Come gli eschimesi

Capitolo 2 - Nebbia

La situazione all’esterno non è migliorata, ma è pure riuscita a peggiorare: il freddo dell’aria passa attraverso i vestiti da sci e una nebbia fitta si è alzata, bloccando la vista ad un tiro di sputo. Tutto è sparito, il suono della seggiovia è qualcosa di alieno e le voci di chi è attorno a noi sembrano quelle di fantasmi. È come essere nella puntata di Star Trek dove la dottoressa Crusher deve fuggire da un universo alternativo che sta collassando attorno a lei e tutto si riduce a una sfera bianca.

Scendere per la pista è un suicidio: se non finisci nei boschi che la delimitano, prendi in faccia uno dei piloni della seggiovia.

Katia, davanti a noi, si volta. Trattengo una smorfia al suo riuscire a girarsi con un paio di sci ai piedi come se fosse scalza. «Siete pronti?»

Francesco avanza di un paio di metri spingendosi con i bastoncini fino a raggiungere l’inizio della discesa, come se volesse assicurarsi che si veda qualcosa di più del nulla assoluto. Scuote la testa, punta i pastoncini davanti a sé e retrocede fino a quando si ritiene al sicuro dal vuoto bianco. «Io passo, torno giù con la seggiovia.»

La maestra arriccia le labbra. «Sei sicuro? Sei un ottimo sciatore, Francesco.»

Lui solleva una mano. «Grazie, ma…» Il retro dello sci che sposta per girarsi si appoggia su quello rimasto fermo, si libera con uno strattone. «Meglio di no.»

Nicola indossa solo gli scarponi. «Mia moglie mi ammazza se torno in albergo con le ossa rotte, scendo anch’io con Francesco.»

Trattengo un sorriso: meno male che anche loro sono del mio stesso avviso. Mi sarei vergognato ad essere l’unico che si cagava addosso di fronte a questo nebbione alla Mist.

Katia mi interroga con lo sguardo. I lati della bocca sono abbassati, la mascella contratta.

Mi spiace, Katia. Sei il mio sogno erotico ma ci tengo alla vi—

«Io vengo.» La voce di Stefano è fin troppo alta, sembra rimbombare tra le pareti bianche che ci circondano. Francesco e Nicola lo fissano a occhi spalancati. Dai miei devono uscire le fiamme. Bastardo…

Katia gli sorride. «Sapevo che eri il migliore, Stefan—»

«Vengo anch’io!»

Tutte le teste si voltano verso di me. Gli occhi di Katia brillano, quelli di Stefano si chiudono. Mi ritrovo con la bocca che si sta ancora muovendo e la “o” finale che sta terminando di uscire dalle mie labbra. Il cuore mi fa un balzo. Cazzo… l’ho detto davvero?

La maestra si abbassa gli occhialoni sul volto e si gira. «Perfetto! Allora andiamo!» Si lancia nella pista.

Lo sguardo di Stefano resta per un istante di più su di me. Adesso è dai suoi, di occhi, che escono le fiamme. Peccato siano solo metaforiche, o mi scioglierebbe la brina che si è formata sulla mia schiena. Non dice una parola, ma si getta anche lui nella discesa.

Le due figure perdono colore, il suono dei loro sci sulla neve si attenua. Francesco e Nicola mi fissano come se fossi matto. Io mi sento più un coglione suicida.

Afferro gli occhialoni, me li sistemo alla meglio sugli occhi e mi spingo. Il nulla si apre davanti a me.

Lo sci, che sport del cazzo!

Stefano è davanti a me, un’ombra nera che si sposta da sinistra a destra e poi a sinistra per tutta la larghezza della pista da sci. Per quanto volesse apparire come il migliore sciatore a mondo, nemmeno lui sembra a suo agio con la nebbia: cerca di non andare troppo veloce, come i giorni scorsi, e prende ogni precauzione.

Pure io riesco a stargli dietro.

Katia è appena visibile, una macchia azzurra nel bianco.

Cosa cazzo mi è venuto in mente di fare? Dovevo scendere con gli altri due usando la seggiovia, mica stare qui a fare lo scavezzacollo per un bel paio di tette ed un culo carino. Le mie ragazze che mi aspettano a casa cosa direbbero se tornassi ingessato?

La macchia azzurra si ingrandisce. Un bastoncino rosso si muove in aria. «Ragazzi, fermatevi!»

Stefano fa un ultimo tornante e rallenta davanti alla maestra, io mi accosto a loro scavando un paio di solchi nella neve fin troppo cedevole.

Muovo la mascella per riattivare la circolazione sulle guance in fiamme. Spero che ci fermiamo qui e Katia chiami un gatto delle nevi a recuperarci. Magari con un paio di litri di cioccolata calda quanto la lava e il riscaldamento della cabina al massimo.

La ragazza si toglie un guanto, stringe le mani a pugno e ci soffia dentro. Il suo viso non è meno rosso di quanto dev’essere il mio.

Stefano si guarda attorno, come se la sfera bianca fosse scomparsa. «Non mi sembra che siamo ancora sulla pista.»

