Come gli eschimesi

Capitolo 4 - L'addio alle piste

Qualcuno mi scuote una spalla. «È ora si svegliarsi, Emanuele.» Una voce femminile attraversa il buio delle mie palpebre chiuse. Una voce che riconosco… è…

Apro gli occhi. Katia è inginocchiata accanto a me. Scosta lo sguardo dal mio.

La ragazza indossa la tuta da sci.

Il soffitto dietro di lei è una serie di travi di legno che sorreggono delle lamiere, una pesante penombra nasconde buona parte del tetto. Un brivido mi corre lungo la spina dorsale.

Mi metto a sedere. Sono nudo, i peli del mio inguine e il mio cazzo sono sporchi di sborra secca e…

Mi volto verso la maestra di sci, che si sta mordendo le labbra e fissa un angolo del baitèl. Alle sue spalle, Stefano sta indossando la giacca nera. Il suo sguardo è più duro di quello della ragazza, stringe la bocca come se volesse evitare di dire qualcosa di sconveniente.

Cazzo! Non è stato un sogno! Trattengo un sorriso, l’unico calore che sento crescere è nel mio uccello al ricordo di come ho ciulato Katia dopo che quella mezza sega del suo cocco aveva finito tutte le cartucce in un unico colpo. Il sorriso me lo concedo al ricordo della ragazza che, dopo l’orgasmo a pecora, si è impalata sopra di me e mi ha cavalcato fino a farmi sborrare di nuovo.

Dev’essere in quel momento che mi sono addormentato, vinto dalla stanchezza della scopata e della discesa in sci nella neve non battuta. I polpacci e i quadricipiti si svegliano con un lamento.

Katia continua a trovare interessante quell’angolo polveroso della baita. «Dobbiamo andare,» la voce è bassa, «la nebbia è calata e sarà meglio tornare alla stazione prima che cali anche il sole.»

Mi alzo in piedi, mi stiro la schiena e il cazzo mi resta barzotto davanti alla maestra. Qualcosa emette un crack all’altezza dei dorsali. «Va bene, mi vesto subito.» Mi passo una mano tra le scapole, sui segni lasciati dal ghiaietto sotto il plaid.

I vestiti sono asciugati un po’, per lo meno non è ghiacciato il sudore. Mi vesto senza troppe cerimonie, gli altri due non dicono una parola. Tiro su la zip della giacca. «Ok, sono a posto.»

Il mio compagno di corso non mi ha tolto gli occhi addosso per un istante, e non certo per ammirare quell’ombra di muscoli che lui non ha; Katia non ha alzato lo sguardo una sola volta.

«Va bene.» Apre la porta ed esce, seguita da Stefano come un cagnolino.

L’aria che entra è gelida, è come aprirsi il freezer di fronte al viso. Varco la porta e la neve scricchiola sotto i miei scarponi.  La vista spazia senza impedimento, cime innevate di cui non conosco il nome si stagliano contro il cielo azzurro. Il sole è un paio di dita sopra la montagna dietro alla quale si tuffa tutti i pomeriggi che passo sulle piste da sci.

Il pascolo continua a scendere tra due boschi per un centinaio di metri, fino ad innestarsi nell’altra pista del complesso sciistico. Le seggiole della funicolare che, al posto del ristorante, porta al laghetto artificiale, salgono silenziose, un paio di sciatori si muovono lungo la pista. Dietro le cime dei pini alla nostra sinistra si intravedono delle lettere scritte in rosso su un muro bianco. È il nome della stazione di mezza quota…

Cazzo… Aveva ragione il cellulare: eravamo a meno di cinquecento metri dall’arrivo quando ci siamo rifugiati qui…

Katia chiude la porta con il catenaccio, Stefano fa scattare gli attacchi degli sci con due schiocchi.

Prendo i miei dal muro del baitèl e li indosso. Giuro che è l’ultima volta che metto questi attrezzi di tortura, poi una volta a casa li metto in vendita su Internet anche a un decimo del loro prezzo. Anzi, pago pure il corriere al demente che se li prende.

La maestra appoggia i suoi sulla neve e sprofondano un po’. Li indossa come se mettesse un paio di pantofole. Si spinge per un metro con i bastoncini, pronta a lanciarsi giù per la discesa, ma si ferma. Si volta verso di noi, ci fissa i piedi. Apre le labbra, se le morde, le ci vuole qualche secondo prima di parlare.

Espira a bocca aperta, una nuvola bianca sfugge rapita dalla brezza. «Ragazzi… Stefano, Emanuele… sono dispiaciuta per quanto è successo.» Si interrompe, sposta lo sguardo sulla neve accanto a noi. «Quanto è accaduto oggi è qualcosa che non doveva succedere.»

Non so cosa dire, ma non vedo nulla di così negativo per quanto riguarda gli eventi successi nella baita. Non è morto nessuno. E spero non nasca nemmeno nessuno, in effetti…

Stefano, come al solito, deve dire la sua. «Non preoccuparti, Katia, è stato…»

La ragazza non solleva gli occhi. «No, Stefano, lasciami finire. Non sono stata in grado di gestire la situazione e ho rischiato di farvi finire in qualche pericolo. Il mio è stato un comportamento inqualificabile, inadatto ad una maestra di sci. Quanto poi accaduto lì dentro…» Indica con un cenno della mano guantata l’edificio abbandonato. «Spero vogliate perdonarmi.»

