Le spose di Krakh'thul

Capitolo 1 - Parte prima

Procediamo nella foresta da giorni, senza un momento di sosta, lungo sentieri che gli elfi hanno percorso per secoli. Risaliamo montagne che non avevamo mai scorto, scendiamo lungo valli di cui ignoriamo il nome, i riflessi delle due lune occhieggiano sulle onde di laghi che non compaiono tra le strofe delle nostre canzoni. Ma non ci preoccupiamo. Non possiamo perderci: i collari ci uniscono all’elfa che ci precede e a quella che ci segue, i raggi di sole che filtrano dai rami strappano luccichii dai diamanti incastonati sulle catene, e gli orchi ci scortano a cavallo.

Solo le future spose di Krakh’thul possono vantare un onore simile. Solo noi possiamo.

Di notte i dignitari orchi ci circondano e precedono con torce per tenere lontani i mostri che dicono vivano nelle ombre. Ma non ne esistono nella foresta, e se esistessero non ci farebbero nulla: neppure un insetto oserebbe posarsi sul nostro corpo nudo. Siamo elfe, siamo perfette, e niente ha la sfrontatezza di toccarci con l’intenzione di farci del male.

Siamo state cresciute ad Aeloria con questo futuro già scritto per noi, lontano da ogni fatica e dispiacere, divise dai nostri coetanei che non hanno avuto la nostra stessa fortuna di essere state scelte ancora prima della nascita. I nostri genitori e i Saggi erano in lacrime mentre i dignitari orchi ci portavano fuori dal nostro villaggio, incapaci di contenere l’orgoglio per il fulgido destino che ci attende.

Il nostro sposalizio assicurerà ancora la pace e la prosperità al nostro povero villaggio e ai nostri signori orchi. La nostra fortuna sarà la fortuna di tutti.

***

Giungiamo al termine della foresta eterna, prati dall’erba alta si estendono nella pianura, accarezzati dalla brezza e dal volo delle fatine. Un filo di fumo nero si alza all’orizzonte, da costruzioni che si trovano appoggiate all’orizzonte. “Zargrath”, sussurriamo. Non possiamo credere di essere davvero in vista della città più importante al mondo. Gli orchi impongono il silenzio. Il sentiero fluisce in una strada larga che serpeggia nella pianura. I piedi fanno male, ci sanguinano, ma non possiamo farci attendere: manca un anno al nostro matrimonio, e non abbiamo tempo da perdere.

Pietre e legni strappati dalla terra formano edifici alti quanto alberi, strade polverose piene di fuliggine si spargono e dimezzano come affluenti disseccati. Creature abominevoli, deformi, dalla pelle verrucosa verde e gonfia - le orchesse, ci rendiamo conto - ci guardano dagli incroci, ci indicano, ci appellano con termini come “troie”. Ci guardiamo l’un l’altra, ci chiediamo cosa significhi quella parola, mentre i dignitari le disperdono gridando loro di sparire. Non vogliono che la nostra sensibilità sia toccata da quella vista atroce. Disperdono anche gruppi di giovani orchi, che, da dietro gli angoli, compaiono con i calzoni abbassati. Siamo confuse, ci chiediamo cosa possa essere quello strano dito che hanno al posto dell’orchidea di rugiada in mezzo alle gambe.

Una torre sovrasta gli edifici di Zargrath, alta, grigia. Ci stiamo dirigendo verso di essa. “Il tempio di Krakh’thul,” proferiscono i dignitari ridendo. Nei nostri cuori non c’è letizia a quella vista. L’aria è pesante per il fumo nero che esce dalla cima della torre, viene preso dal vento e spinto nella direzione da cui proveniamo. “Il matrimonio di quest’anno si è già concluso,” commentano gli orchi, mesti. Hanno perso la possibilità di festeggiare lo sposalizio. Si rifaranno l’anno prossimo, si promettono. Si rifaranno con le spose di Aeloria.

Ci conducono lungo una stretta strada, i collari stringono la carne dei nostri colli, le nostre impronte sono rosse. Siamo elfe, ma non siamo mai state così stanche. Marciamo attraverso un prato con l’erba bassa e coperta di fuliggine che circonda la torre, strade partono dall’alto edificio come dita aperte di due mani, ognuna verso una direzione differente: accanto a ciascuna si erge un monolite con una scritta nello sgraziato alfabeto orchesco a noi incomprensibile. Il monolite che getta la sua ombra su di noi ha le stesse vene azzurre che solcano il menhir al centro di Aeloria. Tra di noi si diffonde la voce che possa essere la parte mancante, a cui piangono di nascosto i nostri saggi. I nostri signori ci ordinano di tacere.

