High Utility

Capitolo 5 - Episodio 4

Il motore della moto emise un rabbioso miagolio quando abbandonò la Statale 50, infilandosi tra un camion ed un furgone che provenivano dalla direzione opposta, e imboccando una stretta strada dall’asfalto crepato e invaso dalle erbacce. Il cambio di strada fece sobbalzare Flavia, che si strinse più forte a Vittorio, inspirando profondamente mentre si godeva il contatto dei muscoli dell’addome attraverso la tuta da motociclista.

Quattro grossi capannoni grigi, monoliti di un tempo che sembrava quello in cui gli uomini indossavano ancora pellicce di animali dai canini lunghi spanne, abbandonati in un deserto in cui crescevano alberi asfittici e scheletrici, resi meno spettrali, o forse ancora più, da rachitici arbusti cresciuti all’interno dei cancelli arrugginiti, circondarono i due, celandoli dalla vista della Statale. Erano stati abbandonati ormai da anni, chiudendo dopo l’ennesima, ciclica crisi economica, e lasciati lì come ruderi a segnalare ai camionisti in transito la presenza di un bar, che un tempo rifocillava gli operai durante la pausa pranzo e che ora resisteva con le unghie e con i denti alla chiusura in quel luogo abbandonato.

La moto raggiunse il fondo della strada, svoltando a destra dietro l’ultimo capannone, quello che si dimostrava, almeno esteriormente, l’edificio che aveva subito meno la devastazione perpetrata del tempo. Era stato acquistato un paio di anni prima da un imprenditore locale, Luigi Bruni, con l’intenzione di ristrutturarlo e riportarlo in attività: la rete elettrica e quella idrica erano state riallacciate, come poteva testimoniare un solco a metà del parcheggio segnato da una linea di asfalto in uno stato migliore rispetto al resto del piazzale, in quel momento occupato da foglie secche, rami, una SsangYong enorme, di un rosso vistoso, una Tesla tirata a lucido e una Suzuki Katana, oltre alla Yamaha da cui stava scendendo Flavia.

La ragazza scosse la testa per smuovere un po’ i capelli schiacciati dal casco quando se lo sfilò, agganciando poi questo all’impugnatura destra del manubrio della moto, un’abitudine ormai consolidata da mesi di ripetizioni dello stesso gesto. L’altro lato venne occupato dal casco di Vittorio, che indossava anche una tuta da motociclista nera e bianca che ne celava completamente il corpo alto e muscoloso. Si avviarono silenziosamente lungo il piazzale, i sassolini che scricchiolavano sotto le suole delle loro scarpe, unico rumore a parte quello smorzato di qualche camion in movimento lungo la Statale. La porta che fungeva da uscita di sicurezza, apribile anche dall’esterno ormai da tempo, dopo che uno dei ragazzi vi aveva apportato un paio di modifiche ben poco professionali con un pezzo di calcinaccio raccolto tra i tanti mucchi sul pavimento in calcestruzzo, venne spalancata senza problemi da Vittorio, seguito da Flavia all’interno; la ragazza si fermò, chiuse la porta e la bloccò con il manico contorto e spelato di una scopa legato alla maniglia antipanico con un pezzo di spago: solo loro sette avevano il permesso di entrare, e una volta riuniti volevano godere di un po’ di privacy. In realtà, Flavia sapeva che, tecnicamente, non erano degli abusivi, visto che uno dei ragazzi era il figlio dello stesso Bruni che aveva acquistato l’edificio, il quale aveva momentaneamente sospeso i lavori di ristrutturazione già dopo poche settimane a causa di una qualche grana, la ragazza non aveva mai capito se di natura economica o legale, e, sebbene il problema fosse stato risolto, i lavori non erano ripresi perché il proprietario aveva deciso di attendere un periodo economico migliore per continuare.

«Finalmente siete arrivati,» li salutò una voce maschile, che Flavia non ebbe difficoltà ad associare a Jago, uno dei ragazzi con cui condivideva i pomeriggi. O, più correttamente, come si era detta una volta, uno dei ragazzi che condivideva il suo corpo. Soprattutto i suoi buchi.