«Non devi preoccuparti.» Stefano le sorride.

Se ti metti ancora a novanta, puoi farmi smarrire pure sugli Urali. «Non diremo nulla a nessuno, Katia.» Anzi, potrei pure consigliarti a qualche amico. «Sei un’ottima maestra.»

La ragazza trova la forza di guardarci in faccia. Un sorriso che non raggiunge i suoi occhi solleva le sue labbra. «Grazie, siete fantastici.» Il sorriso si allarga e raggiunge gli occhi, ma questi si abbassano. «Siete stati fantastici.» Si volta e si spinge fino al bordo dello spiazzo davanti alla baita. «Andiamo!» Si lancia giù lungo la discesa, la sottile crosta di ghiaccio sulla neve che crepita sotto i suoi sci.

 

 

«Ce ne avete messo di tempo a scendere.» Il viso di Nicola è rosso per i grappini che ha bevuto mentre lui e Francesco ci aspettavano al bar. «Avete avuto qualche lezione privata con Katia, eh?»

Sospiro. Da sobrio è insopportabile, da ubriaco non voglio nemmeno scoprirlo. Stefano, sullo stesso sedile di Nicola nella cabina della funivia, si mette gli indici a croce sulle labbra. «Ci ha insegnato un paio di tecniche segrete.»

Il fiato dell’elettricista puzza come una distilleria. «Io l’unica tecnica che vorrei conoscere è quella per palparle quelle due tettone!» Scoppia in una risata.

Francesco, accanto a me, sospira con il naso. Mentre noi tre stavamo scop… cercando di scaldarci, lui si è dovuto sorbire per quasi tre ore Nicola. La discesa nella nebbia acquista di momento in momento sempre nuovi aspetti positivi.

La cabina ondeggia passando sui rulli al termine dell’hangar della stazione e i muri della stessa restano dietro di noi. Mi volto e appoggio la fronte alla plastica trasparente della finestra posteriore. La terrazza del bar scivola sotto di noi, diverse persone sono ai tavolini o camminano parlando tra di loro. Due tute bianche e azzurre spiccano tra le altre. Una con i capelli castani attraversa lo spiazzo, diretta verso una con lunghi capelli biondi.

È Katia! È appoggiata – abbandonata – contro il parapetto, ha tra le dita una sigaretta che fuma. Ha la testa inclinata in avanti, fissa dei rovi coperti di neve. La stanchezza della giornata scende su di me come una coperta bagnata. Povera ragazza, in che situazione si è trovata… prima la vergogna di perdersi, poi dover accettare di essere scopata su quella coperta lercia per non gelare.

E io ne ho approfittato.

Sospiro. Non vorrei mai trovarmi in una situazione simile a quella di Katia…

La cabina scende, mi trovo all’altezza del viso di Katia. Lei solleva la testa, io alzo una mano per salutarla. Lei distoglie lo sguardo e abbassa il capo.

Un groppo mi stringe la gola.

 

FINE

 

 

Una mano si posa sulla spalla di Katia. La voce è quella della sua collega Daniela. «Hai una sigaretta anche per me.»

Katia non abbandona con lo sguardo la cabina che si allontana ed emette un suono metallico mentre scivola sopra i rulli del primo pilone. Prende dalla tasca il pacchetto di Marlboro e lo solleva sopra la spalla.

Daniela ne prende una e se l’accende con l’accendino che ha in tasca. La brace sulla punta s’infiamma in un punto rosso e la donna emette un soffio di fumo. «Mi sembri pensierosa. È andato tutto bene?»

Katia si appoggia con le mani sulla ringhiera. «Sì.»

La collega le si accosta. Guarda anche lei la cabina scomparire oltre la punta dei pini. Un altro pennacchio di fumo esce dalle sue labbra. «Un paio dei tuoi clienti sono scesi con la seggiovia.»

«Sì.»

«Hanno avuto paura della nebbia?»

«Sì.»

Daniela si volta e si appoggia con il sedere all’inferriata. «Solo i due più giovani sono scesi con te?»

Una folata di vento fa staccare un pollice di cenere dalla sigaretta di Katia. «Sì.»

«Li hai messi uno contro l’altro tutta la settimana, eh?» Daniela ride. «Una volta o l’altra si incazzeranno e ci andrai di mezzo tu!»

Katia lancia con un movimento delle dita il mozzicone di sotto. La punta luminosa volteggia un paio di volte nella caduta e scompare in un roveto coperto dalla neve. «Devo andare.» Si avvia lungo il piazzale del bar.

L’amica si mette in piedi. «Allora, ha funzionato metterli in competizione?»

Katia si volta. Sorride e gli occhi le brillano. «Come sempre: se avessi visto che impegno hanno messo ognuno dei due per scoparmi meglio dell’altro.»

Daniela scuote la testa. «Devo provarci anch’io, una volta o l’altra.»

«E dobbiamo fare qualcosa con i topi nel baitèl: si stanno mangiando la coperta.»

La risata dell’amica è accompagnata da nuvole di fumo. «Domani io e Federica saliamo con una decina di allievi. Se va come speriamo, quella coperta la possiamo anche bruciare nel falò, domani sera!»