La Fata di Ferro

Capitolo 3 - Attrazione burrosa

Giovanna Esse
a day ago

La Fata di Ferro aveva una casa che solo nel mondo delle fiabe era

possibile immaginare.

La giovane principessa si era presentata a lei, armata solo della sua

innocenza, della sua voglia di vivere e dei suoi timori.

Aveva vissuto tra gli echi del bosco con la forza della paura.

Aveva sentito su di sé il peso dell'indifferenza. Ora, tutto questo si

contrapponeva all'ambiente fantastico che l'attendeva.

Era stata accolta come la più bella delle principesse.

Le miscele di cacao più esclusive arrivavano da ogni parte del mondo per

confezionare le sue cioccolate, mentre biscotti, marzapane e miele non

mancavano mai, all'ora della merenda.

La Fata di Ferro era intransigente: prima di tutto i compiti.

Ma, come per incanto, anche quelle ore passavano spensierate: era bello

studiare se il premio era un sorriso della fata. Faceva del suo meglio per

collezionare buoni voti, per non interrompere quel connubio felice.

La Fata di Ferro si dimostrò, per lei, la migliore delle amiche.

Bellissima, grande, prosperosa. Indossava sempre vestiti colorati e

sgargianti: un vero e proprio inno alla gioia.

Aveva mille abiti, tutti troppo corti per nascondere le sue grosse gambe,

burrose; tutti troppo stretti per contenere i seni gonfi o le natiche tonde.

Nella casa della Fata tutto era a sua disposizione e non doveva far altro

che essere felice.

La padrona di casa l'aiutava nelle scelte, condivideva le sue idee, la

consigliava con l'esperienza che aveva accumulato negli anni. Alba non

trovava mai da obiettare ai suoi pareri sussurrati. Anzi. Pendeva dalle

sue labbra.

Ma la cosa più importante è che le donava tutta la sua attenzione,

incondizionatamente. Nulla contava più della principessa.

Il centro dell'universo per la Fata di Ferro era Alba e tutto ciò che lei

diceva era interessante, unico e prezioso.

Stava in famiglia con piacere ma il mondo delle fiabe l'attendeva,

quotidianamente, e non vedeva l'ora di poter ritornare in quella casa,

alla fine del sentiero, tra le buganvillee e gli oleandri: colorati e velenosi.

Ogni giorno la principessina si sentiva più grande e più forte, ogni giorno

correva verso nuove esperienze. Celato nel suo cuore di piccola

peccatrice, aveva un segreto, inconfessabile ma sublime. Una delle cose

che l'attraeva era il corpo della fata; sarebbe rimasta ore a rimirarlo.

Già quell'unico incantamento sarebbe bastato a rendere le visite

improcrastinabili.

Lei era bellissima e, per la gioia di Alba, molto distratta.

Quando sedevano al tavolino delle ghiottonerie, spesso accavallava le

lunghe e opulente gambe, senza curarsi del camice che si alzava e,

salendo, a ogni movimento, metteva in mostra le calze; sempre diverse,

sempre di nuovi colori.

Quelle che le piacevano di più erano nere.

Le calze nere sembravano sempre di una misura più piccola, la seta era

tesa sulla pelle, rendendola appetitosa, mentre lo sguardo, ipnotizzato da

quella visione, cercava il punto dove il nero deciso dell'orlo merlettato

liberava, con uno sbuffo lievissimo, la carne rosea e chiara.

Anche quando si sedeva su un basso pouf, sgranocchiando cannellini e

lacrime d'amore, era facile che Alba riuscisse a carpire un'immagine

delle sue mutandine, schiacciate tra le cosce.

La fata si sedeva lì, per non rubare spazio ad Alba a cui, da principessa

quale era, aveva riservato il posto d'onore sul divano.

Spesso gironzolava per casa, alla ricerca di un granello di polvere

vigliacco, o di uno dei tanti oggetti che, in quella casa fatata, avevano la

strana tendenza a cadere negli angoli più nascosti.

Da quando aveva scoperto che, per ritrovarli, la fata si metteva carponi

mostrandole il fondoschiena oppure le poppe gloriose, Alba, pur essendo

affettuosa e servizievole, non si offriva mai spontaneamente come

volontaria per le ricerche.