Quando si tolse lo zaino e lo appoggiò nel rettangolo di non-proprio-sporchissimo che si era formata a furia di porlo sempre nello stesso punto, Flavia si voltò. Nei fasci di luce che solcavano la semioscurità polverosa del capannone, nell’area meno disastrata a poca distanza da lei, vide gli altri partecipanti della loro festa sessuale. Mentre Vittorio cominciava a togliersi la tuta da motociclista, tre ragazzi nudi stavano possedendo due ragazze a loro volta prive di abiti. Su un pezzo di cerata sporca color cachi, Yuri era intento a scopare Natalia, sdraiata di schiena e i grossi seni stretti nelle mani del suo amante, che lavorava di lombi con una veemenza sua tipica; poco più in là, la bionda Alena era seminascosta da Jago, inginocchiato accanto a lei, la testa della ragazza all’altezza del suo inguine, e le sue gambe aperte, una appoggiata a terra e l’altra sollevata tra le braccia di Diego, il cui grosso cazzo scompariva tra le chiappe di lei.

Flavia non si fece attendere e nemmeno chiese il permesso: si tolse la giacca, appendendola ad un chiodo infisso appositamente in una colonna, e iniziò a togliersi rapida i vestiti che aveva indossato a scuola. In effetti, si vestiva pesante soprattutto per non prendere troppo freddo quando raggiungeva in moto il capannone, o avrebbe indossato molti meno abiti per potersi denudare più velocemente. Questo, soprattutto, per poter intercettare Vittorio prima che raggiungesse le altre due troie: la eccitava molto, sia fisicamente che caratterialmente, e riuscire ad essere la prima ad accoglierlo dentro di sé lo riteneva una piccola soddisfazione, sebbene poi si sarebbe passato senza nemmeno pensarci anche le altre due.

Con indosso ancora solo le scarpe e le calze (non le andava di camminare a piedi nudi su quel pavimento lercio e disseminato di frammenti di qualsiasi cosa potesse ferirla), Flavia si avvicinò al ragazzo. Era alta poco meno di un metro e settanta, magra, sia per costituzione che per il moto che faceva molti pomeriggi alla settimana, al punto tale che quasi le si potevano vedere le costole. Aveva il viso leggermente allungato, con gli occhi verdi e i capelli rossi chiaro; il naso, stretto e lungo, accompagnava lo sguardo verso le labbra, per quanto sapessero attrarre da sole l’attenzione, sensuali e sempre pittate di rosso, così come erano spesso rossi anche gli zigomi grazie al trucco che la ragazza si curava di fare ogni mattina. Il seno era una seconda più che dignitosa, sebbene la ragazza invidiasse quello molto più grosso della sua stessa madre, e un ciuffo di pelo sembrava fare la guardia alla fica. Forse, la cosa che più l’aveva messa in imbarazzo durante l’adolescenza erano le sue spalle larghe, prese da sua madre e, da quanto vedeva sulle foto, anche dal padre caduto anni prima durante il servizio di vigile del fuoco, ma lo scoprire che i quattro la possedevano senza preoccuparsene gliele aveva fatte accettare al punto da non pensarci più.

Cercò una frase simpatica da dire a Vittorio quando si pose davanti a lui, che si stava spogliando con movimenti più lenti e indifferenti, appoggiando gli abiti su un tavolaccio posto su alcuni calcinacci, ma non le venne in mente nulla, e, comunque, lui non era certo uno da battute o gesti divertenti. Mentre si toglieva le mutande stando su un piede solo, Flavia non riusciva a distogliere lo sguardo dall’inguine del ragazzo, da cui si ergeva il cazzo in erezione: non il più grande presente nel capannone, sebbene dovesse essere almeno diciassette o diciotto centimetri, con una cappella bulbosa di una certa dimensione, ma comunque il suo preferito.

Le gambe della rossa si piegarono mentre il suo culo nudo si appoggiava sulle calze e percepiva la tomaia delle scarpe contro la pelle dei glutei quando si pose davanti a lui, consapevole che Vittorio avrebbe preferito che usasse la bocca per qualcosa di meglio di qualche vaneggiamento. Sollevò lo sguardo verso il volto del ragazzo, sorridendo. «Grazie per il passaggio,» si limitò a dire, mentre si appoggiava con una mano alla coscia di lui, assicurandosi che un seno toccasse la gamba, e afferrando il cazzo con l’altra mano. Lui rispose al sorriso con un altro, ben più soddisfatto, soprattutto quando un movimento di polso di Flavia fece scorrere la pelle e mise alla luce la cappella, che sprigionò un olezzo intenso al punto da causare un accenno di capogiro alla ragazza, facendoglielo desiderare ancora più dentro il suo corpo.