Ci conducono all’interno della torre di Krakh’thul, nel buio al suo interno, dove nessun orpello, nessuno svolazzo di colore sembra aver diritto di esistere. Un'unica sala circolare grande quanto la più vasta radura che abbiamo mai visto si apre attorno a noi, può ospitarci tutte tre volte. Orchi neri di fuliggine caricano carriole spalando ciò che rimane del fuoco in un cerchio di pietre al suo centro. Una scala dai gradini lucidi e scavati dall’uso si arrampica accanto ad un palco con una sedia di legno imbottita. Dietro riposa un gong. Alziamo i nostri capi: più in alto del più sacro albero della foresta, un foro di cielo compare tra i muri sporchi di fuliggine.

Gli orchi al lavoro ci strappano dai nostri pensieri, ridono, si afferrano il cavallo dei pantaloni e vi lasciano impronte nere. “Che belle fighe, ci sarà da divertirsi…”. I nostri accompagnatori urlano loro di tacere, ma si zittiscono loro per primi quando un nuovo gruppo di orchi fala sua comparsa.

Indossano abiti lunghi, con gioielli che luccicano nella poca luce gettata dalle torce appese ai muri. Tutti si voltano a guardarli, il nostro brusio si smorza. Vediamo un anziano avanzare, appoggiato ad un bastone che sostiene un globo luminoso, seguito da due ali di orchi anche loro vestiti magnificamente. Non parla, si avvicina a noi, ci osserva, ci studia come la civetta studia il topolino che corre nel sottobosco. Sentiamo disagio quando afferra i nostri seni, anche di più quando gira attorno a noi e stringe i nostri glutei. Sorride, denti gialli scheggiati compaiono dalle labbra screpolate. “Aeloria ci ha sempre fornito ottime spose,” commenta, poi si allontana da noi. “Krakh’thul sarà soddisfatto.” Udiamo una risata propagarsi tra gli orchi, ma subito si smorza al colpo del bastone dell’anziano sul pavimento. La luce azzurra del globo diventa quella del sole appoggiato alle montagne. “Adesso portatele nel dormitorio: domani inizieremo a prepararle per Krakh’thul.”

Percepiamo un senso di gelo posarsi sull’eccitazione di essere le spose di una divinità, ci lanciamo occhiate l’una con l’altra in una torre che puzza di fumo, con il pavimento bagnato dal sangue dei nostri piedi.

***

La notte non è la stessa che potevamo considerare nostra amica nella foresta. Grida e risate sostituiscono il bubolare del gufo e il verso del capriolo tra i boschi. Muri di pietre rapite dalle montagne che piangono il loro esilio sostituiscono le pareti di legno che sussurrano le canzoni che hanno ascoltato per secoli.

Non riusciamo a prendere sonno anche se siamo distrutte dal viaggio. Le nostre membra sfinite giacciono su pagliericci coperti da lenzuola. Piangiamo per l’emozione, ma non sappiamo definire quale. Ripensiamo alla nostra casa, ai nostri genitori, alla nostra infanzia fortunata. Ci stringiamo l’una con l’altra, ci ricordiamo che siamo qui per la pace e la prosperità di Aeloria.

Ma lo stesso bagnamo i nostri giacigli con le lacrime.

***

Ci vengono a chiamare la mattina, dobbiamo iniziare il nostro percorso di preparazione allo sposalizio. Quattro orchi armati di lance ci scortano lungo il prato, centinaia di orchi sono nelle strade a guardarci, urlano parole che non capiamo. Altri armati li trattengono, impediscono loro di invadere il terreno del tempio. Scoppia un tafferuglio, grida di dolore, le guardie ci ordinano di entrare nella torre.

Giungiamo nella sala principale, l’odore acre del fumo invade il nostro olfatto. Decine di sacerdoti sono riuniti in gruppi di due, distribuiti per tutto il tempio. Ordinano a ognuna di noi di raggiungerne una coppia. Ci legano le mani dietro la schiena con una corda, una caviglia viene chiusa in un anello la cui catena è fissata al pavimento. “È per la vostra sicurezza,” ci assicurano. Solleviamo il busto, le gambe discostate l’una dall’altra, la testa alta, i capelli biondi che scendono fino ai lombari, i seni spinti in fuori, come ci hanno insegnato prima di partire; i sacerdoti ci contemplano, girano attorno a noi, ammirano la nostra perfezione.

Sappiamo perché la loro divinità vuole come mogli elfe e non orchesse.

