Ossessione

Capitolo 26 - Incudini sul petto

Il logo con l’incudine e la penna d’oca occupa per un paio di secondi lo schermo e viene sostituito da quello che, nell’immaginario collettivo, dovrebbe essere lo studio di uno scrittore: libri su libri in scaffali in legno, una scrivania che deve aver visto la guerra e una macchina da scrivere di quelle che ti spacchi le dita quando provi a premere i tasti. Stefano Conti, capelli castani ribelli che sfumano in una barba ispida, occhialini tondi e toppe ai gomiti di un maglione che nemmeno mia nonna indosserebbe, sorride dalla sua postazione di fronte alla telecamera. «Bentornati o benvenuti su un nuovo video de “La forgia delle storie”, scuola di scrittura che ha formato autori pubblicati da grandi e piccole case editrici, tra cui Mondadori, Bompiani, Wade Imaginarium—»

Premo un paio di volte la freccia destra della tastiera. Non voglio sentire di nuovo la lista delle case editrici, ormai la so a memoria. Mi sistemo meglio sul pavimento e sposto un po’ la schiena contro il comodino. Il portatile, appoggiato sulle gambe, me le sta scaldando con l’aria che esce dalle grate poste sotto la tastiera.

Lancio di nuovo un’occhiata alla tessera della Postepay appoggiata sul copriletto. Dev’essere la ventesima volta che mi assicuro che sia ancora lì: lei, da brava, non si è mossa. Sa che i soldi al suo interno bastano appena per pagarmi il corso che mi divide dallo scrivere insulsi racconti porno all’essere pubblicata come autrice erotica.

La circonferenza semitrasparente sullo schermo smette di ruotare e Conti riprende a parlare. «…dell’uso degli avverbi di modo e del perché non vadano usati nella narrativa.»

«Ma certamente! A quale demente è passata per la mente l’idea intelligente che dobbiamo eliminare gli avverbi che terminano in -mente?» Sbuffo. «Beh, se va male scrivere storie di pistolini e passere, posso sempre tentare nella poesia… Magari prima miglioro la metrica.»

Lo Youtuber ignora i miei versi idiota e continua a spiegare. «… di parole come "velocemente", "dolorosamente", "stranamente", "ferocemente". Quelle che ti dicono come si compie un'azione. Ma indovina? Il problema è che spesso fanno il lavoro che dovrebbe fare il verbo, o peggio—»

La Postepay non si è mossa di un millimetro, è ancora accanto ad una piega del copriletto che sembra un’onda di tsunami pronta a travolgere una zattera… Una zattera con su un uomo e una donna… Mi appoggio meglio al comodino, che di comodo la mia schiena non trova nulla. Potrei scrivere un racconto erotico con due persone su una zattera, alla deriva? Lui pesca un qualche pesce, lei è affamata, lo vuole, e lui ne approfitta: se vuole mangiare, deve prima fare sesso con lui.

Passo la mano sulla piega che si spiana da una parte. Tolgo la mano e torna ad una posizione simile a prima.

Ci potrei lavorare su un soggetto simile. Lascio andare la testa all’indietro. La superficie del soffitto ha quella lavorazione strana, granulare. Non ho mai chiesto a mio padre se è qualcosa di voluto o se è la conseguenza dell’uso di qualche sostanza nell’erigere i muri.

Alzo la testa, torno a fissare il monitor. Conti sta ancora portando avanti la sua crociata contro gli avverbi di modo.

«…sono la prova che un autore è pigro, un autore che demanda ad una parola la descrizione che dovrebbe fare lui per spiegare al meglio un gesto, uno sguardo, un—»

Appoggio il braccio al letto e la testa sulla spalla. A chi potrei ispirarmi per il ruolo del naufrago? A Dario? Un sorriso di derisione increspa le mie labbra.

No, lui no. Lui è “un bravo ragazzo”, non costringerebbe nessuna donna al sesso per del cibo. Lui glielo dilischerebbe pure. E poi, con le sue capacità sessuali, andrebbe bene per un racconto comico, più che erotico.

Andri sarebbe fantastico. Nudo, sulla zattera: muscoli bagnati dalle onde dell’oceano, che scintillano sotto i raggi del sole, i capelli biondi mossi dal vento, gli occhi azzurri stretti che mi fissano, che mi sottomettono. «Se vuoi mangiare, Marta…» Afferra il suo grosso cazzo in erezione, me lo punta contro, «fammi prima godere.»

Io con la bava alla bocca e alla figa, avanzo verso di lui in ginocchio sui tronchi, bramando il suo uccello. Le sue palle sono gonfie di sborra, voglio riempirmici lo stomaco… Prendo in mano l’asta, lo scappello, la mia lingua passa sul—

Sobbalzo, la mia camera pavese si materializza al posto dell’oceano in tempesta. Solo muri bianchi, e niente acqua. Se non quella nelle mie mutandine.

«Merda…» Metto le mani sulla testa, inspiro a fondo. Devo togliermi dalla mente Andri, lui e io non siamo più colleghi, lui e io siamo divisi da tutta la Lombardia e un tratto di Canton Grigione… Deglutisco, la saliva quasi si ferma dove la gola si stringe. Allungo la mano per afferrare la borraccia, ma stringo solo l’aria.

Accanto a me non c’è nulla. La borraccia è sul tavolino della saletta d’attesa de “La fritula”, quella con l’acqua che bevevamo per non ritrovarci la sborra bloccata in gola dopo i pompini, non nel mio appartamento.