Vittorio le appoggiò una mano sulla nuca, sebbene senza spingerla contro il proprio membro come faceva spesso. «Datti da fare, e avrai tutti i passaggi che vuoi,» l’assicurò lui, con la voce non lasciava trasparire nemmeno una parvenza di cordialità ma solo il desiderio di godere nella bocca di Flavia, e poi in ogni altro suo buco.

La ragazza non si rese conto che stava iniziando a bagnare le proprie calze quando aprì la bocca e vi fece scorrere all’interno il cazzo del ragazzo di cui provava una cotta. Alto più di un metro e ottantacinque, possedeva un corpo che non avrebbe sfigurato in una gara di culturismo, con muscoli a rilievo in ogni punto visibile. I capelli erano neri al pari degli occhi, e solo l’uso di una quantità spropositata di gel gli permetteva di averli ritti in testa, a ciocche che sembravano una via di mezzo tra Goku e un carciofo. Un grosso tatuaggi tribale, qualcosa che doveva aver richiesto anche cinque o sei dolorose sedute, si irradiava dalla spalla destra simile ad una sfera, scendendo sul bicipite voluminoso, il collo simile ad una bassa piramide e un pettorale grosso quasi più di un seno di Flavia. Il pensiero di quel tatuaggio le fece fremere l’inguine, una sensazione simile al fastidio che provocava il bisogno di mingere iniziò a sorgere tra le labbra della sua fica ormai bagnata.

«Troietta,» la redarguì ridacchiando Alena tra un ansito e l’altro, «lascia un po’ di quella nerchia anche a noi…»

Flavia sollevò la mano libera, chiudendola a pugno e lasciando sollevato solo il dito medio in direzione della voce della sua amica. Nel frattempo, si unì anche l’altra mano di Vittorio sulla sua testa, bloccandogliela.

«Prenditelo tutto, puttanella,» le disse lui, iniziando a spingere tutto il suo uccello oltre le labbra della rossa. Flavia lo sentì riempirle le fauci, che si stavano già colmando di saliva, la lingua schiacciata dalla cappella e poi dall’asta, gustandosi il sapore di maschio mentre le sue narici venivano inondate dai feromoni del ragazzo, trascinandola in uno stato di profonda eccitazione. Sentiva solo il suo cuore battere sempre più forte e il movimento nella sua bocca, la sua gola riempirsi di cazzo e sputo e poi svuotarsi quando lui usciva quasi completamente da lei. Afferrò le chiappe di Vittorio come risposta inconscia al nuovo stato di equilibrio precario nel momento in cui, senza nemmeno accorgersene, qualcuno la afferrò per i fianchi e la fece alzare, mettendola a novanta.

«La zoccola è arrapata,» disse la voce di Diego, alle sue spalle. «Come sempre, dopotutto».

Fu solo con una minima parte della sua coscienza che Flavia si accorse dei due pollici che le aprivano con poca grazie le chiappe, mostrando il suo buco del culo. Ma l’ingresso del grosso cazzo, più simile ad un ariete che sfonda una porta che l’incedere garbato di un dolce amante, ebbe molto più effetto sui suoi sensi. Gli occhi della ragazza si aprirono, e sebbene lei cercasse di non incidere sull’azione dell’irrumatio di Vittorio, non riuscì a non trattenere il fiato mentre la nerchia di Diego prendeva possesso del suo retto.

Nonostante nessun ragazzo del gruppo si potesse definire un angioletto, a cominciare da Vittorio, Diego era senza dubbio, e con l’opinione unanime delle tre ragazze, il più manesco e violento. Non possedeva il fisico perfetto del motociclista che stava scopando la bocca di Flavia, e ne era poco più alto e decisamente più peloso; in realtà, poteva vantare un bel viso, occhi verdi e mascella molto virile, ma lo sguardo affilato e quell’aria da attaccabrighe faceva passare velocemente il desiderio di intavolare una conversazione con lui. Possedeva quelli che Alena aveva definito dei “muscoli nervosi”, e il massiccio cazzo, il più lungo e grosso della cricca, spuntava da una massa di peli neri tenuti meglio di quanto ci si potesse aspettare. Non aveva tatuaggi, ma le cicatrici di un paio di tagli, che nessuna aveva mai osato indagare da cosa fossero stati prodotti, sul costato e sul braccio sinistro, biancastri e poco attraenti, lasciavano intendere che la vita del ragazzo, fuori dal capannone, non fosse una delle più tranquille, per lo meno in passato, sebbene nessuno sapesse cosa faceva per vivere, ma Flavia non si sarebbe comunque aspettata qualche ruolo di responsabilità.