L’Anziano è seduto sul palchetto che sovrasta tutta la sala. Batte il suo bastone, il brusio nel tempio scompare. “Oggi inizia il vostro cammino verso l’apprendimento di tutte le tecniche per soddisfare il vostro futuro sposo, il terribile ma giusto Krakh’thul. Potrà apparirvi come un anno di sofferenze e difficoltà, ma vi ricordo che avete avuto la possibilità di essere le mogli di un dio, che donerà ricchezze e salute al vostro villaggio.”

Deglutiamo, i nostri occhi si muovono attorno a noi alla velocità del nostro cuore; gli anni trascorsi sussurrandoci l’una con l’altra la fortuna che ci era toccata per essere state scelte sembrano appartenere a elfe che non conosciamo. I sacerdoti si avvicinano a noi, ci toccano: sulle nostre pelli le loro dita sono fredde, rugose, sono come le cortecce degli alberi. Alberi morti. I loro fiati appestano l’aria che respiriamo, i loro abiti puzzano anche in questo tempio scuro e dall’aria densa per il fumo. Incubi che infestavano le nostre notti dopo le storie di troll e goblin raccontate attorno ai fuochi affiorano dalle nebbie della nostra memoria.

Ci irrigidiamo quando le mani degli orchi scivolano sui nostri seni, li stringono, li sollevano, le loro mani bitorzolute sulla pelle candida delle nostre forme, la punta delle lingue che guizzano sulle labbra screpolate. I nostri nasi sono invasi da un odore forte, pungente, vomitevole, che non abbiamo mai percepito prima. Uno dei due sacerdoti si sposta dietro di noi, le sue mani afferrano i nostri glutei muscolosi, le dita li spremono, li aprono.

Ogni pensiero di grandezza, ogni sogno di gloria divina si dissolve come la rugiada su un masso sotto il sole. Ci scuotiamo dalle loro prese, i polsi sfregano contro la fune, l’anello alla caviglia ci trattiene. Urliamo, imploriamo. Gli orchi sogghignano, “Non abbiamo ancora nemmeno cominciato.” Ci scuotiamo ancora più, lottiamo inutilmente quando le loro dita si appoggiano sulla nostra orchidea di rugiada, ruvide sui nostri petali, urliamo e ci dimeniamo quando violano il nostro calice segreto. Ridono, gli orchi davanti a noi, ridono con le loro tozze dita dentro il nostro corpo. Le muovono, sono qualcosa che non deve essere lì dentro. Abbassano i loro calzoni, il dito che abbiamo visto sugli inguini dei giovani cresce tra le loro gambe, un grosso stame rugoso che termina in un’antera mostruosa, rossa come il sangue, bulbosa. Da un taglio al centro lacrima una goccia trasparente.

Urliamo, cerchiamo di fuggire, ma l’orco alle nostre spalle ci blocca tenendoci per le anche. Il mostro davanti punta la sua antera contro la nostra orchidea di rugiada ed entra dentro di noi. “Brave, troie,” sogghignano gli orchi. I nostri occhi si fanno pieni di lacrime, i nostri seni sono scossi dai colpi di pianto. Le nostre grida sovrastano i gemiti che echeggiano nella torre.

***

I nostri pianti tengono all’esterno del dormitorio gli strilli notturni della città. Siamo gettate sui letti, le nostre lacrime bagnano i giacigli. Cos’è successo, ci chiediamo. Siamo state scelte per essere le spose di un dio, cresciute inviolate per essere accolte pure come la neve sulle cime delle montagne… È sbagliato… è sbagliato che le elfe siano toccate così dagli orchi.

La nostra mente si affolla di scene di vite che non abbiamo mai vissuto: gli alberi che sfrecciano verso di noi mentre ci lanciamo a perdifiato nella foresta, nascoste tra i gigli ad ascoltare i segreti sussurrati dalle fate, aggrappate ai cervi che galoppano fino in cima ai monti del nord, a ridere gettandoci schizzi nelle acque azzurre del Lago Placido, con i ragazzi rannicchiati tra i giunchi, i nostri corpi nudi che si riflettono nelle loro pupille dilatate, umide di amore... le nostre e le loro labbra che si sfiorano…

Ma ora siamo state usate dagli orchi. Le nostre grida di dolore si fanno ancora più forti, sembrano rompere i nostri polmoni, squarciare i nostri cuori. Il buio della notte nasconde i nostri dolori, nessuno ci sente. Il nostro sacrificio di portare prosperità e pace al nostro villaggio è stato violato, la nostra vita non ha più alcun senso.


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