«Merda, merda, merda!» Inspiro a fondo, un suono raschiante proviene dal mio petto. Lo stesso che faceva spesso quando stavo per mettermi a piangere da bambina. «Devo smetterla… Andri non c’è più. C’è Dario, adesso…»

Fisso lo schermo del portatile. «…frase come “sbatte la porta violentemente” non è accettabile, al giorno d’oggi. Una frase ben scritta mostrerebbe il movimento che causa quello sbattere, poi la mente del lettore ricreerebbe la scena con—»

Muovo il culo, mi fa male a stare seduta sul pavimento, ma mi viene l’ansia a sedermi sulla sedia o sul letto. Il letto ancora sfatto dove io e Dario abbiamo avuto mezz’ora fa una pessima scopata, qualcosa di davvero…

Scuoto la testa. No, devo concentrarmi sul video. Conti gesticola troppo con le dita quando parla, mi innervosisce. «…quindi meglio una frase come “Tizio afferra la porta e la scaglia dietro di sé. Il colpo rimbomba per le scale.” D’accordo, si può fare di meglio, ma resta comunque qualcosa che la mente del lettore può ricostruire più agevolmente di una—»

Abbasso lo sguardo. I pantaloni sono sbottonati per stare più comoda seduta sul pavimento. Inspiro a fondo, una nota appena percettibile dell’eccitazione per il pensare ad Andri si alza dalle mie mutandine.

«Sembro una diciottenne arrapata…» Sospiro. «Oddio, non che sia tanto altro…»

Conti continua a parlare. «…sostiene, in una sua intervista, che nei suoi ultimi romanzi non ha usato una sola volta—»

Il dito si posa sul touchpad, un pensiero passa per la mente: andare sul sito della "Chesa dal Piacér" per un’ultima volta, a vedere il profilo di Andri…

Sollevo il dito. No, non lo farò. Devo smetterla, devo smetterla di farmi del male. Lui non c’è più. Lui è in Svizzera, sta con la cagnetta a stelle e strisce, si scopa decine di donne ogni giorno… mi ha dimenticata.

“Ti ricordi di Marta?”, possono chiedergli.

“Marta, chi?”, risponderebbe lui, sollevando le sopracciglia.

Piego la testa indietro, il raschio nel petto torna a farsi sentire.

“La cretina che non te l’ha data quando ne aveva l’opportunità…”, singhiozzerei io.

Chiudo gli occhi, mi bruciano.

Appoggio la testa sul letto; il respiro si è fatto lento, sembra carta vetrata quando passa nella gola.

Il video sullo schermo del portatile termina e YouTube ne carica un altro, sempre dello stesso canale. «Bentornati o benvenuti su un nuovo video de “La forgia delle storie”,» attacca Conti, ancora vestito come un autore uscito da un film di serie B, in uno studio che è un cliché dopo l’altro, «scuola di scrittura che ha formato autori pubblicati da grandi e—»

Non mando avanti, non mi interessa. Chiudo gli occhi, il suono della voce dello youtuber è qualcosa che non raggiunge la mia coscienza. Le dita sfiorano qualcosa di duro e freddo, con dei rilievi.

Apro gli occhi. È la Postepay. No, non devo toccarla.

Ma i polpastrelli non si spostano, restano lì.

Devo lasciarla lì. Devo trovarla quando, questa sera, arriverà…

Il respiro fa sollevare il petto, lo fa scendere.

Lo riempie di nuovo, lo svuota un’altra volta.

Resta un senso di costrizione.

…quando arriverà Dario.

Devo guardare il video, devo lasciare la scheda sul letto, devo…

Devo…

Mi alzo. La Postepay è nella mia mano. Le mie braccia sono nella giacca. La voce che esce dal portatile riempie l’appartamento vuoto.

Non so se ho chiuso la porta a chiave, ma le gambe non vogliono tornare indietro. Il mio cuore ancora di più.

****

Il nuovo telefono vibra nella giacca. Sollevo la testa dal vetro del finestrone e metto la mano nella tasca, la coppia seduta davanti a me mi fissa, infastidita dalla suoneria: qui c’è l’obbligo di spegnerla o almeno abbassare il volume.

Estraggo lo smartphone, qualcosa cade dalla tasca e rimbalza sotto il sedile davanti: è il cioccolatino da caffè che questa mattina mi ha dato Dario. La tipa della coppia mi guarda con palese disprezzo. La cosa non mi sfiora nemmeno, è come acqua che passa attorno ad una roccia.

Sullo schermo appare la foto del mio ragazzo e la richiesta di accettare la telefonata. Si starà chiedendo dove sono, invece di essere a casa, per la cena e tutto quello che dovevamo fare al computer.

Spengo il telefono e lo rimetto in tasca. La scritta in calco della Postepay gratta sulle mie nocchie.

Appoggio di nuovo la testa al vetro. La valle è immersa nella notte, solo le cime delle montagne ardono ancora negli ultimi raggi del tramonto. Non sembra lo stesso luogo dove ho passato quasi tutta l’estate.

Il treno rallenta, la schiena si stacca dal sedile, le prime case sfrecciano fuori dal finestrino.

Gli altoparlanti schioccano, come ogni volta che il convoglio rosso sta per fermarsi. «Bahnhof Pontresina, stazione di Pontresina, Pontresina station.»

I muscoli si rilassano, il cuore si calma, il senso di angoscia scivola via dai miei occhi, quello di desiderio li rende ancora più umidi.

Sono tornata, Andri…


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