Il sistema digerente letteralmente tappato alle due estremità, con una sensazione di eccitazione proveniente dalla bocca e di fastidio dall’ano, Flavia sentì la sua mente svuotarsi e il suo petto infiammarsi. Stordita, una mano scese al suo inguine, due dita sprofondarono nella sua fica gocciolante, e cominciò a fottersi da sola nell’unico buco che le era rimasto. Troia di Vittorio, Diego, della sua stessa eccitazione e del bisogno di godere per sopprimere quel senso di vuoto che aveva preso ormai domicilio nella sua coscienza, la ragazza si chiavò con una violenza che poteva quasi competere con quella che Diego usava sul suo culo.

Prossima a raggiungere il punto di non ritorno, Vittorio la precedette di pochi istanti: spinse la testa dai capelli rossi contro il suo inguine, sprofondando la sua cappella tra le tonsille e oltre, poi il suo cazzo sembrò dimenarsi quando diversi fiotti di sborra calda schizzarono nella gola della ragazza. Un attimo dopo, quando il cazzo le scivolò fuori dalle labbra, i forti gemiti di piacere di Flavia riecheggiarono nel capannone vuoto, sovrastando anche quelli di Yuri che stava venendo sulle grosse tette di Natalia, che ridacchiava, come suo solito, da oca giuliva.

Flavia si afferrò ai fianchi di Vittorio, la sborra diluita dalla saliva che colava fuori dalla bocca in grosse gocce filamentose, che vibravano nelle grida di piacere della ragazza, completamente perduta nell’orgasmo che si era inflitta. Paradossalmente, solo l’inculata dolorosa di Diego le impedì di crollare con le ginocchia sui frammenti che costellavano il pavimento polveroso, salvandola da spiacevoli e imbarazzanti sbucciature alle giunture e ai palmi delle mani.

Lo stesso Diego sollevò i cinquanta chili della ragazza, una mano sulle tette, l’altra sull’inguine bagnato, il cazzo sempre al suo interno. La strappò letteralmente da Vittorio e la portò semi-stordita sulla cerata. Stringendola a sé, si sdraiò a terra, la rossa sopra il suo corpo, e dopo essersi sistemato meglio l’uccello che era scivolato nel solco delle chiappe durante il movimento, sprofondò di nuovo nell’intestino di Flavia, muovendo il suo stesso bacino, sondando con voga il retto alla ricerca dell’orgasmo che era certo vi fosse nascosto da qualche parte.

Alena, dopo aver soddisfatto Yuri con la sua bocca, apparve davanti a Flavia, che stava riemergendo dalla nebbia del piacere. La ragazza era una bionda, e quasi si poteva definire platinata, alta qualche centimetro più di Flavia, ma dalle spalle più strette tanto da farla sembrare ancora più slanciata. Possedeva due occhi azzurri slavati, che aveva il vizio di imbrattare con la matita, forse con l’intenzione di renderli più appariscenti ma facendoli sembrare ancora più chiari, su un viso allungato. Quanto di bello mancava sul volto, però, veniva compensato dal seno, gonfio, sebbene nemmeno lontanamente quanto quello di Natalia, la terza ragazza del gruppo, forse la prima cosa che permetteva di distinguerla da Alena.

Smaccatamente bisessuale, Alena aveva una certa attrazione erotica verso Flavia e, sebbene fuori dalle orge non la baciasse nemmeno, quando erano nude, in quel capannone, spesso approfittava del corpo della rossa per un po’ di piacere. Cosa che a Flavia non dispiaceva affatto.

Alena non la salutò nemmeno, usando piuttosto le sue labbra su quelle dell’amica e scivolando con poche remore con la lingua nella bocca della rossa, così come le rispettive dita penetrarono nella fica dell’altra.