La fata aveva infinita pazienza e nulla chiedeva alla sua preziosa ospite.

Per fortuna, tutti i rossori e le vampate peccaminose della giovanetta

passavano inosservati, tant'è che una volta, fattasi coraggio, Alba dal

gabinetto chiamò la sua madrina con una scusa e si fece trovare seduta

sul vaso, con le sottili gambe dischiuse.

Ma lei non disse niente e niente notò, chiusa nella sua "casta"

indifferenza.

Al contrario la principessa, per la vergogna sopravvenuta dopo

l'eccitazione, non volle tornare da lei per due giorni.

Ma il terzo giorno la fata chiamò, e tutto riprese come prima.


Flora credeva di impazzire, tanto la situazione era diventata

insostenibile.

Nonostante le promesse fatte a se stessa e alla madre di Nicòle, la

presenza della ragazza era diventata troppo intrigante e opprimente per

lei.

Il piacere che provava a sentirsi osservata di nascosto da quella piccola

troia le rimescolava il sangue nelle vene e, appena la vedeva o la

pensava, si ritrovava eccitata.

Dal primo istante in cui Nicòle giungeva a casa, la parte più recondita di

lei iniziava a grondare di piacere.

Desiderava l'orgasmo per ore, mentre le sue guance avvampavano e i

suoi seni sudavano.

La voleva!

Voleva sfogare sul suo corpo delicato quell'infinito desiderio.

Il primo giorno che Nicòle disertò le lezioni, Flora respirò e, dopo

settimane di stress, riprese il controllo della sua vita e della sua casa.

Era una piccola despota. Una piccola canaglia, quella sua principessa!

Il secondo giorno s'immalinconì. Le mancava. Voleva essere

tiranneggiata ancora da quell'impertinente spiona. Le mancavano i suoi

occhioni che le fissavano le cosce.

E sì che Nicòle aveva davvero esagerato; farsi trovare nuda sul gabinetto,

ancora bagnata.

Pensieri deliziosi l'avevano attraversata, come correnti galvaniche.

Ma doveva comportarsi da adulta responsabile. Doveva resistere!

Quella sera si decise e chiamò un suo amico, per dare sfogo al vulcano

della sua libidine. Ma l'uomo era già impegnato; il fatto che lui non

potesse raggiungerla la rese ancora più furiosa.

Si frugò nell'intimo, meccanicamente, sul suo letto, ma il piacere la rese

ancora più eccitata e incapace di vincere il desiderio di Nicòle.

La sera del terzo giorno la fece finita. Telefonò.

«Ero certa che ti avesse avvisato» rispose Franca, perplessa «i giovani di

oggi non hanno più nessun rispetto.»

«No, lasciala stare, sono ragazzi, magari qui da me si annoia. Purtroppo

non ho vicini con ragazzi della sua età. La capisco poverina» la giustificò

Flora.

«Aspetta adesso te la chiamo, vediamo come si sente.» Poi Flora,

trepidante e impacciata, udì le voci lontane di Nicòle e della madre:

«Ma che ti salta in mente? Perché non hai avvertito Flora che stavi

male?» «Uffa, ma io non stavo bene, pensavo che glielo avessi detto tu.»

«Sei una gran maleducata. Adesso vai al telefono e scusati...» Seguirono

altre parole che non fu in grado di sentire.

Dopo poco arrivò Nicòle: «Scusa!» esordì.

«E di cosa, tesoro mio? Mi dispiace se sei stata poco bene» disse

raggiante Flora «ma adesso come stai?»

«Sto bene» continuò laconica Nicòle. Poi si sentì confabulare. «Dice

mamma: se non disturbo, posso continuare a venire da te?»

Flora non seppe dissimulare la gioia che le procurarono quelle parole,

così con la voce rotta dalla trepidazione rispose:

«Lo sai, Nicòle, ormai questa è casa tua. Devi decidere tu, se vuoi...

vedermi ancora.»

«Sì. Voglio venirci ancora» disse la giovane.

Il giorno dopo, quando entrò nella casa, un profumo fragrante di torta

di mele e di cannella la pervase.

Flora le andò incontro e si abbracciarono senza parlare.

Da allora però, non si sedette più sul pouf, ma sul divano, di fianco a

Nicòle.

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