Cosa? Cazzo! Degli steli di erba gialla si alzano dalla coltre di neve, cumuli simili a quelli lasciati dalle talpe rovinano il manto. Dove siamo finiti?

Le parole di Katia prendono forma come nuvolette di vapore. «Sì, temo che siamo usciti dalla zona battuta dai gatti delle nevi.»

Fantastico! Adesso ci serve davvero un tauntaun colpito da un orso alieno e una spada laser se non vogliamo gelare, altro che finire contro un traliccio della seggiovia!

«Cosa facciamo?» Stefano balbetta: che sia il freddo o anche lui si è reso conto che non valeva la pena?

Katia indica più avanti con il bastone, dove la fila di abeti si interrompe prima di essere inghiottita dalla nebbia. «Se non mi sbaglio, da lì dovremmo raggiungere la pista.»

Stefano annuisce. «Va bene, guidaci.»

La maestra mi lancia un’occhiata. «Andiamo, Emanuele?» Un brivido la scuote.

Una serie di pregiudizi sessisti sulla capacità delle donne di orientarsi si affollano nella mia mente, ma… Sospiro. «Andiamo.»

Una crosta spessa quanto una pellicina provocata dal freddo non sostiene gli sci. Affondano, la neve fresca li copre, li appesantisce. Li sollevo per girarmi: i chili di acqua ghiacciata gravano sulle mie gambe. Metterseli sotto un braccio e scendere a piedi – scivolare sul culo – sarebbe più semplice e comodo.

Questa non è la pista più di quanto lo era dieci minuti fa…

Stefano è davanti a me, volteggia, o almeno fa finta di farlo. La pelle delle sue guance è rossa, ma non per il freddo. Il vetro degli occhialoni è appannato dal sudore. Si ferma, pianta i bastoncini in una spanna di neve e si piega in avanti, la bocca aperta che erutta nuvole bianche come un treno a vapore. Abbassa di una decina di centimetri la zip della giacca, la tira su con un brivido.

Già, non è una grande idea, lo so per esperienza. Fuori fa freddo e non vedi una sega, dentro stai sudando come in una sauna…

Prendo lo smartphone e accendo lo schermo. Niente segnale, ancora… Scuoto la testa e lo rimetto in tasca.

La voce di Katia proviene dall’oltre bianco. «Ehi! Ci siete?»

Stefano solleva la mano, dalla bocca gli esce un suono simile a qualcuno con un enfisema. Abbassa la mano e si appoggia di nuovo al bastoncino.

Io ho un po’ più di voce. «Sì, siamo qui.» Qui, dove, però, non lo so.

«Ho trovato qualcosa!» Le parole della maestra sono attutite, come se avessi le orecchie tappate. A parte il respirare affannato del mio compagno di corso, sembra che abbiano dimenticato di aggiungere una colonna sonora al mondo. E di colorarlo: gli unici indizi che non siamo finiti in una pellicola in bianco e nero è la macchia gialla della tuta di Stefano e i suoi occhialoni da videogioco punk.

Lui mi guarda ancora adagiato sui bastoncini, inspira a fondo e solleva il busto. Si dà una spinta e riprende a scendere, sebbene ad una velocità minore di prima e senza troppi virtuosismi.

Di certo non possiamo restare qui. «Arriviamo!» Mi spingo anch’io in avanti e gli sci riprendono a scavare trincee parallele nella neve. Mi chiedo se arriveremo da qualche parte, prima o poi: quella donna ha la capacità di orientarsi sulla montagna dove lavora tutti gli inverni talmente bassa che non mi meraviglierei se il prossimo edificio che incontriamo è un monastero buddista con tanto di statua d’oro e bandierine colorate che garriscono al vento…

Arrivo all’altezza della donna con le gambe stritolate dai crampi e le caviglie che implorano la soppressione. Stefano è accanto a lei che guarda verso il basso, la bocca aperta e il fiato che ghiaccia portato via da una brezza gelida che s’infila nel colletto.

Katia è eretta, non si appoggia ai bastoncini e il viso non è rosso per il freddo. Indica verso il basso, dove i due boschi che delineano il pascolo si perdono nella nebbia. «Laggiù c’è un’ombra… Sembra una baita.»

Mi sporgo in avanti e stringo gli occhi. Il velo di vapore sugli occhialoni non aiuta ma… sì, c’è un’ombra bassa che spezza la linea dei pini con il terreno innevato. È troppo squadrato per essere un masso erratico o un albero caduto.

Stefano si solleva con fatica dai bastoncini. «Cos’è?»

La maestra si volta verso di lui. «Dev’essere un baitèl, dove un tempo mettevano i formaggi prodotti in malga, o una stalla di capre.»

Anche un buco nel terreno con un tasso mi andrebbe meglio dello starmene in mezzo a questo inferno bianco e ghiacciato. «Si potrà entrare?» Ma soprattutto, ci si potrà restare?

«Temo che non si siano altre scelte che vedere se ci riusciamo.» E Katia si lancia giù per la discesa.

Stefano si stira e la segue.

Sospiro. «Ho già detto che lo sci è uno sport del cazzo?»