Il sapore della sborra di Yuri si mischiò con quello di Vittorio nella bocca di Flavia, mentre l’odore pesante di sudore, eccitazione e succhi sessuali inondavano le narici, portando di nuovo la rossa a sperimentare il senso di stordimento che aveva esperito pochi attimi prima.

«Che spreco,» disse Jago, osservando la scena poco oltre, la sua voce vagamente acuta pregna di derisione, «due fighe occupate da delle dita».

Figlio dell’imprenditore che aveva acquistato il capannone, Jago sembrava aver preso dal padre solo ed esclusivamente il cognome e vagamente l’aspetto, ma certamente non le capacità imprenditoriali, palesemente incapace di tenere in tasca anche solo una banconota da dieci euro da mattina a sera. Fisicamente, era quello che si poteva definire il meno virile del gruppo, quello dall’aspetto più da ragazzino, sebbene in mezzo alle gambe nascondesse una sorpresa piuttosto notevole. Magro e poco più alto di Flavia, non aveva muscoli in vista, ma occhi azzurri e capelli biondi scuro, tanto che la ragazza se lo immaginava come il cantante di qualche boyband dei due decenni a cavallo del 2000.

Il ragazzo aprì le gambe di Flavia, poi le labbra della sua fica, scacciando la mano di Alena. Bagnata lei del proprio desiderio e lui della propria sborra e della rugiada di Natalia, il suo grosso cazzo scivolò senza problemi nella ragazza, occupandone piacevolmente l’utero caldo e umido.

«Non posso darti torto,» convenne Yuri, allontanandosi da Natalia e dirigendosi a gattoni verso le altre due ragazze. Considerato il vero ricco del gruppo, aveva fatto degli investimenti a diciotto anni appena compiuti, comprando mille euro di alcune criptovalute che, nei mesi successivi, erano andate, come diceva lui, “to the moon”, rendendo il figlio di un operaio siderurgico nel ventunenne più ricco di tutta Caregan. Aveva il fisico asciutto di un surfista californiano, sebbene sognasse di comprarsi casa e cittadinanza in Svizzera. Gli occhi erano scuri, così come i capelli, ribelli. I pettorali non troppo sviluppati e gli addominali appena abbozzati erano divisi a metà da una riga di pelo curata con vezzo. L’unico tatuaggio che appariva sul suo corpo era una “b” maiuscola con due righe che l’attraversavano dall’alto verso il basso sul pettorale destro, una sorta di strana parodia del simbolo del dollaro, sebbene ripetesse di essere intenzionato a farsene fare anche uno sull’altro pettorale con il cane giallo che Flavia vedeva spesso nei meme su Internet.

«…però io, di Alena, adoro il buco del culo,» specificò, ergendosi in ginocchio dietro la bionda e aprendole le chiappe con le mani come se fossero due metà di una mela. Il suo cazzo, il più piccolo del gruppo, ma anche quello che aveva una resistenza maggiore e che aveva più probabilità di condurre la propria amante all’orgasmo, scomparve nella ragazza, che emise un gemito quasi esagerato, incitando poi Yuri a spingere più forte, a farla godere, che era la sua troia.

Lasciata sola, Natalia, messasi seduta, strinse le braccia sul grosso seno lordo di sborra ancora liquida che colava poi lungo la pancia piatta. «Uffa, a me non mi scopa più nessuno?» domandò nella sua voce che sembrava un pigolio.

Dolorosamente consapevole che Natalia era la più bella del gruppo, Flavia la considerava come una Barbie alta un metro e ottanta e con la stessa intelligenza della bambola di plastica, gli occhi azzurri e dei capelli biondi raccolti in una coda. Aveva un seno gonfio, due gambe lunghe e affusolate che terminavano in chiappe marmoree e sempre pronte ad essere possedute. Era completamente depilata e Alena sosteneva passasse un po’ di rossetto sulle labbra, prima delle orge, e non solo quelle della bocca.

«Non preoccuparti, troietta,» l’assicurò Vittorio, appoggiandole una mano su un seno e spingendola a terra. Le si sedette sopra la faccia e glielo mise in bocca, sprofondando completamente in lei. «Ci penso io a non farti annoiare».

Pochi istanti dopo dalle labbra della bionda iniziò a sfuggire un suono liquido, in sincronia al movimento del bacino dell’uomo. L’attimo successivo, le gambe di Natalia vennero aperte da Diego e anche le altre labbra della ragazza si chiusero su un cazzo.

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