare lo sguardo dal moretto. Sei un’inutile zoccoletta…
Davide fissa la maglietta deformata dalle mie bocce.
Inspiro per cercare di calmarmi un po’. Non serve a nulla. «Cosa… vuoi per stare zitto?»
Mio cugino allunga l’altra mano per afferrarmi il seno sinistro attraverso il tessuto della maglietta. Le sue dita affondano nella mia boccia morbida. Mi lascerà il segno, il bastardo. «Indovina cosa voglio».
Cerco aiuto in Veronica. La zoccoletta si è appoggiata contro la macchina accanto, aspettando che il tossico imiti Davide. È talmente infatuata che si farebbe scopare in mezzo ad una piazza senza nemmeno accorgersi che il coso le ha messo la sigaretta elettronica nel culo.
Mi divincolo, cerco di scacciare la mano dalla mia tetta. «Davide… non qui, davanti a tutti. Andiamo… andiamo da un’altra parte, ci sono troppe persone».
Lui smette di palparmi. Lancia un’occhiata veloce al traffico a qualche metro da qui. «Spostiamoci in un posto più buio».
No, non qui. Meglio all’esterno, dove posso scappare. «Il parchetto, qui fuori». Lui mi guarda, le sopracciglia corrucciate. «Non… non c’è quasi nessuno a quest’ora del mattino, e possiamo imboscarci da qualche parte».
Ci pensa per un istante, e annuisce. «D’accordo, ma pensarci nemmeno a fare scherzi, o…» Solleva di nuovo il telefonino.
Bastardo.
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